Croce Rossa Italiana - Comitato di Pisa
 
nastro tricolore
 
Associazione dei Reduci delle Patrie Battaglie
 
Presumibilmente Giosafatte Baroni, fu Presidente dell' Associazione dei Reduci delle Patrie Battaglie con sede a Pisa.
Riportiamo di seguito un articolo pubblicato da La nazione relativo alla sede di Pontedera, a titolo puramente informativo.
 
Negli anni ottanta del XIX secolo nacque a Pontedera la "Società dei Reduci delle Patrie Battaglie e Fratellanza Militare". Essa aveva lo scopo di non far sopire lo spirito e gli ideali risorgimentali che avevano animato quei valorosi che si erano battuti affinché l'Italia fosse unita. La Società propagandò l'irredentismo e il culto della patria, che mantenne vivo con numerose cerimonie commemorative e raccogliendo chi, a vario titolo e in diversi periodi, aveva partecipato ai moti risorgimentali. Alla sezione di Pontedera che si distinse per l'accesa polemica anticlericale e razionalista, si affiancò nel 1884 la sezione di La Rotta, costituita "fra coloro che presero parte alle campagne del Nazionale riscatto e fra i militari che hanno fatto o fanno parte dell'Esercito".
 
Lo scopo della società, che prevedeva anche "la mutua assistenza morale e materiale, la fratellanza fra tutti i soci, senza distinzione di gradi, di condizioni sociali o di principi politici" portò il 28 febbraio 1882 alla creazione di una speciale sezione denominata "Compagnia di Pubblica Assistenza", che nel 1889 raggiunse l'autonomia aprendosi anche a coloro che non facevano parte della società promotrice, primo embrione dell'attuale Pubblica Assistenza di Pontedera. La Società dei Reduci delle Patrie Battaglie e Fratellanza Militare era ben inserita nel tessuto sociale della città, e pur mantenendo la propria individualità collaborava con le altre società di mutuo soccorso. Sempre attiva per ogni ricorrenza aveva un vasto seguito e le cerimonie che organizzava erano molto partecipate.
 
[...Nel 1888 venne costituito il Sottocomitato Locale di Pontedera, il cui primo Presidente fu il Dottor Francesco Supino e in questo caso si trattava dell'assunzione di quel ruolo importante da parte di un esponente di una notevole famiglia ebrea e, nello stesso tempo, della conferma del ruolo svolto dai medici nell'organizzazione della Croce Rossa Pontedera, del resto, aveva già una base popolare adatta alla nascita della Croce Rossa perché vi esistevano, una Società di Reduci delle Patrie Battaglie dal 1884, Fratellanza Militare a La Rotta 1884 e dal 1886 la Fratellanza Militare nella città stessa. ... ]
 
Una della personalità più importanti della Fratellanza Militare nel primo novecento fu Serafino Boschi. Attivissimo e stimatissimo in città, ricoprì importanti ruoli nell'amministrazione comunale, fu presidente dell'Ospedale "Felice Lotti" nel 1934 e a lungo presidente dei Reduci delle Patrie Battaglie. La Società continuò l'attività almeno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale quando un altro conflitto bussò forte alle porte dei pontederesi.
Michele Quirici
 
Nel luglio 1917 l' associazione dei reduci delle Patrie Battaglie di Pisa si iscrive come socio perpetuo della Croce Rossa versando le 100 lire di prammatica.
 
Fonti:
La Nazione
Storia della Croce Rossa in Toscana dalla nascita al 1914 - studi a cura di Fabio Bertini, Costantino Cipolla, Paolo Vanni. Edizione Franco Angeli
Massimo Vitale "Però mi fo coraggio" Edizioni ETS

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

Consolato operaio delle Associazioni liberali della provincia di Pisa

 

Verso la fine del XIX secolo, il panorama politico ed economico europeo vide emergere movimenti sindacali e socialisti che cercarono di affrontare le sfide poste dalla rapida industrializzazione e dalle condizioni di lavoro precarie. Nel decennio del 1890, questi movimenti guadagnarono slancio, influenzando significativamente la politica e la società dell'epoca.


I movimenti sindacali ebbero origine come risposta alle condizioni di lavoro difficili e all'espansione dell'industrializzazione. Gli operai, spesso sottoposti a lunghe ore di lavoro, salari bassi e ambienti pericolosi, cominciarono a organizzarsi per difendere i propri diritti. Gli scioperi divennero uno strumento comune per ottenere miglioramenti nelle condizioni di lavoro e negoziare con i datori di lavoro.


Parallelamente, emersero movimenti socialisti che proponevano una visione più ampia e sistematica del cambiamento sociale. L'obiettivo principale del socialismo era ridurre le disuguaglianze economiche attraverso la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e la creazione di una società più equa. Intellettuali come Karl Marx e Friedrich Engels influenzarono profondamente il pensiero socialista, fornendo basi teoriche alla lotta dei lavoratori.

Nel corso degli anni '90 del XIX secolo, i movimenti sindacali e socialisti si consolidarono attraverso la formazione di partiti politici specifici. Paesi come Germania e Gran Bretagna videro la nascita di partiti socialisti e laburisti che cercarono di rappresentare gli interessi dei lavoratori nelle istituzioni politiche. Nel 1891, fu fondata la Seconda Internazionale Socialista, un'organizzazione che cercava di coordinare gli sforzi dei partiti socialisti in tutto il mondo.

Questi movimenti affrontarono ostacoli significativi, tra cui la resistenza delle élite industriali e politiche. Tuttavia, il loro impatto a lungo termine fu innegabile. Nel corso del XX secolo, le idee socialiste influenzarono le politiche di molti paesi, contribuendo alla creazione di sistemi di welfare e a una maggiore protezione sociale per i lavoratori.

In sintesi, i movimenti sindacali e socialisti degli anni '90 del XIX secolo rappresentarono una risposta organizzata alle sfide dell'industrializzazione, plasmando il modo in cui la società affrontò le questioni legate al lavoro e alla giustizia sociale.

Roberto Marchetti

 

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

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Cardinal Pietro Maffi
Foto: wikipedia

 

Nacque a Corteolona, presso Pavia, il 12 ott. 1858 da Luigi e da Clementina Manenti. Compiuti gli studi ginnasiali nelle scuole pubbliche, nel 1873, entrò nel seminario di Pavia, dove, dall'ottobre 1876 al giugno 1880, frequentò i corsi di teologia. Il vescovo A. Riboldi attribuì al M., non ancora sacerdote, l'insegnamento di fisica e storia naturale nello stesso seminario, incarico che il M. tenne ininterrottamente sino alla primavera del 1901. Nel frattempo, il 17 apr. 1881, fu consacrato sacerdote a Pavia.
Già professore di scienze matematiche nei seminari di Monza e di Milano, il vescovo Riboldi rinnovò profondamente la didattica nel seminario pavese che si ridefinì alla luce delle esigenze neotomiste manifestate dall'enciclica Aeterni patris (1879). Il M. seguì fedelmente l'indirizzo del proprio vescovo che era amico di molti uomini di scienza e si recava spesso a Brera. A tal proposito, una delle prime iniziative del M. fu il rinnovamento del gabinetto di fisica e di storia naturale del seminario pavese, fondato dal vescovo A. Tosi nella prima metà del secolo. L'attività culturale di mons. Riboldi fu vista con benevolenza da parte del pontefice, anche perché la sua apertura verso la scienza moderna era associata a una netta posizione intransigente.


Durante il ventennio d'insegnamento, il M. si consacrò quasi completamente agli studi scientifici, per i quali si servì principalmente della Revue des questions scientifiques del gesuita I. Carbonelle, degli scritti di un altro gesuita, A. Secchi, e del barnabita F. Denza, all'epoca direttore dell'osservatorio del collegio Carlo Alberto di Moncalieri. In collaborazione con l'osservatorio di Brera e con lo stesso padre Denza, il quale, nel 1881, fondò la Società meteorologica italiana, il M. realizzò alcuni progetti in astronomia, geofisica e meteorologia. Dopo la nomina a prorettore del seminario, avvenuta nel 1886, al M. si presentarono maggiori opportunità per la realizzazione di alcuni progetti. Il 30 nov. 1890, giorno di inaugurazione dell'osservatorio astronomico nel seminario pavese, il M. pronunciò un discorso su La meteorologia del clero, in cui è sintetizzato il suo credo scientifico. Nel criticare il clima anticristiano alimentato dalla cultura positivistica, il M. si faceva interprete di una scienza che, in chiave neotomistica, sostenesse la fede.
L'attività scientifica del M. fu vastissima, dall'astronomia alla meteorologia, dalla sismologia alla scienze naturali. Nel 1895, inviò alla Società astronomica universale le sue osservazioni delle Perseidi, e, sempre negli stessi anni, progettò un nefoscopio per l'osservazione delle nuvole e un altro apparecchio per la misurazione delle acque del sottosuolo di Pavia. Ancora più noti furono i suoi globi meteoroscopici, uno dei quali figurò all'Esposizione universale di Parigi del 1900. Il tentativo di ripetere sulla cupola del duomo di Pavia l'esperienza che L. Foucault aveva compiuto al Pantheon, a Parigi, non fu invece portato a termine per l'opposizione dello stesso vescovo Riboldi, al quale il progetto parve la profanazione di un edificio sacro.

I risultati conseguiti valsero al M. importanti segni di stima da gran parte delle società scientifiche. Fu membro dell'Associazione meteorologica italiana (3 maggio 1892), della Società italiana di scienze naturali (4 marzo 1896), dell'Accademia di religione cattolica (febbraio 1898), della Société astronomique de France (2 nov. 1898), dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei (12 apr. 1899), della Società astronomica italiana (20 dic. 1909). Infine, nel 1904, fu nominato presidente della Specola vaticana.
Sin dai primi anni Novanta, la reputazione conquistata in campo scientifico, come anche la particolare simpatia con cui lo stesso pontefice Leone XIII guardava alle iniziative del vescovo Riboldi, valsero al M. l'attenzione di G. Toniolo, il quale, con lettera del 9 sett. 1892, lo invitò a Genova, al primo congresso scientifico dell'Unione cattolica per gli studi sociali. Allora, la cultura cattolica si trovava agli inizi della stagione politica e culturale aperta dall'enciclica Rerum novarum (1891) che, proprio nell'attività organizzativa di Toniolo, aveva uno fra i suoi vettori più dinamici. Nel settembre 1899, grazie all'appoggio di mons. Riboldi e del vescovo di Padova, G. Callegari, Toniolo fondò la Società cattolica italiana per gli studi scientifici che comprendeva cinque sezioni. La terza, quella per gli studi fisici, naturali e matematici fu affidata alla presidenza del M., il quale - grazie anche ai sussidi di mons. Riboldi - fu direttore della rivista della sezione, la Rivista di fisica, matematica e scienze naturali (nata a Pavia il 1 genn. 1900 con la benedizione di Leone XIII, e uscita sino al 1912).


