Croce Rossa Italiana - Comitato di Pisa
 
nastro tricolore
 

Giorno del ricordo 


Ogni anno a partire dal 2005 in Italia il 10 febbraio si celebra il Giorno del ricordo, giornata dedicata alla commemorazione dei massacri delle Foibe e dell'esodo di migliaia di italiani dall’Istria, dalla Dalmazia e dalla Venezia Giulia tra la conclusione della Seconda Guerra Mondiale e il secondo dopoguerra, in cui migliaia di persone furono uccise durante la complessa vicenda del confine orientale. 
Il Giorno del Ricordo del 10 febbraio è un’occasione per ricordare questi eccidi e per riflettere sui terribili eventi di quegli anni.

Cosa sono le foibe ?
Per parlare di foibe è necessario fare un passo indietro in Istria e Dalmazia, nella prima metà del ‘900, quando si aprì uno scenario di violenti ed intensi conflitti che avevano complesse radici politiche ed etniche, che coinvolgevano l’Italia in primo piano, sia prima che durante il fascismo. Cercheremo di districare le ragioni e le conseguenze della dominazione italiana in Istria ed in Dalmazia, dell’invasione nazifascista della Iugoslavia durante la Seconda Guerra Mondiale, delle stragi iugoslave perpetrate dall’esercito di liberazione di Tito ai danni delle comunità italiane, che prendono il nome di foibe, ed infine dell’esodo degli italiani, che tra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 dovettero per una serie di ragioni lasciare questi luoghi.

Il termine foiba indica una profonda buca, simile ad un pozzo, tipica delle regioni carsiche. Le foibe sono dei veri e propri abissi naturali, particolarmente utili per disfarsi di oggetti di grandi dimensioni. Nella Venezia Giulia, durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale, si diffuse l’usanza di gettare dentro le foibe i corpi delle vittime di scontri tra partigiani e nazifascisti, e quelli delle vittime di alcuni episodi di violenza di massa perpetrati dai partigiani iugoslavi. In questi anni si stavano ponendo le basi per la nascita della Iugoslavia, e a pagarne le conseguenze era la comunità italiana, che negli anni precedenti era stata dominante da un punto di vista governativo, ma anche protagonista di un violento processo di italianizzazione degli altri popoli che abitavano questi luoghi, sia prima che durante l’avvento del fascismo.  

In una foiba venivano generalmente gettati i cadaveri di prigionieri fucilati, che tuttavia potevano anche essere gettati in altri tipi di cavità, in particolare pozzi e miniere. In altri casi, le vittime delle stragi venivano gettate nelle foibe (o ‘infoibate’) mentre erano ancora in vita, senza alcuna speranza di sopravvivenza. Identificare con ‘foibe’ tutte le violenze iugoslave è fuorviante, perché la maggior parte delle vittime non venivano affatto gettate nelle foibe. Nonostante questo, nei titoli dei libri di storia, dei documentari e degli articoli di giornale, il termine ‘foibe’ è andato progressivamente ad indicare tutte le stragi perpetrate dagli iugoslavi tra le due prime ondate (1943 e 1945) e nell’immediato dopoguerra, per ragioni essenzialmente legate al forte impatto emotivo delle ‘infoibazioni’. 

Venezia-Giulia: un territorio complesso
Per capire le stragi iugoslave ricordate con il termine "foibe", è indispensabile calarsi nel contesto della Venezia Giulia, e cioè delle ex province di Fiume, Gorizia, Pola e Trieste. In queste province, prima dell’annessione all’Italia, abitavano già da molti secoli persone di lingua italiana ma di cittadinanza austriaca, mischiate, com’era stato normale in un impero non di carattere nazionale, a nutrite comunità di sloveni e croati. Vi era poi una folta comunità di tedeschi, ma anche vivaci minoranze costituite da ebrei, serbi, greci e turchi. I non-italiani erano in tutto circa mezzo milione di persone. Tra il 1918 ed il 1920, dopo la vittoria nella Prima guerra mondiale, l’Italia annette progressivamente la Venezia Giulia, provocando i primi esodi forzati di non-italiani, nonché l’inizio di un processo che già allora mirava alla forzata italianizzazione di queste popolazioni. L’insegnamento di lingue diverse dall’italiano venne proibito, le personalità di spicco delle comunità non italiane vennero internate, ed iniziò una copiosa immigrazione di italiani, provenienti in particolare dal veneto e dalla puglia.   

