Gli avversari
A pochi mesi dalla morte, nel 1887, sostenne il tentativo di Crispi per ottenere il passaggio del Trentino dall'Austria all'Italia.
Il termine "Risorgimento", sebbene non del tutto rispondente alla realtà storica, indica che qualcosa riprende coscienza di sé, tornando di diritto a possedere una propria dignità perduta. Nel nostro caso, si tratta della rinascita di nazioni che, seppur comprendenti realtà etniche e storiche ben definite, si trovavano, in una data epoca, subordinate ad altre potenze straniere. Il concetto di "risorgimento" implica, naturalmente, quello di una precedente "caduta" e questa, per quanto riguarda la situazione italiana, si verificò soprattutto nel secolo XVI, quando gli Stati della Penisola, a causa della loro debolezza e delle loro divisioni, divennero preda dell'imperialismo asburgico e francese.
Fra quelli europei, quello italiano fu il più lento e il più difficile ad attuarsi, a causa delle particolari condizioni di frammentazione geografica e politica e della delicata questione religiosa e di rapporti internazionali posta dalla presenza sul suolo italiano dello Stato Pontificio. In compenso, però, quello italiano fu il più ricco di contenuti: nella definizione di Giuseppe Mazzini, infatti, il Risorgimento comprendeva tre obiettivi: l'unità della nazione, la sua indipendenza e la libertà dopo il riscatto, ovvero la costituzione di uno Stato repubblicano e democratico.
In altri Risorgimenti, invece era presente solo l'elemento dell'indipendenza, come ad esempio in quello belga, o dell'unità, come in quello tedesco; soltanto nella peculiare situazione italiana troviamo riunite, fin nel pensiero del suo primo teorico, un così ampio spettro di qualificazioni e di obiettivi politici.
Dal punto di vista storico, le tappe indicate da Mazzini si sono realizzate nel corso di più di un secolo di vicende:l'unità nel marzo del 1861; la totale indipendenza nel novembre del 1918; la libertà nel giugno del 1946 e nel gennaio del 1948, con il referendum istituzionale prima, e poi con l'entrata in vigore dell'attuale Costituzione della Repubblica. La lucida, quasi profetica analisi mazziniana, era però estremamente carente dal punto di vista dell'individuazione degli strumenti necessari per la sua attuazione.
Mazzini, infatti, riteneva che il Risorgimento potesse realizzarsi soltanto attraverso una rivoluzione popolare, volta contemporaneamente anche in senso democratico:l'Italia doveva essere liberata al tempo stesso dai tiranni stranieri e da quelli locali. Tale visione mancava di concretezza e di pragmatismo, in quanto non teneva conto del fatto che il Risorgimento di una nazione, dal momento che altera inevitabilmente degli equilibri politici, è anche una questione diplomatica internazionale che richiede la paziente tessitura di alleanze.
Mazzini non comprendeva neppure che, per il riscatto di un popolo e la nascita di un nuovo Stato, non sarebbero state sufficienti barricate e martiri, ma serbbero occorsi capitali, eserciti e la convergenza degli interessi di almeno una parte delle potenze egemoni in Europa.
L'Italia si estende su una penisola che divide il Mediterraneo in due bacini, ed è dotata, dunque, di un'importanza strategica e geografica unica. Questa caratteristica, che aveva costituito il motivo della disgrazia politica italiana nei secoli passati, se abilmente sfruttata, avrebbe potuto invece contribuire ad instaurare rapporti diplomatici favorevoli con qualche potente nazione europea.
A comprendere che Inghilterra e Francia potevano essere utilizzate per il Risorgimento nazionale, e che la sua guida doveva essere affidata ad uno Stato con un esercito piuttosto che alla rivoluzione di popolo; a scorgere del Risorgimento il volto prosaico e pragmatico, al di là di quello poetico e romantico, non poteva che essere uno statista, non un ideologo:un primo ministro della caratura di Camillo Benso, conte di Cavour.
Dal punto di vista politico, dunque, il Risorgimento si sviluppò attraverso il contributo dinamico sia delle forze liberal-moderate sia di quelle repubblicane, poste in fiera rivalità fra di loro. Sotto l'aspetto militare le prime espressero la loro azione per mezzo degli eserciti monarchici, le seconde apportarono il generoso contributo delle forze irregolari dei volontari. E' giusto ricordare, tuttavia, che la maggior parte del popolo italiano rimase passiva, o comunque, seguì e vicende risorgimentali con brevi entusiasmi fugaci.