Il M. associò a questa attività anche pubblicazioni di carattere divulgativo, tra cui il volume Nei cieli: pagine di astronomia popolare (Milano 1896). Tali opere furono date alle stampe al fine di contribuire alla qualificazione scientifica degli insegnanti di scienze naturali, soprattutto di quelli ecclesiastici. Più propriamente apologetiche furono le Riflessioni sui nostri doveri davanti alla scienza moderna e alla fede (Pavia 1898) e il breve discorso, Dio nella scienza pronunciato nel febbraio 1903 (confluito in P. Maffi, Scritti vari, Siena 1904, pp. 419-430). Il M. coltivò anche la storia della scienza che coniugò, talvolta, con quello per i grandi autori della letteratura italiana: nel 1898 dette alle stampe La cosmografia nelle opere di Torquato Tasso con l'intenzione di far conoscere le premesse cinquecentesche di quella "grande giornata d'oro dell'astronomia" che, ad avviso del M., fu il XVII secolo. Testimonianza dei suoi interessi letterari furono anche due romanzi che il M. pubblicò negli anni Novanta, in appendice a Il Ticino (giornale cattolico di Pavia di cui il M. fu fra i più assidui redattori): Fior che muore (1894) e Gli sparvieri (1898).
Il 15 apr. 1901 mons. Riboldi fu nominato arcivescovo di Ravenna. Non volendo privarsi della collaborazione del M., lo scelse quale proprio vicario generale il successivo 6 ottobre. Il 25 apr. 1902, il nuovo arcivescovo morì. Cinque giorni più tardi, un decreto della congregazione del Concilio nominò il M. amministratore apostolico dell'arcidiocesi ravennate. L'11 giugno, Leone XIII lo consacrò vescovo titolare di Cesarea di Mauritania e lo elesse ausiliare di Ravenna. Poco più di un anno dopo, durante il concistoro del 25 giugno 1903, il M. fu designato arcivescovo di Pisa.


Il primo decennio del M. a Pisa si svolse in stretto rapporto con le imponenti trasformazioni che allora stavano investendo il movimento cattolico nella fase finale dell'Opera dei Congressi, sciolta definitivamente nel 1904. Rispondendo a quella ricerca di forme nuove della presenza cattolica nella società, manifestate dal nuovo pontefice, Pio X, il M. si mantenne sempre fedele all'idea di un cattolicesimo tanto più impegnato politicamente e socialmente rispetto ai trent'anni precedenti quanto costantemente regolato dal magistero dei vescovi e del papa. Nel corso del suo episcopato, compì quattro visite pastorali, si impegnò per la nascita di casse rurali, casse operaie, associazioni di mutuo soccorso, fondò un'opera per gli asili infantili che furono incoraggiati in tutte le parrocchie. Testimonianza dei suoi orientamenti fu la settimana sociale di Pistoia (23-28 sett. 1907) in cui si discusse sulla cooperazione, sulle associazioni femminili, sull'educazione della classe operaia, sulla scuola, sulla questione dell'emigrazione. Anche nel seminario pisano, che il M. riorganizzò potenziando l'insegnamento scientifico, fu introdotta la cattedra di sociologia ed economia, affidata a Toniolo.
Tanta operosità fu riconosciuta da Pio X che lo nominò cardinale durante il concistoro del 15 apr. 1907. La designazione avrebbe comportato il trasferimento del M. a Roma, ma una commissione, formatasi spontaneamente tra alcuni cattolici pisani e presieduta da Toniolo, convinse il papa, nel corso di un'udienza, a lasciare che il nuovo cardinale rimanesse a Pisa mantenendo l'ufficio arcivescovile.


Su un piano strettamente politico, il M. cercò sempre di mediare con le posizioni murriane, senza mai prestare loro il proprio consenso. A quest'opera di mediazione fu obbligato dal notevole ascendente che R. Murri aveva sulle opinioni dei giovani toscani - con l'importante eccezione di alcuni gruppi fiorentini e livornesi - sin dal III Convegno regionale democratico cristiano, tenutosi proprio a Pisa il 28 apr. 1902. In realtà, nonostante l'opera di mediazione, alla quale il suo ruolo pastorale lo vincolava, il M. fu sempre convinto della necessità di un'alleanza dei cattolici con i liberali e con i monarchici. Proprio con la monarchia, grazie alla vicinanza della residenza reale di S. Rossore, il M. avviò nel corso degli anni una costante opera di riavvicinamento. Segno di questo rapporto fu la nomina del M. a cavaliere di gran croce, con il motu proprio del re del 26 ag. 1919. Durante la guerra di Libia, il M. si allineò pubblicamente alle posizioni filonazionalistiche della Società editrice romana, il trust di G. Grosoli, cui fu legato per tutta la vita da sincera amicizia. Oltre a comportare alcune tensioni con il papa che criticò il trust nella famosa Avvertenza del dicembre 1912, la scelta del M. causò un allentamento dei rapporti con alcuni esponenti della gioventù cattolica dell'arcidiocesi, tra i quali G. Gronchi che, in occasione delle elezioni del 1913, dichiarò di disinteressarsi delle raccomandazioni della direzione diocesana. Anche durante la prima guerra mondiale, alla luce dell'avvicinamento compiuto tra il movimento nazionalista e una parte dello schieramento cattolico al congresso di Milano del maggio 1914, il M. lasciò intendere chiaramente la propria posizione. Celebre fu, a tal proposito, il discorso Per il trionfo delle nostre armi (11 luglio 1915) che, sin dal titolo, non lascia adito a dubbi sulle caratteristiche del nazionalismo del Maffi.


Dal 1924 egli si adoperò per la soluzione della questione romana, sfruttando i legami personali che aveva da lunga data con l'ex popolare P. Mattei Gentili, sottosegretario al ministero della Giustizia e degli affari di culto, e con altri esponenti del movimento cattolico filofascista Centro nazionale italiano.
Il M. morì a Pisa il 17 marzo 1931.


Fonti e Bibl.: Le carte del M. sono conservate presso la Biblioteca arcivescovile di Pisa, Arch. privato Maffi. Un'informazione dettagliata su tutte le pubblicazioni del M. è in A. Spicciani, Gli scritti di P. M., in Il cardinale P. M. arcivescovo di Pisa. Primi contributi di ricerca, tavola rotonda, 1982, Pisa 1983, pp. 157-163. Oltre a questo volume, punto di partenza per ogni studio sul M., sono da vedere: I. Felici, Il card. M., Roma-Milano 1931; P. Stefanini, Il card. M., Pisa 1958; L. Righi, Una porpora prestigiosa, Fiesole 1978; F. Ingrasciotta, Il cardinale P. M. e la sua attività pastorale a Pisa, 1904-1931, Pisa 1984; M. Andreazza, Alle origini del movimento cattolico pisano: il card. P. M. e il prof. G. Toniolo, Pisa 1991; La Biblioteca arcivescovile "Cardinal Maffi", a cura di G. Rossetti et al., in Galileo e Pisa, a cura di R. Vergara Caffarelli, Ospedaletto-Pisa 2004, pp. 97-120.
di Filippo Sani - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

Fonte: treccani
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

MEMFI

Il Menfi fu requisito come nave ospedale della Regia Marina ed ebbe a bordo come infermiera S.A.R. la Duchessa D'Aosta.

Armatore: Sicilia navigazione

Fonte: naviearmatori.net

Sulla Menfi l'equipaggio era così composto: 1Maggiore medico, 1Maggiore commissario, 1Capitano medico, 4Tenenti medici, 1Sottotenente medico, 1Tenente farmacista, 1Sottotenente commissario, 1Capitano Cappellano, 1Furiere maggiore, 5Caporal maggiori, 1Caporale, 8militi, 24 infermiere volontarie.
 


Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

La duchessa crocerossina

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Nel 1908 viene inaugurata a Roma la scuola per infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana e l’anno dopo fra le allieve in divisa bianca c’è anche una signora sottile ed elegante. La nuova aspirante crocerossina si chiama Hélène d’Orléans ed oltre ad essere altissima, affascinante ed energica è anche la moglie di Emanuele Filiberto di Savoia duca Aosta, cugino di re Vittorio Emanuele III. La prestigiosa adesione viene salutata con la massima soddisfazione dai vertici italiani della Cri, poiché la principessa è, come si direbbe oggi, una persona molto dinamica e la cosa in giro si sa. Ispettrice Generale delle Infermiere Volontarie dal 1911, la duchessa crocerossina partecipa alla sua prima missione sulla nave ospedale Menfi che rimpatria i soldati feriti o malati dalla Libia. Nel 1915, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Hélène inizia a visitare ospedali grandi e piccoli lungo tutta la linea del fronte, quello che vede spesso non le piace, ma lei non è certo il tipo da stare zitta e far finta di nulla. “Grazie al suo spirito organizzativo – racconta il nipote, il principe Amedeo attuale duca di Aosta – e insieme a validissime collaboratrici, riuscì ad organizzare il Corpo delle Infermiere Volontarie e a gestire una logistica non facile, con le crocerossine sempre a fianco dell’esercito, che svolgevano la loro missione fin nei luoghi più avanzati del fronte. Grazie al suo forte carattere riuscì ad imporre le sue infermiere in seno ad un ambiente sanitario e militare che fino ad allora tendeva a considerare le donne solo alla stregua di buone samaritane e non certo professioniste preparate e motivate quali erano; bastò poco comunque perché le Sorelle si facessero conoscere ed apprezzare per il loro prezioso lavoro”. La duchessa di Aosta durante tutti gli anni della guerra si impegna in prima persona e, come testimoniano i suoi superiori, dà prova di coraggio, resistenza alla fatica ed ai disagi, e grande efficienza. Ma è anche pronta a protestare quando si trova di fronte a situazioni insostenibili dal punto di vista medico e sanitario. Energica, piena di iniziativa e di una severità che la fa giudicare intransigente (ma ci voleva specie nei primi tempi della guerra) Hélène non si lascia intimidire dalle greche del generali a cui rivolge le sue richieste di provvedimenti. La duchessa crocerossina non ha paura, né dei bombardamenti, spesso resta in prima linea accanto ai soldati, né dei vertici dell’esercito e per tutti gli anni del conflitto combatte una sua personale lotta contro l’inefficienza e le disposizioni assurde. Il diario che tiene in quel periodo è ricco di annotazioni sui feriti trasportati in carri bestiame nei quali le condizioni igieniche sono disastrose, sugli ospedali disorganizzati e sporchi, ma anche sulle strutture dove l’assistenza funziona come si deve. Donna di gran cuore la duchessa crocerossina è spesso vicina ai malati e ai feriti in un modo non certo convenzionale per una signora dell’alta società per di più reale; a Venezia ad esempio non esita ad assistere fino all’ultimo minuto, tenendolo stretto fra le sue braccia, un giovane fante moribondo che nel delirio l’ha scambiata per la madre. “Dai numerosi diari, lettere ed altri scritti di infermiere volontarie – osserva il nipote – si evincono soprattutto le doti di profonda umanità, compassione e bontà (non disgiunta mai da fermezza) della loro ispettrice generale. Sempre preoccupata anche del benessere fisico e psicologico delle sue ‘figliole’ come spesso chiama le sue infermiere o col termine stesso di “sorelle di carità” da lei usato in una commemorazione e che sostituirà definitivamente quello di ‘dame’ utilizzato fino ad allora”.

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Hélène in abito da sposa

Italiana per matrimonio e francese per origini, Hélène è inglese di nascita, ma assolutamente europea per conoscenze, frequentazioni, cultura, studi e abitudini. La principessa, nata a Twickenham nei pressi di Londra il 13 giugno 1871, è infatti una delle figlie di Luigi Filippo “conte di Parigi”, condannato all’esilio in quanto pretendente al trono di Francia. La futura duchessa d’Aosta, che ha una sorella regina del Portogallo e per via materna discende dai Borboni di Spagna, cresce fra Villamanrique, una grande finca vicino a Siviglia, e la Gran Bretagna dove frequenta la corte inglese e ha come compagni di giochi i figli del principe di Galles, futuro re Edoardo VII. Le relazioni sono così strette che una storia d’amore fra i rampolli reali è quasi inevitabile: il duca di Clarence primogenito dell’erede al trono, non resiste al fascino di Hélène, le fa una corte assidua, si comincia a parlare di nozze, ma il padre della principessa, nonostante il prestigio di una tale unione, pone un veto deciso ed irremovibile. Hélène non può abiurare al cattolicesimo, conditio sine qua non per salire sul trono d’Inghilterra, e lo stesso papa Leone XIII fa sapere che una scomunica seguirebbe a ruota ad una eventuale conversione della principessa francese alla chiesa anglicana. Così il matrimonio inglese sfuma. Lui ci rimane molto male, però si fidanza prontamente con un’altra perché la dinastia ha bisogno di eredi, ma una polmonite lo stronca poco prima delle nozze e la promessa sposa passa velocemente al fratello. Saranno re Giorgio V e la regina Mary. Come volergliene alla povera Mary per questo frettoloso rimpiazzo, sapendo che il defunto fidanzato nell’agonia aveva invocato solo la perduta Hélène?