Le violenze perpetrate ai danni dei non-italiani che abitavano in Slovenia ed in Dalmazia risalgono ad ancora prima che il fascismo salisse al potere: un ottimo esempio è l’incendio del Narodni dom a Trieste, una “casa della cultura” che ospitava numerose associazioni ed attività della comunità slovena della città. Il 13 luglio del 1920, in occasione di un comizio fascista, il Narodni dom venne assediato dagli italiani, che dopo alcuni tafferugli appiccarono fuoco all’edificio con taniche di benzina. Completamente devastato al suo interno, il Narodni dom venne poi sottratto alla gestione delle associazioni patriottiche slovene (che sarebbero state presto sciolte dal regime fascista) e convertito in albergo.  

Durante la guerra: le cause delle foibe
Il 6 aprile del ‘41 i paesi dell’Asse invasero la Iugoslavia. Il paese, già teatro di intense divisioni interne, venne smembrato, e l’Italia occupò alcune parti della Dalmazia, del Montenegro e della Slovenia, mentre i nazisti ottenevano la Slovenia settentrionale e occupavano militarmente la Serbia. In Slovenia, gli italiani istituirono la ‘provincia di Lubiana’, e la popolazione rispose con la guerriglia armata. La reazione fascista fu brutale: massacri di civili e incendi di interi villaggi. La famigerata “Circolare 3C” del comandante italiano nella provincia di Lubiana, Mario Roatta, comprendeva sanguinose rappresaglie nei confronti della popolazione slovena, uccisioni di ostaggi e internamenti ‘preventivi’ di intere famiglie e popolazioni di villaggi in campi di concentramento: tutte misure che furono applicate senza alcuna pietà. Nel febbraio del ‘42, la città di Lubiana venne circondata da un muro di filo spinato innalzato dagli occupanti fascisti e presidiato da torri di controllo: in questo modo la città era assediata; i maschi adulti vennero catturati e rinchiusi in campi di concentramento. Tutto considerato, le vittime dell’occupazione italiana in Slovenia (in particolare a Lubiana) furono più del 6% dell’intera popolazione.  

Molti dei sopravvissuti ai massacri perpetrati dagli italiani e dai tedeschi si unirono alla resistenza antifascista iugoslava, sotto il comando di Josip Broz (nome di battaglia: Tito). Questa resistenza comunista non consisteva in semplici bande di partigiani: a partire dall’aprile del ‘41 stava assumendo i connotati di una formazione antifascista militare, l’Esercito popolare di liberazione della Iugoslavia (1942). A complicare le cose c’era anche la presenza dell’Esercito iugoslavo in patria (JVUO, anche detti cetnici), un’organizzazione rivale, monarchica e nazionalista, tendenzialmente antinazista ed inizialmente appoggiata dai britannici, ma pronta a collaborare coi fascisti italiani contro i partigiani di Tito e contro gli ùstascia, ultranazionalisti croati che rivendicavano la Dalmazia italiana. Ben presto, gli alleati riconobbero esclusivamente l’esercito di Tito.  

La lotta tra l’esercito di Tito e i nazifascisti fu durissima. Dopo l’armistizio (8 settembre 1943), molti italiani sarebbero tornati rovinosamente in patria, prefigurando il successivo “esodo”. Alcuni continuarono però a combattere a fianco dei nazisti (spesso occupandosi di rastrellamenti, esecuzioni, torture), mentre altri si sarebbero addirittura uniti a Tito. Man mano che liberava parti dei territori occupati, l’Esercito popolare di Tito organizzava comitati popolari governativi, stabilendo le basi per il futuro della Iugoslavia. Un futuro che purtroppo prevedeva, nei confronti di molti italiani in Istria ed in Dalmazia, una spietata resa dei conti che si sarebbe realizzata con l'eccidio delle foibe.

Fonte: studenti.it

Eleborazione gerafica: Lavinia Casalini
Ricerca: Roberto Marchetti