Paradossalmente, anche l'attentatore alla vita di Napoleone III, l'anarchico Felice Orsini, contribuì a questo clima di seduzione, grazie alla dignitosa e "maschia bellezza" che seppe ostentare durante il processo. L'Imperatrice ne restò infatuata e commossa e l'Imperatore stesso ordinò la pubblicazione della lettera che l'Orsini gli aveva inviato prima di salire il patibolo, chiedendo alla Francia di restituire all'Italia "l'indipendenza che i suoi figli hanno perduto per mano dei francesi"(Orsini si riferiva ovviamente ai tempi lontani di Carlo VIII).
Di ritorno da Parigi, ove aveva partecipato al tavolo della pace per la Crimea, Cavour poté pronunciare alla Camera un discorso che suscitò in tutta la Penisola un'eco di entusiasmo enorme: "Per la prima volta nella nostra storia, la questione italiana è stata portata e discussa dinanzi ad un congresso europeo, al tribunale della pubblica opinione. La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte: ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspetteremo l'esito finale".
Su un piano sostanziale, la partecipazione sabauda alla Guerra di Crimea non aveva comportato alcun vantaggio ma la pubblica opinione ora comprendeva che qualcosa di molto più convincente delle barricate era in movimento; intravvedendo anche che lo Stato sabaudo e con esso la via monarchico-moderata, più che quella rivoluzionaria, avrebbero potuto rispondere concretamente alle aspirazioni patriottiche degli Italiani. Di ciò si ebbe assoluta certezza solo nel 1858, quando, nell'incontro svoltosi a Plombières tra Napoleone III e Cavour, furono stabiliti i termini di un accordo militare che prevedeva, fra i vari punti, che l'esercito francese sarebbe intervenuto in Italia a fianco del Piemonte qualora questo fosse stato aggredito dall'Austria; in tal caso, il comando supremo dei due eserciti sarebbe spettato a Napoleone III.
Poiché le condizioni di pace della precedente guerra contro l'Austria vietavano, tra l'altro, al Piemonte la ricostituzione dell'esercito, Cavour iniziò a mobilitare truppe in segreto e per gradi, accampando i più svariati pretesti. Egli sperava in questo modo di provocare l'aggressione austriaca. Inoltre, Garibaldi venne chiamato a colloquio e assicurato "al guinzaglio", mentre il famoso discorso del "grido di dolore"fece affluire in Piemonte da tutta Italia circa 29.000 volontari, subito inquadrati nell'esercito regolare e nella brigata "Cacciatori delle Alpi", posta sotto il comando di Garibaldi. Fortuna volle che il giovane ed altezzoso Imperatore austriaco, Francesco Giuseppe, reagisse alle provocazioni della "pulce piemontesi" con ultimatum che Massimo d'Azeglio non esitò a definire "uno di quei terni al lotto che capitano una volta in un secolo". La parola così passava agli eserciti.
L'esercito austriaco, dunque, attraversò il Mincio diviso in due Armate: a nord la 2° Armata, composta dall'VIII Corpo del Generale Benedek, dal V, dal I e dal VII Corpo; a sud la 1° Armata, composta dal IX, dal III e dall'XI Corpo, il cui obiettivo era Carpenedolo, sul fiume Chiese. Nei piani dello Stato Maggiore austriaco, la 2° Armata doveva tenere inchiodato il nemico, mentre la 1° aveva il compito di aggirarlo, avvantaggiata dalla manovra di avanzata su terreno pianeggiante. Frattanto, il 24 Giugno, i Piemontesi avevano raggiunto a nord il territorio di Pozzolengo; il I Corpo d'Armata francese (Baraguey e d'Hilliers), con la Guardia imperiale e Napoleone, erano in prossimità di Solferino, il II (MacMahon), il IV (Niel) ed il III Corpo d'Armata (Canrobert) gravitavano su Medole. Le cavallerie in ricognizione il giorno precedente avevano scorto un gran movimento di truppe nemiche sul Mincio, ma Napoleone aveva pensato che si trattasse soltanto di robuste retroguardie e sicuramente non di un movimento di avvicinamento in grande stile. D'altra parte neppure l'austriaco Hess riteneva di trovarsi di fronte l'intero esercito alleato, rimanendo convinto di dover affrontare soltanto truppe d'avanguardia.