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Emanuele Filiberto duca d’Aosta

Sempre per questioni di fede e di abiure non contemplate va a monte anche un altro progetto matrimoniale, quello con lo zarevic Nicola, figlio dello zar Alessandro III, così Hélène a 23 anni è ancora insolitamente (per la sua epoca e per il suo ceto sociale) nubile. Ci vuole un lutto per cambiare drasticamente la situazione. Al funerale del padre nel 1894, Hélène solleva per un attimo il fitto velo nero ed incontra lo sguardo di Emanuele Filiberto duca d’Aosta, inviato dallo zio re d’Italia a rappresentare i Savoia. Un’occhiata rapidissima, ma più che sufficiente. L’unione, per quanto dinasticamente perfetta, però non è vista di buon occhio in Italia e lo sposo fatica a portare all’altare la sua principessa francese la quale oltre ad un albero genealogico impeccabile pare abbia anche una buona dote (e forse persino qualche lascito dal prozio duca di Aumale), il che non dispiace allo squattrinato duca d’Aosta. I motivi delle perplessità sabaude sono politici (con la Francia i rapporti non sono cordiali) e di opportunità visto che il principe ereditario Vittorio Emanuele è ancora scapolo. Il duca di Aosta la spunta ed il 25 giugno 1895 sposa finalmente Hélène, ma l’accoglienza in Italia è freddina, la principessa cosmopolita, padrona di quattro lingue, colta, a suo agio nell’alta società internazionale, viene guardata quasi con timore da una corte recente e tutto sommato ancora abbastanza provinciale. Il commento apparentemente benevolo della regina Margherita ha un retrogusto al veleno: “per educazione e per fisico è una vera inglese, la dicono buona, intelligente e colta, diventerà una bella donna”. La prima sovrana d’Italia non solo odia cordialmente tutto quanto connesso con la Francia, ma soprattutto ha un figlio che non è un adone (al contrario di tutti i Savoia Aosta) e che non riesce ad accasare. Con il resto della famiglia non va meglio, il principe ereditario è per carattere scontroso e diffidente, la matrigna del marito Letizia Bonaparte, contrarissima alle nozze, mantiene la sua posizione ad oltranza, i cognati uno dedito ai cavalli, l’altro alle esplorazioni (è il famoso duca degli Abruzzi) sono praticamente invisibili, solo il re è cordiale. Così Hélène si butta sulla beneficenza e nel frattempo mette al mondo due figli Amedeo e Aimone che educa secondo il severo modello britannico. Il matrimonio ad ogni modo funziona molto bene e una reale complicità nasce fra i due sposi che non prendono mai decisioni senza il consiglio l’uno dell’altro. Negli anni ci saranno cedimenti e da una parte e dall’altra, ma la coppia resterà sempre unita e solidale. Hélène ha le “physique du role” e lo stile della vera principessa, è brillante, elegante, raffinata, originale e quindi diventa presto molto popolare fra tutte le classi sociali della nuova nazione. Compiaciuta per il rispetto che le dimostrano gli italiani la duchessa di Aosta sposa gli interessi e le cause del suo nuovo paese e la “figlia di Francia” diventa rapidamente più italiana degli italiani.

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Hélène con il marito, i due figli e la madre l’infanta Isabella (figlia a sua volta di Luisa Fernanda sorella della regina Isabella II di Spagna) vedova del conte di Parigi, pretendente Orléans al trono di Francia

La principessa però non gode di buona salute, è spesso febbricitante ed una tosse stizzosa la lascia sovente senza forze, i medici diagnosticano una tubercolosi e, come si usava all’epoca, le consigliano un lungo soggiorno nei climi caldi. La duchessa parte nel 1907, arriva in Egitto e poi si spinge fino all’Oceano Indiano. Torna in Italia giusto in tempo per accorrere a Messina dove presta assistenza alle popolazioni colpite dal disastroso terremoto, il che non giova alla sua salute, così nel 1908 riprende i suoi viaggi, ma questa volta si dirige verso sud, Sudafrica, Rodhesia, poi l’anno dopo Kenya e Somalia. I paesi lontani e sconosciuti l’attraggono in modo irresistibile, nel 1913 arriva fino in Asia, visita l’India, Ceylon, l’Indocina, il Borneo, Sumatra, l’Australia, la Nuova Zelanda, torna attraverso gli Stati Uniti, il Canada e la Spagna. La malattia ormai è solo un ricordo e durante questi lunghi peripli prende appunti che diventeranno dei libri: “Viaggi in Africa”, “Verso il sole che si leva”, “Vita errante”, “Attraverso il Sahara”. Nel frattempo è diventata crocerossina, è stata nominata Ispettrice Generale (lo resterà fino al 1921), ha fondato l’Opera Nazionale di Assistenza all’Italia Redenta e D’Annunzio l’ha celebrata con versi non particolarmente belli, ma molto esaltati. Hélène per il Vate è la personificazione della amatissima Francia unita alla regalità italiana; per la duchessa la “La canzone di Elena di Francia” la sesta delle “Canzoni d’Oltremare” è invece la consacrazione ad eroina sabauda.

Foto5bisE quegli ch’ebbe stritolato il mento/dalla mitraglia e rotta la ganascia,/e su la branda sta sanguinolento/e taciturno, e i neri grumi biascia,/anch’egli ha l’indicibile sorriso/all’orlo della benda che lo fascia,/quando un pio viso di sorella, un viso/d’oro si china verso la sua guancia,/un viso d’oro come il Fiordaliso./Sii benedetta, o Elena di Francia,/nel mar nostro che vide San Luigi/armato della croce e della lancia”. Hélène ammira D’Annunzio per l’eroismo, ma è infastidita da certi aspetti del suo carattere e della sua personalità di uomo libertino e miscredente. Infatti la principessa anticonformista, amica di intellettuali e massoni, è profondamente religiosa e vive il suo rapporto con il cattolicesimo in una maniera intensa e priva di ostentazione.

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Nel 1905 i duchi di Aosta si trasferiscono a Napoli e nel palazzo di Capodimonte Hélène tiene una corte splendida e il suo prestigio diventa quasi quello di una regina. Stimata dalla Chiesa per la sua devozione e la sua carità ossequiata dalle autorità, popolare fra la gente, la duchessa visita i bassi di Napoli e fra la miseria più nera si muove con naturalezza; persino Matilde Serao, la potentissima giornalista de “Il Mattino” le dimostra una certa simpatia.

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Allo scoppio della I Guerra Mondiale la principessa, interventista fin da subito, è al fronte con il marito, comandante della III Armata, ed i figli di 17 e 15 anni. Ottiene una medaglia d’argento al valor militare due croci al Merito di Guerra, due onorificenze francesi, una inglese, e la medaglia Florence Nightingale, ma il drammatico conflitto lascia su di lei una impronta indelebile, scrive: “niente potrà cancellare la visione mostruosa della guerra”. Nel 1919 riprende a viaggiare, ma rientra per manifestare la sua adesione all’impresa dannunziana di Fiume, recandosi nella città contestata accolta dal poeta, ed attirandosi così i fulmini del Governo. Nitti la definisce una “lady Macbeth” che, “nella più pura tradizione di tradimento degli Orléans, sta lavorando per spodestare il ramo principale della casata a favore del marito e dei figli”.

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Una celebre foto, da sinistra il duca d’Aosta, Hélène, e i figli Aimone e Amedeo, tutti e due altissimi e molto belli

Con Mussolini la duchessa ha rapporti amichevoli tanto che il libro sulla sua esperienza al fronte, pubblicato nel 1930 “Accanto agli Eroi. Diario di guerra” ha la prefazione del Duce. Il capo del Governo è sempre deferente verso di lei, accontenta le sue richieste, tollera le asprezze del suo carattere in sostanza se ne fa un’alleata, ma pare che ad un certo punto Mussolini si sia irritato per la mania della duchessa di farsi ritrarre nei suoi sempre molto frequenti viaggi in Africa assieme alle popolazioni locali.

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Il duca e la duchessa d’Aosta escono da una udienza al Vaticano, il figlio Aimone racconterà che la madre si era messa a discutere con il Papa al quale aveva chiesto di intervenire per risolvere un problema legato ad un istituto benefico.

Emanuele Filiberto muore all’improvviso nel 1931, ma lei resta a Capodimonte (dove si installa anche il secondo marito il colonnello Otto Campini, sposato nel 1936) e nonostante l’età e la malattia ai polmoni conserva una stupefacente energia fisica e nervosa. In quel periodo un affetto particolare la lega alla principessa di Piemonte, Maria José del Belgio come lei intelligente, anticonformista, priva di pregiudizi, di mentalità aperta al limite della stravaganza. Sono anche gli anni in cui i figli si sposano, Amedeo con Anna d’Orléans, cugina per parte di madre e per parte di padre, Aimone che all’epoca era considerato uno degli uomini più affascinanti d’Italia, con Irene di Grecia.

Nel palazzo di Capodimonte la duchessa rimane durante tutto il secondo conflitto mondiale e nei giorni dell’occupazione nazista è il suo coraggio a salvare una situazione disperata. “Un giorno un soldato tedesco viene colpito da una fucilata tirata da una finestra del palazzo – racconta il nipote Amedeo – poco dopo si presenta un colonnello delle SS insieme ai suoi uomini armati di mitragliatrici e dopo aver fatto allineare contro un muro tutti i domestici chiede di denunciare il colpevole. Mia nonna scende dai suoi appartamenti e dice al colonnello: ‘signore, in questo palazzo niente si fa senza che io lo sappia. Dunque sono l’unica responsabile. Se lei ha qualcosa da dire o da fare è a me che si deve rivolgere’. L’ufficiale impressionato sparisce con i suoi soldati. A Napoli ancora se ne parla”.

Sono anni di grandi dolori, la morte dei figli lontani (Amedeo, prigioniero degli inglesi nel 1942, Aimone a Buenos Aires nel 1948), la fuga del re, il referendum che cancella la monarchia, ma Hélène resiste e va avanti. Dopo il 2 giugno 1946 si ritira in un albergo a Castellammare di Stabia e quando Umberto impone a tutta la famiglia di lasciare il paese la duchessa non si muove. “Sire – fa sapere al re – sono diventata italiana e resto in Italia”. L’ultimo gesto di amore nei confronti di quella che è ormai la sua patria è il dono, nel 1947, alla Biblioteca Nazionale di Napoli del Fondo Aosta, costituito dalla Raccolta libraria (oltre 11.000 volumi ed opuscoli), ed anche dalla straordinaria Raccolta africana e da una notevole Raccolta fotografica. Hélène d’Oléans duchessa di Aosta muore a Castellammare di Stabia il 21 gennaio 1951.

