Croce Rossa Italiana - Comitato di Pisa
 
nastro tricolore
 

I like sui post antisemiti pubblicati nei social network costituiscono un grave indizio del reato di istigazione all’odio razziale. Il gradimento, infatti, non solo dimostra, incrociato con altre evidenze, l’adesione al gruppo virtuale nazifascista, ma contribuisce alla maggiore diffusione di un messaggio, già di per sé idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone.

I like possono costituire un grave indizio del reato di istigazione allodio razziale

Il caso

Tizio è stato ritenuto responsabile per aver messo dei «like» su Facebook in riferimento ad alcuni post antisemiti e di averli successivamente rilanciati dai propri account social.

Tizio è stato sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di presentazione e firma all’autorità giudiziaria in base al reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione; l’illecito è stato posto in essere, soprattutto, sulla base dell’attività social, interagendo con una comunità virtuale neonazista, il cui scopo principale era la propaganda e l’incitamento all’odio razziale.

Ricorrendo in cassazione, Tizio, basa la sua difesa sulla teoria secondo cui i «like» sono una semplice espressione di gradimento e non possono dimostrare né l’appartenenza ad un gruppo nazifascista né la condivisione degli scopi illeciti.

La decisione della Corte
La  Cassazione, con la sentenza n. 4534/2022, respinge il ricorso contro la misura cautelare disposta dal GIP, per il reato di istigazione all’odio razziale. I giudici ritengono i like sui social network penalmente rilevanti e sufficienti le manifestazioni di adesione e le condivisioni per far scattare il reato di istigazione all’odio razziale, per di più quando si tratta di messaggi discriminatori e negazionisti contro gli ebrei (descritti come «veri nemici») e contro la Shoah (definita «una menzogna madornale»). I social, infatti sono “equiparati al mezzo pubblico” per la dirompente carica del messaggio: un post pubblicato sul web, infatti, ha le medesime possibilità di raggiungere la massima notorietà e viralità sia che provenga da un account “famoso” che di uno sconosciuto, ovunque essi fisicamente si trovino.
I like che Tizio aveva disseminato sul social network attraverso profili a lui riconducibili rappresentano delle interazioni di approvazione nei confronti di contenuti che, su Facebook, VKontacte e Whatsapp, puntavano a mettere in evidenza una manifestazione di pensiero antisemita e razzista.

Secondo i difensori di Tizio, non c’erano gli estremi per considerare tali like come prove per valutare la sussistenza di un reato di specie: il fatto di aver messo like non contemplava la possibilità di un incontro fisico con gli autori materiali di post o di articoli antisemiti o razzisti.

Tuttavia, la Cassazione ha valutato diversamente, tenendo in considerazione anche un aspetto dell’algoritmo di Facebook. Non bisogna dimenticare, sottolinea il provvedimento, che i social network come Facebook considerano rilevanti i «like» grazie ad un algoritmo che permette di far arrivare un contenuto a molte più persone: «la funzionalità “newsfeed”, ossia il continuo aggiornamento delle notizie, spiega la Suprema Corte, e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio».

Secondo la Cassazione, il fatto che l’algoritmo di Facebook si “nutra” di like rappresenta un discrimine rilevante per valutare un comportamento. La diffusione di un post, infatti, è tanto più alta quanto maggiore è la portata di interazioni, commenti, condivisioni. Dunque, una persona che metta un like a un post si rende responsabile della possibilità che quel post o quel commento abbia una maggiore visibilità anche presso altri utenti. In virtù di questo fatto, dunque, anche la semplice interazione può essere annoverata tra gli indizi che concorrono alla costruzione dell’accusa per il reato di istigazione all’odio.

Nei post che risultavano graditi all’utente e ai suoi profili, c’erano riferimenti all’identificazione della comunità ebraica come “vera nemica” e si puntava decisamente sul negazionismo della Shoah e dello sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Il fatto che l’utente avesse messo like, pur senza aver mai incontrato di persona l’autore di quei messaggi, ma avendolo soltanto “seguito” in una comunità virtuale che propagandava questo tipo di contenuti, è ritenuto un indizio per definire l’eventuale istigazione all’odio.

Fonte: quotidianogiuridico.it