A san Martino e Solferino, insomma, entrambre gli schieramenti erano in marcia e nessuno dei due si trovava disposto in ordine di battaglia, tanto che i sanguinosissimi scontri si sarebbero accesi all'improvviso, come sempre accade nelle battaglie d'incontro, senza, quindi, una preventiva pianificazione tattica. Al levar del sole, si verificò l'incontro tra il I Corpo francese e il V austriaco. Alle ore 6 i francesi ebbero l'amara sorpresa di trovare la collina di Solferino occupata dal nemico; così come, nello stesso momento, i Piemontesi trovavano inaspettatamente occupata dagli Austriaci a San Martino, circa 6 chilometri più a nord. Lo sconcerto coglieva, naturalmente, anche gli Austriaci, convinti che l'esercito degli alleati fosse ancora sul fiume Chiese, almeno una dozzina di chilometri più a ovest. In una tale sorta di commedia degli equivoci, restava da vedere chi per primo si sarebbe ripreso dalla beffa che il destino aveva voluto giocare.
Sull'intero fronte i Francesi, invece, schieravano circa 100.000 uomini contro 95.000 Austriaci. Questi ultimi erano notevolmente superiori nell'artiglieria, poiché disponevano di circa 350 pezzi contro i 250 dei francesi, i quali però godevano di due notevoli vantaggi che si sarebbero rivelati poi, risolutivi. Anzitutto, Napoleone III era presente sul luogo dello scontro e avrebbe potuto dirigerlo personalmente dal monte Fienile, quasi sulla linea del fronte, mentre Francesco Giuseppe ed il generale Hess si trovavano in posizione molto più arretrata rispetto alla linea del fronte, nella località del Volta, e non sarebbero riusciti quindi, ad avere un quadro altrettanto chiaro della situazione tattica. In secondo luogo, aggregata al I Corpo francese si trovava in riserva la Guardia imperiale francese che, conservando la tradizione di Napoleone I, era costituita da truppe sceltissime, le migliori che si trovassero in Italia.
Al contrario, gli Austriaci, come avrebbe osservato il generale prussiano Moltke nel commentare Solferino, non disponevano di alcuna riserva da poter impiegare in battaglia al momento giusto. Dal suo osservatorio, dunque, Napoleone III intuì immediatamente la chiave della battaglia: la collina di Solferino era il perno dello schieramento nemico, e, sfondando in quel settore, egli avrebbe potuto mettere in crisi l'intero esercito austriaco. Per una curiosa coincidenza, la situazione sul terreno non era dissimile da quella affrontata dal suo illustre zio as Austerlitz. In questo caso, però, il I Corpo francese non poteva ricevere rinforzi perchè l'alleato piemontese, ubicato ala sua sinistra , si trovava già impegnato in combattimento contro l'VIII Corpo d'Armata austriaco a San Martino; inoltre, due delle cinque brigate del V Corpo francese erano impegnate alla Madonna della Scoperta e, infine, Napoleone III non poteva sperare neppure nell'IV Corpo di Niel alla sua destra, che, già si trovava in difficoltà con il III e il IX Corpo asburgico e, a sua volta, aveva bisogno del sostegno del II Corpo d'Armata di MacMahon e del III di Canrobert.
Il I Corpo, pertanto, avrebbe dovuto battersi da solo, in un attacco estremamente richioso, contro il parere del generale Baraguey d'Hilliers. Napoleone III, perfettamente cosciente della responsabilità che si assumeva da solo e in prima persona, ma, del resto, lucidamente convinto che nessun'altra condotta gli si presentasse da scegliere, trepidante, diede l'ordine d'attacco.
I Cacciatori, durante la campagna del 1859, arrivarono a 10 km da Trento, procurando a Garibaldi una grande popolarità, ma dopo l'armistizio di Villafranca e la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, un certo raffreddamento dei rapporti tra Casa Savoia e il nizzardo Garibaldi fu ovviamente inevitabile.
Si materializzò così, anche in forza delle argomentazioni del siciliano Crispi, il progetto di spedizione in Sicilia che seppur mosso al motto di "Italia e Vittorio Emanuele", avrebbe potuto dar luogo a complicazioni gravi, procurando a Garibaldi una fama eccessiva. Cavour quindi, cercò, senza successo, di ostacolare l'impresa dei Mille, che però, in realtà, avrebbe senza dubbio propiziato, con un modesto spargimento di sangue, l'unificazione Italiana sotto la corona sabauda.