Fonte: altezzareale.com
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

foto collezione Silvio Fioravanti

(foto collezione Silvio Fioravanti)

Il terremoto della Garfagnana e Lunigiana fu un disastroso evento sismico avvenuto il 7 settembre 1920, che colpì le due regioni storiche della Toscana, tra le provincie di Lucca e Massa Carrara causando, secondo le stime dell'epoca, 171 morti e 650 feriti.
È stato uno degli eventi sismici più distruttivi registrati nella regione appenninica nel ventesimo secolo: fu il più forte mai registrato in Toscana in tempi storici, nonché quello con il più alto numero di vittime del novecento, superando quello avvenuto l'anno precedente in Mugello. Grazie alla buona copertura di notizie, alla disponibilità dei documenti ufficiali sui danni e all'abbondanza di registrazioni da stazioni di sorveglianza in tutta l'Europa, è stato considerato come un caso di studio di prim'ordine per migliorare la conoscenza della tettonica e dell'analisi macrosismica.

La zona dell'epicentro è situata tra l'Appennino tosco-emiliano e le Alpi Apuane, sopra un'area di subduzione tra la placca adriatica e tirrenica; la regione, attraversata da diversi sistemi di faglie attive, presenta variazioni notevoli nella composizione del terreno. La zona è stata interessata da fenomeni di tettonica estensionale dal tardo Miocene al Pliocene. Questa estensione è il risultato dello stesso processo che ha aperto il mar Tirreno durante lo stesso periodo. L'estensione continua ha portato ad una serie di faglie orientate prevalentemente in senso nordovest-sudest, che delimitano bacini riempiti da sedimenti più recenti.

L'evento del 7 settembre fu preceduto durante il giorno precedente da scosse di minore intensità: alle 16:25 da una scossa del sesto grado Mercalli, alle 22:30 da un'altra del quarto grado Mercalli. Il sisma del 7 settembre, alle ore 7:56, interessò un’area di circa 160 km² nella Toscana settentrionale, ai confini con la Liguria: all’epicentro l'intensità registrata fu del IX-X grado della scala MCS (Mercalli Cancani Sieberg). La scossa provocò gravi danni in numerosi centri abitati delle province di Lucca e Massa, radendo al suolo completamente i paesi di Vigneta (frazione di Casola in Lunigiana) e Villa Collemandina (LU), quest'ultima località epicentro del sisma.

Anche Fivizzano, il centro abitato più popolato fra quelli colpiti, fu praticamente raso al suolo: non rimase più alcuna casa abitabile e quelle pochissime che restarono in piedi, riportarono lesioni talmente profonde che alle successive scosse di assestamento rovinarono al suolo definitivamente. Tutta la popolazione rimase all’addiaccio, accampata in tende di fortuna. Sempre in Lunigiana si registrarono danni anche nei paesi di Sassalbo, Vignetta, Regnano, Luscignano, Montecurto, Comano e Ceserano, Villafranca, Merizzo, Fornoli, vittime anche a Virgoletta e a Filattiera.

A Pontremoli la scossa fece crollare il tetto della Chiesa della Misericordia e i detriti caddero sull'antico organo a canne, danneggiandolo.

Il sisma fu avvertito anche in provincia di Bologna dove provocò panico nella popolazione e lievissimi danni vennero segnalati nel circondario di Vergato. In provincia di Pisa, il comune più colpito fu Calcinaia con un morto e quattro feriti e danni, oltre che ad alcune abitazioni, alla chiesa e al municipio. Nella provincia di Modena ci furono tre vittime e alcuni feriti; alcune case crollate e moltissime danneggiate vennero segnalate soprattutto nei comuni di Frassinoro e Pievepelago. Gli effetti del terremoto interessarono anche il territorio della confinante Liguria. In provincia di Genova, nei circondari della Spezia e Chiavari, la popolazione venne presa dal panico e vennero segnalate alcune case lesionate alla Spezia e a Sarzana.

Fu avvertito distintamente sino nelle province di Siena e Livorno, ma senza danni a persone e cose.

La scossa avvenne in un momento della giornata nel quale gli abitanti della zona, in maggioranza contadini, erano impegnati nel lavoro dei campi, mentre nelle case erano rimasti soprattutto donne e bambini, che furono le principali vittime. La disastrosità del sisma fu amplificata dalla tecniche di costruzione degli edifici diffuse in quei paesi: le case, infatti, erano per la gran parte costruite con materiali particolarmente scadenti come grossi ciottoli di fiume arrotondati utilizzati come pietra da costruzione al posto dei mattoni, tenuti insieme da malte di infima qualità.

I soccorsi furono segnati da ritardi e difficoltà di organizzazione, in parte spiegabili con l’interruzione delle comunicazioni telegrafiche; fu impossibile, infatti, avere notizie certe, in particolare dai piccoli centri dell’entroterra montuoso della regione colpita dal terremoto.

L'entità dei danni non fu immediatamente chiara alle autorità: i primi telegrammi, inviati la mattina del 7 settembre dai Prefetti dell’area colpita alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, sottolineavano la violenza della scossa ma ancora non disegnavano con precisione la gravità del danno. Solo nella tarda mattinata da Massa, la provincia più colpita, il Prefetto comunicava i primi preoccupanti dati sulle conseguenze della scossa sismica. Mentre le notizie che giungevano da Lucca, riferite al capoluogo, inizialmente segnalavano solo lievi e rare lesioni. Nel primo pomeriggio del 7 settembre – come si evince dal telegramma del Prefetto Bodo inviato da Castelnuovo Garfagnana alle ore 15.50 – anche in questa provincia lo scenario assunse contorni più precisi: "disastro sempre maggiore. Comuni con case crollate inabitabili, richiesta soccorsi urgenti".

I cronisti del quotidiano “La Nazione” furono tra i primi a recarsi sui luoghi colpiti e a descrivere la gravità delle conseguenze della scossa:

«A mano a mano che ci inoltriamo nella regione colpita, tutto conferma, purtroppo, la fondatezza delle prime notizie. I paesi che sono successivamente attraversati dalla nostra macchina, mostrano sempre più gravi gli effetti della formidabile scossa, che ha scrollato tutto il sistema montuoso che corona le valli del Serchio e dei suoi affluenti. E’ una triste teoria di rovine che mette sgomento nell’animo; un seguirsi di scene di dolore e di disperazione che ci procura una pena infinita per l’impossibilità di portare un soccorso e un aiuto, che possa lenire in parte il danno irreparabile dell’immensa rovina»

Dopo una prima sottovalutazione delle conseguenze dell’evento, quando il quadro cominciò a delinearsi nella sua effettiva gravità, il Ministero dell’Interno attraverso i Prefetti mise in moto la macchina dei soccorsi. Le forze armate svolsero, come era consuetudine, un ruolo chiave per fronteggiare l’emergenza, costituendo l’unica struttura organizzata in grado di intervenire per il primo soccorso e l’assistenza nei luoghi colpiti. Dalla vicina Liguria e dalla Spezia in particolare, furono organizzate le prime squadre di soccorso e inviati marinai della nave Cavour dal comandante della Piazza marittima, adibiti allo sgombero delle macerie, al disseppellimento dei cadaveri, al salvataggio di eventuali superstiti. Per le operazioni di primo soccorso intervennero a Fivizzano e negli altri centri colpiti, oltre ai marinai della nave Cavour, volontari da Spezia, da Massa, da Carrara, squadre della pubblica assistenza e un migliaio di soldati di fanteria, zappatori e del genio da Firenze, Piacenza, Bologna, Reggio Emilia, e la squadra di Vigili del Fuoco inviata dal Comune di Rimini, che operarono, alternandosi, fino al primo dicembre 1920.

Già la sera del 7 settembre dalla Spezia fu organizzato un treno speciale con materiali per il ricovero dei superstiti e l’8 settembre, con altri due treni, furono inviati attendamenti, viveri, medici e medicinali, materiali e attrezzi per lo sgombero delle macerie, ingegneri per la valutazione dei danni e degli interventi di ripristino. La stazione di Aulla divenne il punto di raccolta e smistamento dei materiali.

Fonte: wikipedia
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

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La sequenza iniziò nelle prime ore del 29 giugno con alcune piccole scosse avvertite nella notte; attorno alle 10:15 della mattina (ora locale) ci fu una forte scossa che causò alcuni danni a Borgo San Lorenzo (FI) e in alcune piccole frazioni vicine, e che allarmò notevolmente la popolazione, la quale si riversò all’aperto; seguirono altre scosse più leggere nelle ore successive. L’evento principale avvenne nel pomeriggio, alle 17:06 ed ebbe effetti distruttivi, causando molti crolli e danni gravissimi.

Epicentro del terremoto è stato Vicchio, che ha avuto parecchie case distrutte e dove sono molti i feriti e una quarantina i morti. […] Nei paesi limitrofi, quasi tutte piccole frazioni costituite da case basse dove fortunatamente l’agglomerazione di persone è scarsa, queste case sono state completamente rase al suolo. Ho visto io stesso abitati di cui non resta pietra su pietra.” [Corriere della Sera, 1 luglio 1919] 

Con queste parole l’inviato del Corriere della Sera descrive gli effetti gravissimi della scossa nel territorio di Vicchio (FI), il comune più colpito. I piccoli abitati di cui “non resta pietra su pietra” erano le frazioni di Mirandola e Rupecanina, dove crollarono quasi tutti gli edifici e il terremoto raggiunse un’intensità pari al grado 10 della scala MCS (Mercalli-Cancani-Sieberg). Altri piccoli centri, come Casole, Rostolena, Villore, Vitigliano, e la stessa cittadina di Vicchio, subirono effetti gravissimi con la distruzione di circa la metà degli edifici (intensità pari a 9 MCS).

Danni molto gravi e diffusi si ebbero anche nei vicini comuni di Borgo San Lorenzo e di Dicomano, sempre in provincia di Firenze. A Borgo San Lorenzo moltissime case subirono lesioni gravissime e divennero inagibili. Fu rilevato che in generale gli edifici all’esterno sembravano apparentemente poco danneggiati, mentre all’interno erano gravemente lesionati o completamente crollati. A seconda delle fonti, tra il 50% e il 75 % dell’edificato di Borgo San Lorenzo divenne inabitabile. Gli effetti nel capoluogo del Mugello sono stati stimati tra i gradi 8 e 9 della scala MCS.

La devastazione causata dal terremoto nella frazione di Casaglia, nel comune di Borgo San Lorenzo (FI), in una cartolina d’epoca [Archivio EDURISK]. In questo villaggio sul crinale appenninico vi furono due vittime e numerosi feriti [Corriere della Sera, 01.07.1919].

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Gravi danni interessarono anche decine di località situate sul versante romagnolo dell’Appennino, nell’area denominata all’epoca “Romagna Toscana”, che in parte rientrava nelle attuali provincie di Firenze e di Forlì. Qui l’impatto dell’evento fu notevolmente aggravato dal fatto che appena 7 mesi prima, il 10 novembre 1918, un forte terremoto aveva colpito il territorio dell’Appennino forlivese, con effetti distruttivi in diversi centri delle alte valli del Savio e del Bidente. La scossa del 29 giugno 1919 causò nuovi danni diffusi e crolli in centri come Santa Sofia, Bagno di Romagna, Galeata, Civitella di Romagna (FC), dove la ricostruzione era appena iniziata e il patrimonio edilizio risultava ancora indebolito, con una vulnerabilità peggiorata proprio a seguito del terremoto precedente.

Fu colpita anche la provincia di Arezzo, soprattutto il territorio del Casentino, dove ci furono danni diffusi a Pratovecchio, Poppi, Stia e a Bibbiena. Anche qui l’impatto fu aggravato dai danni preesistenti che erano stati causati dal terremoto del novembre 1918. Danni furono registrati infine nel Valdarno superiore, in particolare a Loro Ciuffenna, Terranova Bracciolini, San Giovanni Valdarno (tutti in provincia di Arezzo) e a Figline Valdarno (FI).