A dire il vero, l'ottantenne maresciallo Nugent era l'unico, in tutto l'entourage di Francesco Giuseppe, che consigliasse di far affluire a Solferino massiccie riserve, ma l'età giocava a suo sfavore, e le sue parole non vennero ascoltate. In conclusione, al V Corpo arroccato a Solferino non giunsero gli aiuti richiesti a Benedeck, tanto impegnato dai Piemontesi a San Martino che credeva di avere addirittura dieci brigate sarde, anziché quattro, contrapposte alle sue sei. Qualche rinforzo austriaco, concesso per di più con riluttanza, giunse solo dal I Corpo, dietro al V, ma questo contingente si rivelò comunque troppo debole.
Alle 12.00 Napoleone III prese la decisione di far intervenire nella battaglia la Guardia imperiale francese, rinforzata anche con due brigate della divisione Forey: quest'ordine costituiva quella che Napoleone I, cinquant'anni prima, avrebbe chiamato la "dannata decisione". 5.000 dei migliori soldati ancora freschi, si avventarono contro gli esausti difensori austriaci di Solferino. Solo a questo punto il Comando supremo austriaco si rese conto della grave lacuna di non aver disposto una riserva che potesse gettare nella mischia al momento opportuno: Benedeck non era in condizione di distogliere neppure un uomo da San Martino e, a sud, anche il III e IX Corpo si trovavano, adesso, energicamente impegnati da violenti attacchi lanciati da MacMahon, Niel e Canrobert.
Alle 14, seppur decimate dall'artiglieria, le truppe francesi conquistavano di slancio le posizioni difensive sulla collina. Le due brigate della divisione Forey avevano assaltato alla baionetta il cimitero, la Guardia aveva raggiunto il castello, e la pur provata divisione Bazaine era riuscita a ripulire il paese dagli Austriaci.
Alle 17 Solferino si trovava in mano dei francesi, insieme ad un totale di 1.500 prigionieri asburgici, 14 cannoni e 2 bandiere nemiche. A sud, intanto, MacMahon aveva preso San Cassiano, scacciandone il VII Corpo di Zobel, Canrobert avanzava da Medole e Niel occupava Guidizzolo, sloggiando il III Corpo di Schwarzenberg e l'XI Corpo di Veigl. Soltanto verso le 15, Francesco Giuseppe si risolse a lasciare Cavriana per rincuorare le truppe con la sua presenza e con la celebre frase "Avanti miei soldati! Anch'io ho moglie e figli!". Ma era ormai troppo tardi e il cedimento della 1° Armata sarebbe stato inevitabile.
Più o meno alla stessa ora, anche Vittorio Emanuele, a San Martino, rincuorava i propri soldati. Un'ora dopo, il Comando Supremo austriaco fu costretto a sgomberare da Cavriana e, alle ore 17.30, tutto il fronte meridionale austriaco si ritirava in perfetto ordine. Il fortunale estivo che si abatté poco dopo, sull'intera zona e l'urgente necessità di riposo per l'esercito francese, avrebbero impedito a quest'ultimo l'inseguimento degli austriaci. A nord si sarebbe ancora combattuto ferocemente sulla collina di San Martino e alla Madonna della Scoperta fino alle otto di sera, ma per gli Austriaci la battaglia era ormai perduta.
Intervenuta in loro appoggio la brigata Cuneo, con 3.500 uomini e 4 cannoni, sembrò, ad un tratto, che questa riuscisse a conquistare il colle, ma fu, invece, a sua volta rigettata da 7.000 imperiali appoggiati da 29 pezzi, e dovette riunirsi, scompaginata, ai reparti di Cadorna. Alle 11 giunse a San Martino la brigata Casale, che, nonostante si fosse gettata risolutamente all'attacco, venne sopraffatta da forze fresche nemiche. Queste ultime, a loro volta, vennero ricacciate dal reggimento Acqui, appena sopraggiunto, che lentamente ma inesorabilmente procedva risalendo le pendici.