Le vittime complessivamente furono poco meno di un centinaio, di cui una settantina nel solo territorio di Vicchio. Un numero relativamente contenuto, se rapportato alla elevata intensità della scossa e alla gravità delle distruzioni. Contribuirono a limitare il numero di morti una serie di circostanze “fortunate”: in primo luogo le scosse avvenute nel corso della mattina (soprattutto quella forte delle 10:15) allarmarono enormemente la popolazione e la spinsero a riversarsi all’aperto dove rimase per molte ore, scampando all’evento principale delle 17:06, come scrive anche l’inviato del Corriere della Sera: “tutta la popolazione, avvenuta la prima scossa, si è riversata sulle piazze e questa circostanza ha fatto sì che le vittime non fossero tante come avrebbero potuto essere se alla scossa più forte la popolazione si fosse trovata nelle case.” (Corriere della Sera, 1 luglio 1919); in secondo luogo, anche il fatto che il terremoto colpì un’area prevalentemente rurale e avvenne in piena estate, in ore diurne, quando una buona parte della popolazione si trovava all’aperto e nei campi. Se la scossa fosse avvenuta in piena notte e non fosse stata preceduta da scosse minori, con tutta probabilità il numero di vittime sarebbe stato molto più elevato.

 

Fonte: ingvterremoti

Ricerca storica: Roberto Marchetti

I treni ospedale della croce rossa italiana nella prima guerra mondiale
Raffaele Attolini
 
Treni ospedale
 
Durante la Prima Guerra Mondiale lo sgombero dei malati e feriti per ferrovia veniva fatto con treni appositamente allestiti (treni-sanitari), oppure con treni ordinari per viaggiatori o per merci (treni-trasporto improvvisati).

 
 
Opedalizzazione militare in guerra
 
I treni sanitari per trasporto feriti e malati vanno distinti in:
treni-ospedale allestiti dalle Associazioni di Soccorso e destinati a viaggi di parecchi giorni per trasportare i feriti nell’interno del paese (fonte: Bollettino Ufficiale delle Ferrovie dello Stato 1918).
Croce Rossa 
1918
numerazione da I a XXI con 300 barelle
1918
numerazione XXII e XXIII (contumaciali) con 96 barelle e 240 
posti a sedere
1918
numerazione XXVI (contumaciale) con 300 barelle
 
Treni ospedale 3

Treni attrezzati della Sanità Militare utilizzati soltanto per il trasporto a brevi distanze di infermi e feriti leggeri (fonte: Bollettino Ufficiale delle Ferrovie dello Stato 1918)
Treni composti con carri F
1918 numerazione da 1 a 24 con 300 barelle
Treni composti con carrozze CIz
1918 numerazione da 25 a 38 con 300 barelle
1918 numerazione da 49 a 54 con 236 barelle e 64 posti a sedere
Treni composti con carrozze CT
1918 numerazione da 39 a 47 con 360 barelle
1918 numerazione 48 con 180 barelle e 160 posti a sedere
1918 numerazione 55 contumaciale con 180 barelle e 160 posti a sedere
 
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Composizione del treno ospedale della croce rossa (1915)
(fonte: Rivista tecnica delle ferrovie italiane – luglio 1915)

Il treno ospedale, lungo 240 metri esclusa la locomotiva, poteva trasportare 206 infermi (tutti coricati su letti-barella).
Il personale era composto da:
Ufficiali:
1 Direttore del treno,
4 medici (un medico capo + 3 medici assistenti),
1 farmacista,
1 cappellano,
4 infermiere
Uomini di truppa:
impiegati amministrativi e contabili, militi per i servizi di infermeria e di manovalanza.
 
La formazione delle carrozze del treno ospedale era la seguente:
Carrozza n°1: bagagliaio
Carrozza n°2: alloggio personale direttivo
Carrozza n°3: cucina
Carrozza n°4: mensa, magazzino viveri, infermeria (12 barelle)
Carrozza da n°5 a n°11: infermeria (24 barelle)
Carrozza n°12: sala medicazione, farmacia, bagno, infermeria (12 barelle)
Carrozza n°13: alloggio personale assistenza
Carrozza n°14: infermeria per infetti (14 barelle)
 
Treni ospedale 1
 
Treni ospedale della croce rossa mobilitati
(fonte bibliografica)
1915-1918

Bollettino Ufficiale delle Ferrovie dello Stato
1915 Circolare n. 87 del 2 dicembre 1915

Treni ospedali della C.R.I.: 21 (numerazione da I A XXI)
1916 Circolare n. 15 del 10 febbraio 1916
1916 Circolare n. 45 del 11 maggio 1916
1916 Circolare n. 80 del 12 ottobre 1916

Treni ospedali della C.R.I.: 22 (numerazione da i a XXI più XXVI siculo)
1918 circolare n. 59 del 17 ottobre 1918

Treni ospedali della C.R.I. 24 (numerazione da I a XXI più XXII, XXIII, XXIV (contumaciali)
 
1915-1919
C.R.I. archivio storico. – “ opera svolta dalla cri durante la guerra 1915-1919“
Treni ospedali della C.R.I.: 24 (numerazione da I a XXI più XXII, XXIII, XXVI)

1924
Ministero della guerra – “i rifornimenti dell’esercito mobilitato durante la guerra alla fronte italiana 1915-1918”
treni ospedali della C.R.I.: 24 (nessuna numerazione citata)

1939
ministero della guerra – “indice delle truppe e dei servizi mobilitati durante la guerra 1915-18 - volume ii: i servizi”
treni ospedali della C.R.I.: 22 (numerazione da I a XXII)

1990
Belogi r. – “il corpo militare della croce rossa italiana – volume i “ treni ospedali della C.R.I.: 25 (numerazione da I a XXIV più treno ausiliario) 2005
Rebagliati n. – “i treni ospedale “
Treni ospedali della C.R.I.: 25 (numerazione da I a XXI più XXII, XXIII, XXIV, treno ospedale della sicilia)
 
Treni ospedale 4
 
Elenco dei treni ospedale della croce rossa mobilitati
(fonte: c.r.i archivio storico. – opera svolta dalla cri durante la guerra 1915-1919)

I treno ospedale centro mobilitazione Torino
 
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre 
- I armata da gennaio ad aprile e da giugno a luglio III armata a maggio intendenza generale da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio ad agosto e da novembre a dicembre IV armata a settembre III armata a ottobre
1918 da gennaio a dicembre intendenza generale
 
II treno ospedale centro mobilitazione Milano
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre 
- II armata da gennaio a marzo I armata da maggio a luglio intendenza generale da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre 
- intendenza generale da gennaio ad agosto e da novembre a dicembre
- IV armata a settembre
- III armata a ottobre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio ad agosto e da novembre a dicembre
- IV armata a settembre
- III armata a ottobre

III treno ospedale centro mobilitazione Genova
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre
- III armata da gennaio a maggio
- V armata a giugno intendenza generale luglio II armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre 
- IV armata da gennaio a marzo intendenza generale da aprile a dicembre
1918 da gennaio a dicembre 
- intendenza generale da gennaio a novembre
- I armata a dicembre

IV treno ospedale centro mobilitazione Verona
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre
- II armata a gennaio e da marzo a maggio
- III armata a febbraio intendenza generale da giugno a luglio
- I armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- I armata da gennaio a marzo
- zona Gorizia da aprile e maggio
- II armata da giugno a ottobre intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre 
- intendenza generale da gennaio ad aprile e a dicembre
- III armata da maggio a novembre

V treno ospedale centro mobilitazione Verona
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a luglio
- II armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre 
- II armata da gennaio a marzo   
- zona Gorizia aprile e maggio  
- II armata giugno a ottobre
- intendenza generaleda novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio ad aprile
- IV armata da maggio ad agosto
- Grappa altipiani da settembre a ottobre
- IV armata da novembre a dicembre

 

VI treno ospedale centro mobilitazione Verona
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre
- IV armata a gennaio a luglio
- intendenza generale da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a maggio
- VI armata da giugno a settembre
- I armata a ottobre
- intendenza generaleda novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
 -intendenza generale

 

VII treno ospedale centro mobilitazione Bologna
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre
- IV armata a gennaio ad aprile
- III armata da maggio ad agosto
- I armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- I armata da gennaio a marzo
- intendenza generale da aprile a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
 - intendenza generale da gennaio a novembre
- III armata a dicembre

 

VIII treno ospedale centro mobilitazione Bologna
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre
- I armata a gennaio ad aprile
- intendenza generale da maggio ad agosto
- III armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- III armata da gennaio a marzo
- IV armata da aprile a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a novembre
- IV armata a dicembre

 

IX treno ospedale centro mobilitazione Genova
Dipendenza:
1916 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio ad aprile e da giugno a luglio
- III armata a maggio
- II armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- II armata da gennaio a a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

X treno ospedale centro mobilitazione Firenze
Dipendenza:
1915 da maggio
- II armata
1916 da gennaio a dicembre
- II armata da gennaio ad aprile
- intendenza generale da maggio a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a marzo
- I armata da aprile a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

XI treno ospedale centro mobilitazione Genova
Dipendenza:
1915 da giugno
- III armata
1916 da gennaio a dicembre
- III armata da gennaio ad aprile
- I armata da maggio a luglio
- intendenza generale da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- intendenza generale
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a novembre
- III armata a dicembre

 

XII treno ospedale centro mobilitazione Bari
Dipendenza:
1915 da giugno
- II armata
1916 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio ad aprile
- III armata da maggio a luglio
- I armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- I armata da gennaio a marzo
- intendenza generale da aprile a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

XIII treno ospedale centro mobilitazione Roma
Dipendenza:
1915 da giugno
- III armata
1916 da gennaio a dicembre
- II armata generale da gennaio ad aprile
- intendenza generale da maggio a luglio
- IV armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- IV armata da gennaio a marzo
- I armata da aprile a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

XIV treno ospedale centro mobilitazione Roma
Dipendenza:
1915 da maggio
- marina da maggio a luglio
- intendenza generale da agosto a dicembre
1916 da gennaio a dicembre
- III armata da gennaio ad aprile
- intendenza generale da maggio a luglio
- IV armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- IV armata da gennaio a marzo
- I armata da aprile a maggio
- VI armata da giugno a settembre
- intendenza generale da ottobre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

XV treno ospedale centro mobilitazione Napoli
Dipendenza:
1915 da giugno
- II armata da giugno a luglio
- intendenza generale da agosto a dicembre
1916 da gennaio a dicembre
- IV armata generale da gennaio a luglio
- zona Puglie da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- zona Puglie da gennaio a maggio
- intendenza generale da giugno a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio ad aprile
- I armata da maggio a dicembre

 

XVI treno ospedale centro mobilitazione Genova
Dipendenza:
1915 da giugno
- intendenza generale da giugno a luglio
- III armata da agosto a dicembre
1916 da gennaio a dicembre
- I armata da gennaio ad aprile
- intendenza generale da maggio a luglio
- II armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- II armata da gennaio a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

XVII treno ospedale centro mobilitazione Firenze
Dipendenza:
1915 da giugno
- zona Carnia da giugno a luglio i
- intendenza generale da agosto a dicembre
1916 da gennaio a dicembre
- III armata da gennaio ad aprile
- II armata a maggio
V armata a giugno
- intendenza generale a luglio
- I armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- I armata da gennaio a febbraio
- zona Gorizia da aprile a maggio
- II armata da giugno a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

XVIII treno ospedale centro mobilitazione Milano
Dipendenza:
1915 da giugno
- II armata
1916 da gennaio a dicembre
- II armata da gennaio a maggio
- I armata da giugno a luglio
- intendenza generale da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- intendenza generale
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale

 

XIX treno ospedale centro mobilitazione Ancona
Dipendenza
1915 da giugno
- III armata
1916 da gennaio a dicembre
- III armata da gennaio ad aprile
- intendenza generale da maggio a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a marzo e da novembre a dicembre
- IV armata da aprile a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a novembre
- IV armata a dicembre

 

XX treno ospedale centro mobilitazione Torino
Dipendenza:
1915 da giugno
- zona Carnia da giugno a luglio
- I armata da agosto a dicembre
1916 da gennaio a dicembre
- III armata da gennaio ad aprile e da giugno a luglio
- II armata a maggio
- intendenza generale da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a maggio
- VI armata a giugno a settembre
- I armata a ottobre
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a novembre
- I armata a dicembre

 

XXI treno ospedale centro mobilitazione Milano
Dipendenza:
1915 da luglio
- intendenza generale luglio
- III armata da agosto a dicembre
1916 da gennaio a dicembre
- I armata da gennaio ad aprile
- IV armata a maggio a luglio
- II armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- II armata da gennaio a marzo
- intendenza generale da aprile a dicembre
1918 da gennaio a dicembre
- intendenza generale da gennaio a novembre
- IV armata a dicembre

 

XXII treno ospedale centro mobilitazione Milano
Dipendenza:
1918 da novembre
- intendenza generale da novembre e a dicembre

 

XXIII treno ospedale centro mobilitazione Milano
Dipendenza:
1918 da dicembre
- intendenza generale a dicembre

 

XXVI treno ospedale Sicilia centro mobilitazione Palermo
Dipendenza:
1915 da giugno
- intendenza generale da giugno a luglio
- I armata da agosto a dicembre
1916 da gennaio a dicembre
- disposizione ministero a gennaio
- Bari - Brindisi da febbraio a marzo
- zona Puglie ad aprile
- Taranto a maggio
- zona Puglie da giugno a luglio
- II armata da agosto a dicembre
1917 da gennaio a dicembre
- IV armata generale da gennaio a febbraio
- intendenza generale da aprile a maggio
- zona Puglie da giugno ad agosto
- intendenza generale da novembre a dicembre
1918 da novembre
- intendenza generale a dicembre
 
 
Treni ospedale 5
 
 
Fonti:
I treni ospedale della croce rossa italiana nella prima guerra mondiale
 di Raffaele Attolini.
Guerrabianca.it
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti
 
 
 
 
 
 

 

BURCI, Enrico. - Nacque a Firenze il 26 maggio 1862 da Gaetano e da Laura Zagri-Chelli. Si laureò in medicina e chirurgia nell'università di Pisa nel 1885. Uno zio paterno, Carlo Burci, fu un celebre chirurgo; i suoi primi maestri in chirurgia furono G. Corradi e P. Landi. Divenuto subito dopo la laurea, nel 1886, assistente effettivo presso la clinica chirurgica di Pisa, per circa tre anni il B. concentrò il suo interesse su argomenti di fisiopatologia sperimentale, di patologia generale, di igiene; in seguito si dedicò esclusivamente alla pratica chirurgica e allo studio di argomenti di patologia di interesse chirurgico. Dopo aver prestato servizio nei R.R. Ospedali di Pisa in qualità di chirurgo primario, nel 1892 conseguì la libera docenza in patologia chirurgica e nel 1898 quella in clinica chirurgica e medicina operatoria. Professore straordinario di patologia chirurgica a Padova nel 1899-900, e nel 1902 a Firenze professore di patologia chirurgica nell'Istituto di studi superiori e direttore della clinica chirurgica pediatrica dell'ospedale Mayer, nel 1903 divenne titolare della cattedra di clinica chirurgica dell'università di Firenze. Durante la guerra balcanica nel 1912 diresse una importante unità sanitaria militare in Serbia; durante quella del 1915-18 fu consulente chirurgo negli ospedali militari del corpo d'armata di Firenze e presidente del comitato sanitario regionale del dipartimento di Firenze e La Spezia. Fu inoltre ispettore straordinario nazionale per l'assistenza ai mutilati e agli invalidi di guerra nel 1916 e presidente della delegazione italiana nel Comitato interalleato per l'assistenza degli invalidi di guerra nel 1917. Dal 1926 al 1930 fu rettore dell'università di Firenze.

Il B. fu autore di ben 124 pubblicazioni e vantò una casistica clinica di oltre 30.000 interventi. Nel primo periodo della sua attività condusse studi accurati soprattutto in campo batteriologico, alcuni dei quali particolarmente originali e interessanti, anche per i loro riflessi pratici (Contributo alla conoscenza del potere patogeno del Bacillus Pyogenus Foetidus. Nota clinica, Pisa 1892 [estr. della Riv. gener. ital. di clin. medica, IV, 1891]; Sulla mutabilità di alcuni caratteri biologici del Bac. Coli comune, Pisa 1892). Ma ben presto il B. cominciò ad affrontare quegli argomenti di patologia chirurgica e di medicina operatoria che dovevano rappresentare il settore di studi preferito. Fu autore di interessanti ricerche sulla patogenesi e sul processo di guarigione della peritonite tubercolare, sulle localizzazioni extragenitali del gonococco, sull'actinomicosi dell'uomo; escogitò nuovi processi operatori e introdusse tecniche chirurgiche personali, che furono più tardi largamente seguite dagli altri chirurghi, quali la nefropessia, la riduzione dell'ernia ombelicale e di quella epigastrica, la resezione epatica e degli organi parenchimatosi in genere mediante sutura incavigliata semplice o combinata con legatura elastica. I suoi lavori nel campo della chirurgia intestinale contribuirono validamente alla soluzione di delicati problemi tecnici, rappresentati principalmente dalla difficoltà di intervenire in condizioni di asepsi e di operare correttamente sull'intestino (Ricerche sperimentali sopra alcuni mezzi che possono servire a diminuire i pericoli delle sepsi nelle operazioni del tubo digerente, Firenze 1894 [estr. da Lo Sperimentale, XLVIII, sez. clinica]; Le enterostasi durante le operazioni sull'intestino. Proposta di un nuovo enterostato, Firenze 1896 [estr. da La settimana medica dello Sperimentale, L]; Ricerche sperimentali sulla enterostasi, Pisa 1897; Sul saldamento della mucosa intestinale ravvicinata mediante la sutura, Firenze 1897 [estr. da La settimana medica dello Sperimentale, LI]). Di particolare rilievo fu, soprattutto, l'opera del B. nel campo della chirurgia vascolare: i progressi che si erano registrati in questo settore, dovuti in larga misura ai problemi terapeutici imposti dalle lesioni traumatiche e dalle dilatazioni aneurismatiche, consistevano essenzialmente nelle perfezionate conoscenze anatomo-topografiche, e nella conseguente precisazione dei vari tratti arteriosi o venosi ove poter effettuare le legature rispettando i circoli collaterali, e nelle corrette tecniche di tali interventi. Fu opera del B. l'aver dimostrato la possibilità di suturare i vasi sanguigni ripristinandone la continuità e conservandone la pervietà del lume, e di aver descritto le metodiche idonee a tale processo operativo per le arterie e per le vene. Egli iniziò i suoi esperimenti con poveri mezzi, non più che due semplici pinze emostatiche con le branche rivestite da tubicini di gomma e un sottile ago da sutura; ma questo strumentario gli fu sufficiente a effettuare la riparazione di ferite longitudinali e trasverse dei vasi sanguigni e a praticare brillanti interventi di anastomosi termino-laterali e termino-terminali, i quali ultimi sono oggi di comune impiego nella moderna chirurgia cardiovascolare. Nel corso delle sue ricerche in questo settore, il B. dimostrò sperimentalmente la possibilità di decorticare le arterie mediante l'asportazione della tunica avventiziale, senza determinare lesioni anatomiche e funzionali del vaso: tale tecnica fu successivamente perfezionata e impiegata nella terapia delle arteriopatie obliteranti, grazie soprattutto alla genialità di R. Leriche che, riprendendo precedenti studi sull'argomento, introdusse il processo operatorio nella cura della causalgia (De la causalgie envisagée comme une névrite du sympathique et de son traitement par la dénudation et l'excision des plexus nerveux périartériels, in LaPresse méd., XXIV [1916], pp. 178-180). Al B. spetta dunque il merito di aver dato inizio agli studi clinici e sperimentali di chirurgia vascolare e di aver intrapreso la sistemazione nosografica delle vasculopatie di interesse chirurgico (Malattie chirurgiche delle arterie, in Trattato ital. di chirurgia..., Milano s.d., II, parte 2, pp. 75-172; Malattie delle vene [con Q. Vignolo], ibid., pp. 173-189).

Il B. morì a Firenze il 30 ott. 1933.

Bibl.: G. F., Prof. E. B., in Pensiero medico, XVIII (1929), pp. 748-49; D. Taddei, E. B., in Policlinico, sez. pratica, XL (1933), pp. 1835-36; C. Righetti, Comm. del prof. E. B., estratto da Boll. d. Acc. pugliese di scienze, IX (1933); E. B., in Riv. di ter. moderna e di med. pratica, XXVI (1933), p. 55; G. D'Agata, E. B., in Riv. san. sicil., XXI (1933), p. 1779; J. Fischer, Biograph. Lex. der hervorragendenÄrzte..., I, pp. 201-02.

Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Comm. Prof. Franco Mosca

Il professore Franco Mosca, chirurgo di fama internazionale,ha promosso l'utilizzo della robotica nelle sale operatorie e luminare dei trapianti di organi.
Nel 2018 era entrato nell'olimpo mondiale della chirurgia, con il conferimento dell'onorificenza massima per un chirurgo, venendo nominato «Honorary Fellow» dall'American College of Surgeons, la più grande e prestigiosa società scientifica di chirurghi al mondo.

Mosca era nato a Biella nel 1942 e aveva portato a Pisa i trapianti d'organo, fornendo le competenze e la spinta necessaria per l'apertura dei centri trapianti di fegato e di pancreas e per lo sviluppo di quello di rene, per quest'ultimo, proseguendo l'attività che aveva già iniziato insieme al suo maestro, il professor Mario Selli. Aveva quindi guidato i rispettivi centri trapianti, dove oggi vengono a curarsi pazienti da tutt'Italia, raggiungendo numerosi primati e portandoli ai vertici nazionali e internazionali per volumi di attività, risultati e reputazione scientifica.

Prima di essere collocato a riposo nel 2012, presso l'Aoup Mosca è stato direttore delle Unità operative di Chirurgia Generale e Sperimentale, Chirurgia Generale e Trapianti, Chirurgia Generale 1 Universitaria, del centro EndoCas e del Dipartimento di Chirurgia Generale. Dal punto di vista accademico, invece, è stato nominato professore ordinario di chirurgia generale all'Università di Pisa nel 1986 e, nel corso della sua carriera, è stato vicepreside della Facoltà di Medicina e Chirurgia, direttore del Dipartimento di Oncologia dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, oltre che di diverse Scuole di Specializzazione e di Dottorato.