Il generale Benedeck, il quale sottovalutata la capacità di resistenza della fanteria sarda, fece intervenire allora due brigate, schierandole alle spalle dei Piemontesi impegnati sul crinale di San Martino per prenderli tra due fuochi. L'allarmante situazione venutasi a creare spinse il Capo di Stato Maggiore Enrico Morozzo della Rocca, d'accordo con il Re e Lamarmora, a richiamare la riserva costituita dalla brigata Aosta, alla quale si aggiungeva una certa porzione della divisione Fanti. La riserva si riunì alle forze della brigata Cuneo e di Cadorna. Sulla destra si schierò la cavalleria, sulla sinistra l'artiglieria, ed al centro si dispose la fanteria, forte di 15.000 uomini.
Nella calura afosa del primo pomeriggio intervenne lo stesso Vittorio Emanuele ad incoraggiare le truppe e impartì l'ordine, rimasto celebre, di liberarsi del peso degli zaini (circa 15 chilogrammi) prima di affrontare l'ardua salita disposizione che contravveniva al ferreo regolamento d'allora. Si racconta che anche il Resi rivolgesse in dialetto ai suoi soldati dicendo loro «O prendiamo San Martino o facciamo San Martino!», alludendo all'usanza piemontese di traslocare in occasione della festività di quel santo. Tali parole suonarono come monito estremo agli uomini che si preparavano all'ultimo attacco possibile, in alternativa alla ritirata generale e all'onta della disfatta.
L'assalto, effettuato con estremo coraggio, fu però carente nell'organizzazione, per ammissione dello Stato Maggiore stesso, e privo di compattezza. La brigata Pinerolo aveva appena conquistato la cascina Controcania, quando si scatenò un nubifragio estivo che compromise seriamente la manovrabilità dell'intero schieramento italiano. Alle 19, si raccolsero tutte le forze per l'ultimo disperato tentativo: quattro reggimenti e due brigate, 12.000 uomini complessivamente, ripresero ad avanzare sotto il fuoco di 18.000 Austriaci. Alla fine, 18 pezzi di artiglieria del tenente colonnello Ricotti riuscirono a scompaginare il fianco nemico, sul quale, allora, si avventarono i cavalleggeri del capitano Avogadro, insieme a due brigate appena sopraggiunte. Alle 20, il colle era in mano ai Piemontesi; il generale Benedeck, sconvolto dalla notizia della contemporanea sconfitta austriaca a Solferino da parte dei francesi, decise di abbandonare anche le posizioni alla Madonna della Scoperta, ritirandosi oltre il Mincio con il resto delle sue truppe.
Nel settembre del 1860 l'abilità diplomatica di Cavour permise di scorporare le Marche e l'Umbria dallo Stato della Chiesa. In seguito ai plebisciti e all'annessione delle regioni dell'Italia centro-meridionale, venne dichiarata all'Europa e al mondo intero la nascita del Regno d'Italia, dopo tredici secoli in cui la nazione era stata divisa e soggiogata dalle potenze straniere.
L'ultimo personaggio italiano a fregiarsi del titolo di Re d'Italia prima di Vittorio Emanuele II era stato Arduino d'Ivrea, deposto dall'imperatore Enrico II nel 1014.
Questo il bilancio conclusivo delle perdite subite nelle Battaglie di Solferino e San Martino:
Peraltro la disillusione, unita alle dimissioni di Cavour ed alla sua probabile e definitiva scomparsa dalla scena politica, avrebbe spinto il movimento patriottico nelle braccia di Mazzini e delle sue vaneggianti teorizzazioni sulla guerra di popolo. In questo quadro di debolezza, isolamento e disordine italiano , l'Austria avrebbe continuato a dominare per ancora molto tempo.
Si dice che, dalla parte austriaca, Francesco Giuseppe alla vista del macello di Solferino esclamasse: «Meglio perdere una provincia intera e non rivedere mai più una carneficina del genere !».
Un filantropo ginevrino, Henri Durant, che già a Magenta aveva tentato di organizzare il soccorso ai feriti, al sentimento di orrore seppe unire anche un proposito concreto: dopo soli quattro anni a Ginevra verrà sottoscritta dalle potenze europee una prima convenzione dalla quale sarebbe poi nata la Croce Rossa Internazionale.
Bibliografia:
AA. VV., La Storia - 11: Risorgimento e rivoluzioni nazionali, UTET - De Agostini, 2004, per "La Biblioteca di Repubblica";
Livio Agostini, Piero Pastoretto, Le grandi Battaglie della Storia, Viviani Editore, Il Giornale, 1999
Fonte: arsbellica
Ricerca storica: Roberto Marchetti