Fonte: Il Messaggero
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

Cav. Gran Croce Dr. Rodolfo Bernardini

Cav. Gran Croce Dr. Rodolfo Bernardini

Dirigente bancario, attivista politico, giornalista pubblicista, uomo impegnato nel volontariato cattolico, collezionista raffinato, studioso e storiografo. Sono solo alcuni dei molteplici tratti che hanno caratterizzato l’impegno e i poliedrici interessi di Rodolfo Bernardini, distintosi in ogni sua attività per un profondo rigore, divenuto insieme modello e irrinunciabile stile di vita. Due lauree (economia e giurisprudenza), Bernardini ha svolto tutta la sua carriera professionale all’interno della ex Cassa di Risparmio di Pisa raggiungendo il massimo grado del personale direttivo, ma sempre ha coltivato una divorante passione per la storia della sua città, collaborando alle principali iniziative storico-rievocative, dalla Regata delle antiche Repubbliche Marinare (per 25 anni è stato componente del Comitato) alla ripresa nel Gioco del Ponte nel 1982.

Anche l’impegno politico, che lo vide giovanissimo, a guerra non ancora finita, partecipare alla costituzione clandestina della Democrazia Cristiana, partito del quale sarà a lungo ai vertici e per 15 anni (dal 1970 all’85) consigliere comunale e provinciale (una legislatura) e al quale rimarrà iscritto fino allo scioglimento del 1993. Poi l’avvicinamento al Ccd-Centro Cristiano Democratico — del quale è stato presidente provinciale per alcuni anni — e in seguito a Forza Italia, nelle cui liste Bernardini è risultato primo dei non eletti alle Comunali del 2003. Cresciuto nelle file dell’Azione Cattolica è sempre stato impegnato in attività e associazioni di volontariato, a partire dalla Misericordia, al cui interno ha ricoperto la carica di Governatore.

Nel campo culturale il suo impegno prevalente è stato rivolto all’Istituzione dei Cavalieri di Santo Stefano, che ha presieduto per un quarto di secolo (fino al 2007) promuovendo decine di convegni e una collana storica («I Quaderni Stefaniani») che ha prodotto oltre 80 volumi, che oggi resta punto di riferimento per gli studiosi e quanti vogliano approfondire la storia stefaniana e più in generale toscana. Socio di una ventina di Accademie e Istituzioni culturali, Bernardini è stato autore prolifico di studi, pubblicazioni e ricerche ed è stato insignito di onorificienze italiane e straniere e riconoscimenti culturali. Basti dire che per ben sei volte ha ricevuto il Premio cultura della Presidenza del consiglio dei ministri: l’ultima nel 2006 per la trilogia «Un pisano racconta» (ed. Ets), diario storico, politico e di costume della nostra città dagli anni Venti a oggi. La camera ardente è allestita alle cappelline della Misericordia in via Pietrasantina e le esequie saranno celebrate domani, martedì, alle ore 17 nella Chiesa dei Cavalieri di Santo Stefano. In questo momento di immenso dolore «La Nazione» è vicina alla signora Anna Maria, alle figlie Francesca e Giovanna e alla sorella Lucia, alle quali giungano sentite condoglianze dalla nostra redazione.


Fonte: iagiforum - Guglielmo Vezzosi
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 Gr.Uff. Dr. Paolo Padoin

Paolo Padoin è nato nel 1947 a Firenze, dove ha compiuto i suoi studi fino alla laurea in Giurisprudenza, conseguita nel 1969. È Procuratore legale. È coniugato con Lucia Lazzerini, professore ordinario di Filologia romanza all’Università di Firenze.
Nel 1972 ha iniziato il servizio presso la Prefettura di Arezzo.
Dal 1980 al 1984 ha prestato servizio quale amministratore presso la Commissione dell’Unione Europea a Bruxelles.
Nominato Prefetto nel 1993 è stato destinato al Ministero dell’Interno. Nel maggio del 1997 è Prefetto di Pavia, nel 2000 di Pisa, da febbraio a dicembre
2003 di Campobasso (dove ha affrontato i problemi dell’emergenza post-terremoto che ha colpito San Giuliano di Puglia e altri comuni della zona), dal dicembre 2003 al marzo 2008 di Padova, dal marzo 2008 all’agosto 2010 Prefetto di Torino e fino all’aprile 2012, Prefetto di Firenze, la sua città, dove attualmente ricopre l’incarico di presidente dell’Opera Medicea Laurenziana.
Esperto di diritto comunitario, di amministrazione locale, di sicurezza, di immigrazione e di protezione civile, è autore di numerosi volumi e articoli, ed è collaboratore della Guida Normativa per l’Am- ministrazione locale.
Ha pubblicato due edizioni del libro Il Prefetto questo sconosciuto, Torino 2010 e 2015.

Fonte: prefettura.it
Ricerca storica: Roberto Marchetti
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Auschwitz: La Tragedia Inenarrabile Diventata Simbolo di Orrore
 
Auschwitz binari di Valeria Alpi 768x601
Fonte: informareunh
 

Il campo di concentramento di Auschwitz, situato nei pressi della cittadina polacca di Oświęcim, è un tragico monumento che testimonia la brutale ferocia perpetrata durante la seconda guerra mondiale. Conosciuto anche come Konzentrationslager Auschwitz o KZ Auschwitz, questo complesso di campi di concentramento e sterminio è diventato il simbolo universale del lager nazista, rappresentando il culmine dell'orrore dell'Olocausto.

Tra il 1940 e il 1944, oltre un milione di prigionieri, principalmente ebrei, furono uccisi nei campi che costituivano Auschwitz. Il campo principale, Auschwitz I, fu solo l'inizio di un complesso che comprendeva anche il noto campo di sterminio di Birkenau (Auschwitz II), il campo di lavoro di Monowitz (Auschwitz III) e altri 45 sottocampi. Questi luoghi divennero tristi testimonianze di un progetto di "soluzione finale della questione ebraica", che nascondeva lo sterminio sistematico di milioni di persone.

Durante l'occupazione tedesca della Polonia, il complesso di Auschwitz si espanse su circa 40 chilometri quadrati, includendo aziende modello e agricole volute personalmente da Hitler, dove i prigionieri venivano sfruttati come schiavi. Le espropriazioni forzate e le demolizioni delle proprietà crearono un clima di terrore che avvolgeva l'intera regione.
La liberazione di Auschwitz avvenne il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche raggiunsero il campo. Il Giorno della Memoria, istituito nel 2005, simboleggia il ricordo delle vittime e l'importanza di preservare la memoria di queste atrocità.

Dopo la guerra, nel 1947, il parlamento polacco decise di creare un memoriale-museo che comprendesse le aree di Auschwitz I e Auschwitz II. Nel 1979, il sito fu dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO e la sua denominazione fu modificata in Memorial and Museum Auschwitz-Birkenau - German Nazi Concentration and Extermination Camp.

Auschwitz rimane una ferita aperta nella storia dell'umanità, un monito contro l'odio e la brutalità. La sua memoria è essenziale per garantire che tali atrocità non si ripetano mai più, e il suo status di patrimonio dell'umanità è un impegno a mantenere viva la testimonianza di chi ha sofferto e perso la vita in quel luogo di orrore.

Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia

 


Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gunter Demnig (Berlino, 27 ottobre 1947), artista tedesco. 

Gunter Demnig

Gunter Demnig è diventato una figura di rilievo grazie all'iniziativa delle pietre d'inciampo, un progetto che ha avuto inizio nel 1992 e si è diffuso in tutto il territorio europeo. Questa iniziativa, volta a commemorare le vittime del nazismo, prevede il posizionamento di piccole pietre d'ottone nei luoghi in cui vivevano o lavoravano le persone prima di essere perseguitate.

Prima di dedicarsi a questa importante missione, nel 1985 Demnig ha aperto il suo studio a Colonia, in Germania, dove si è impegnato su diversi progetti locali. La sua carriera è stata caratterizzata da un profondo impegno sociale e dalla volontà di rendere tangibile e duraturo il ricordo delle vittime dell'Olocausto.

A partire dal 1994, Demnig ha collaborato attivamente con l'IGNIS-Kulturzentrum (IGNIS Cultural Center), contribuendo alla diffusione della consapevolezza storica e culturale attraverso progetti concreti e significativi.

L'iniziativa delle pietre d'inciampo è diventata un simbolo tangibile della memoria collettiva europea, sottolineando l'importanza di preservare la memoria storica per le generazioni future. Demnig ha dimostrato con il suo lavoro che anche un semplice gesto, come posare una pietra, può avere un impatto profondo nel mantenere viva la memoria delle tragedie del passato e nell'inculcare valori di tolleranza e umanità per il futuro.

Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia
 
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Il Campo di Fossoli durante la Seconda Guerra Mondiale: Un'Oscura Storia di Prigionia e Deportazione

Il Campo di Fossoli, situato vicino a Carpi in provincia di Modena, ha una storia complessa e oscura legata agli eventi della Seconda Guerra Mondiale. Originariamente istituito nel maggio 1942 come campo di prigionia per soldati alleati, il destino del campo cambiò radicalmente dopo l'occupazione tedesca dell'8 settembre 1943.

Dopo l'occupazione, le truppe tedesche trasferirono tutti i prigionieri alleati nei campi del Terzo Reich, abbandonando il campo di Fossoli. Tuttavia, a fine novembre 1943, il campo fu riattivato come luogo speciale per l'internamento degli ebrei. Questo segnò un cambiamento significativo, passando sotto il controllo diretto del podestà di Modena anziché dell'autorità militare, evidenziando la diretta responsabilità fascista nella politica di deportazione degli ebrei.
Le SS, guidate dal tenente Titho e dal maresciallo Haage, assunsero il controllo del campo ebraico, destinando alcune baracche del nuovo campo a luogo di transito e smistamento per antifascisti e partigiani arrestati nei rastrellamenti e destinati ai lager in Germania.

Il settore ebraico del campo consisteva in 10 baracche, ciascuna con una capacità di 250 persone, mentre nel settore dei prigionieri politici c'erano 7 baracche con una capacità di 320 persone ognuna.

Il 22 giugno 1944, Poldo Gasparotto, esponente del C.L.N. lombardo, fu brutalmente assassinato con un colpo alla nuca, evidenziando la brutalità del regime nei confronti degli oppositori. Il 12 luglio 1944, 67 prigionieri furono fucilati nel poligono di Cibeno come rappresaglia per la morte di sette soldati tedeschi per mano dei GAP di Genova.

All'inizio di agosto 1944, il campo fu sgomberato e chiuso, con tutto il suo contenuto trasferito al campo di Gries a Bolzano. Tuttavia, Fossoli rimase aperto come centro di raccolta di manodopera da trasportare in Germania.
La storia di Fossoli è un doloroso capitolo della Seconda Guerra Mondiale, testimoniando la brutalità della persecuzione e della deportazione sotto il regimefascista e nazista.
 
Fossoli planimetria 

Fonte: ITI-Maiorana

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

Il Tragico Tributo di Pisa alla Shoah: Bombardamenti e Deportazioni durante la Seconda Guerra Mondiale

Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la città di Pisa, strategicamente posizionata grazie al suo collegamento diretto al mare tramite il Canale dei Navicelli e alla sua importanza come snodo ferroviario cruciale, fu teatro di eventi devastanti che segnarono profondamente la comunità locale.

Bombardamenti Distruttivi:
Pisa subì pesanti bombardamenti a tappeto da parte delle forze americane, che miravano a colpire sia obiettivi bellici che civili. La stazione ferroviaria, fondamentale per il trasporto di uomini e materiali bellici, fu distrutta insieme ai quartieri sud-occidentali della città. In particolare, il quartiere di Porta a Mare fu polverizzato, causando ingenti perdite umane e danni strutturali irreparabili.

La zona industriale, cuore della produzione bellica, fu altrettanto colpita duramente. La fabbrica della Saint Gobain fu bersagliata da 367 bombe, provocando la morte di 56 persone. Le cifre ufficiali della Prefettura riportano 952 vittime, 1.000 feriti e danni significativi a edifici e abitazioni. Tuttavia, le stime suggeriscono che le vere vittime superarono le duemila.

Deportazioni e Campo di Fossoli:
In seguito ai bombardamenti, molti cittadini si rifugiarono nelle colline circostanti in cerca di sicurezza. Tuttavia, questa fuga da una tragedia si trasformò in un altro orrore per alcuni, poiché furono arrestati nei luoghi di rifugio e trasferiti al Campo di Fossoli. Da questo campo di internamento, molti furono poi deportati nei campi di sterminio nazisti.

Le Vittime della Shoah:
Vogliamo ricordare alcune delle vittime della Provincia di Pisa, persone che non sopravvissero alla Shoah e furono internate nel campo di Auschwitz. Queste vite spezzate rappresentano il tragico tributo che la comunità di Pisa ha pagato durante il periodo buio della storia:

Giulio Cremisi
Eva Della Seta
Gina Della Seta
Giovanni Della Seta
Jacopo Franco
Elena Gina Della Torre
Davide Finzi
Arrigo Coen
Olga Galletti
Karl Kammer
Mario Roccas
Elda Di Nola
Renzo Roccas
Liliana Archivolti
Edoardo Bigiavi
Evelina Sacerdoti

La memoria di questi eventi dolorosi serve come monito contro l'orrore della guerra e dell'odio, affinché possiamo impegnarci a costruire un futuro basato sulla pace, la comprensione e la solidarietà.

 

A Pisa, in Piazza S. Paolo all’Orto, 19 il 13 gennaio 2017 furono poste 4 pietre d'inciampo.
 
Le pietre d'inciampo (in tedesco Stolpersteine) sono un'iniziativa dell'artista tedesco Gunter Demnig per depositare nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. Tale progetto ha avuto inizio nel 1992 e consiste nell'incorporare nel selciato stradale delle città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, dei blocchi in pietra ricoperti da una piastra di ottone posta sulla faccia superiore.
 
 
Cremisi Giulio 

Figlio di Alberto Cremisi e Fortunata Pinto è nato in Egitto a Alessandria d'Egitto il 19 febbraio 1874. Coniugato con Matilde Galligo.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Giulio Cremisi  
   
Eva Della Seta Figlia di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nata in Italia a Roma il 10 giugno 1884. Coniugata con Enrico Di Capua.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Eva Della Seta  
   
Della Seta Gina Figlia di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nata in Italia a Castel Gandolfo il 3 settembre 1894. Coniugata con Jacopo Franco.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Gina Della Seta  
   
Della Seta Giovanni

Figlio di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nato in Italia a Roma il 18 gennaio 1883.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Giovanni Della Seta  
   
Franco Jacopo 

Figlio di Salomone Massimo Franco e Giulietta Tedeschi è nato in Italia a Verona il 9 giugno 1884. Coniugato con Gina Della Seta.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Jacopo Franco  
   
Immagine donna

Figlia di Egisto Della Torre e Palmira Bondì è nata in Italia a Livorno il 19 settembre 1885. Coniugata con Guido Archivolti.
Arrestata a Monteverdi Marittimo (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Elena Gina Della Torre  
   
Immagine uomo Figlio di Isacco Finzi e Lea Alter è nato in Palestina a Akko il 25 settembre 1905. Coniugato con Ida De Paz.
Arrestato a Pisa (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Davide Finzi  
   
Immagine uomo
Figlio di Alessandro Coen e Enrichetta Levi è nato in Italia a Urbino il 17 settembre 1879. Coniugato con Olga Galletti.
Arrestato a Santa Croce sull'Arno (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 05/04/1944 partito da Fossoli.
Arrigo Coen  
   
Immagine donna Figlia di Cesare Galletti e Amalia Pesaro è nata in Italia a Firenze il 29 marzo 1881. Coniugata con Arrigo Coen.
Arrestata a Santa Croce sull'Arno (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 05/04/1944 partito da Fossoli.
Olga Galletti  
   
Immagine uomo Figlio di Leopold Kammer è nato in Austria a Vienna il 6 novembre 1899. Coniugato con Dora Sternhell.
Arrestato a Santa Luce (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Karl Kammer  
   
Roccas Mario


Figlio di Vito Roccas e Giuseppina Della Seta è nato in Italia a Bracciano il 15 marzo 1900. Coniugato con Elda Di NolaArrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

La famiglia Roccas è composta da Mario Roccas e la moglie Elda Di Nola, la suocera Valentina Della Seta ed il figlio Renzo. Dalla casa di abitazione di Pisa, nell'estate 1943 si trasferiscono nella villa estiva di Chianni e qui vengono tutti arrestati il 21 aprile 1944. Carcerati a Firenze sono in breve trasferiti a Fossoli e da qui ad Auschwitz.

Mario Roccas  
Mario Roccas Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto 
   
Della Seta Valentina Figlia di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nata in Italia a Roma il 4 ottobre 1878. Coniugata con Angelo Di Nola.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Valentina Della Seta  
Valentina Della Seta Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto
   
198 219 DiNola Elda Figlia di Angelo Di Nola e Valentina Della Seta è nata in Italia a Pisa il 5 maggio 1901. Coniugata con Mario Roccas.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Elda Di Nola  
Elda Di Nola Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto 
   
Roccas Renzo Figlio di Mario Roccas e Elda Di Nola è nato in Italia a Roma il 10 giugno 1927.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Renzo Roccas  
Renzo Roccas Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto 
   
Immagine donna 

Figlia di Guido Archivolti e Elena Gina Della Torre è nata in Italia a Milano il 10 dicembre 1923.
Arrestata a Monteverdi Marittimo (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Numero di matricola: A-5348
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

 
Liliana Archivolti  
   
Bigiavi Edoardo
Figlio di Angelo Bigiavi e Elvira Pinto è nato in Egitto a Alessandria d'Egitto il 16 dicembre 1874. Coniugato con Evelina Sacerdoti.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Edoardo Bigiavi  
   
Bigiavi Evelina
Nata in Italia a Modena il 21 marzo 1880. Coniugata con Edoardo Bigiavi.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Evelina Sacerdoti  
 

 

 

 

Fonti: nomidellashoah, wikipedia, italianiinguerra, digital-library.cdec.it


Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

Il 13 gennaio 1915 gli aghi dei sismografi di tutta Italia e d’Europa prendono ad oscillare parossisticamente e con ampiezza inaudita; l’ampiezza diverrà vieppiù contenuta con il progressivo aumentare della distanza dall’epicentro ma i segnali del terremoto verranno percepiti dappertutto nel mondo. In Italia le onde si propagheranno per tutta la dorsale Appenninica e il sisma verrà distintamente avvertito fino a Parma; verso meridione invece le scosse saranno ancora percettibili a Potenza (De Magistris).
La zona dove si manifestarono i massimi effetti del terremoto fu quella corrispondente all’epicentro, la conca Fucense, all’epoca gia completamente prosciugata dell’antico lago. Quest’ampia superficie pianeggiante, di poco meno di duecento chilometri quadrati, e costituita da roccia calcarea carsica, fessurata e presentante inghiottitoi e voragini. La conca rappresento da sempre la cupa di raccolta delle acque dell’ampio impluvio e queste, mano a mano che giungevano in basso venivano assorbite dalle fessure e dalle concamerazioni del fondo. Ma con le acque discendevano in basso anche rocce, sassi, detriti, polveri e terre che, sedimentando al suolo, incominciarono ad ostruire dapprima le fessure e poi poco alla volta anche gli inghiottitoi maggiori; il fondo della conca comincio a ritenere le acque che vi si raccoglievano e queste a loro volta contribuirono ad impermeabilizzare il fondo, depositandovi detriti organici che lentamente vennero a costituire un sicuro materiale sigillante ed impermeabilizzante.
Col passare dei millenni e di ere geologiche il fondo della conca, oltre che di acque, si arricchì di depositi alluvionali sempre più spessi e sempre più fertili che discesero nel lago, ma mano a mano si depositarono anche sui pendii costeggianti l’invaso del lago stesso, fino a rivestire di spessa coltre sempre più costipata la base delle colline circostanti. Su questi fertili terreni alluvionali nacquero dapprima piccoli insediamenti che divennero col tempo sempre più importanti ma anche, per la più favorevole trasmissione degli effetti delle onde sismiche, più esposti a pericolo in caso di terremoti. Il terremoto del 13 gennaio del 1915 ebbe come epicentro la conca Fucense. Le onde sismiche che interessarono la superficie svilupparono tutta la loro energia sul massiccio strato alluvionale che costituiva il fondo del lago ma che pure risaliva attorno ai bordi dell’invaso, ove sorgevano gli abitati di Avezzano, Pescina, San Benedetto dei Marsi, Ortucchio e numerosi altri centri minori.

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Tutti questi centri vennero tanto duramente colpiti dal sisma da venirne praticamente distrutti. All’epoca del terremoto la città di Avezzano contava 11.200 abitanti; i suoi edifici verranno distrutti per il 95 per cento e sotto le macerie moriranno più di diecimila persone. Si salveranno appena un migliaio di abitanti molti dei quali non perché fossero riusciti a scappare ai crolli ma semplicemente perché si trovavano all’aperto, in campagna. Quasi tutti i sopravvissuti dovettero la loro salvezza al mancato rispetto del giorno di riposo (il 13 gennaio fu festivo). Per il motivo opposto invece una buona parte degli abitanti di Ortucchio e di Cerchio, in maggioranza donne, perdettero la vita. In queste due località erano stati compiuti cicli di prediche e di ritiri spirituali che culminarono, appunto al mattino del terremoto, in una messa solenne con comunione generale.

Fu durante la solenne funzione che si scatenò il sisma; le chiese di Ortucchio e Cerchio andarono distrutte e sotto le macerie del tetto e delle mura i fedeli perirono a centinaia. Cerchio è situata in prevalenza non su terreno alluvionale ma sulla propaggine rocciosa che mano a mano sale verso la Forca Caruso; essa ha quindi risentito il terremoto in misura ridotta che non le città e i villaggi giacenti sulla conca. Questa cittadina quindi avrebbe avuto molto meno vittime che non quelle che ettettivamente ebbe (circa cinquecento) se non vi fossero stati i quattrocento fedeli periti nel crollo della chiesa. Cerchio sorge su terreno compatto al contrario di Ortucchio che invece poggia su di un basamento di detriti, questa località anzi è tanto adagiata su materiali incoerenti d’origine alluvionale che, secondo le escrescenze o il ritirarsi dell’antico lago, alternativamente diveniva un’isola oppure diventava terraferma. Non tutti i centri del Fucino ebbero quindi lo stesso destino, neppure quelli situati ai bordi del lago.

La cittadina di Trasacco, a meta strada fra Luco e Ortucchio, fu colpita solo nella meta lungo la fascia alluvionale, al limitare dell’antico invaso. Le case costruite appena più in alto invece, sulle propaggini rocciose del monte Carbonaro che il sisma scanso per correre più liberamente per le valli verso l’Aceretta, subirono danni meno rilevanti; per conseguenza molti abitanti della zona alta del paese salvarono le loro vite ed anche i loro beni. Sorte analoga a quella di Trasacco ebbe Celano, costruita in parte su detriti di falda e in parte sulla roccia; la città alta ebbe danni più contenuti che non quella bassa. Rispetto all’epicentro del sommotimento, identificato nella conca Fucense, le onde sismiche raggiunsero, per direzioni preferenziali, zone anche distanti facendosi sentire chiaramente, ad esempio, fino a Roma dove per la scossa cadrà una delle gigantesche statue sul frontespizio della basilica di San Giovanni in Laterano. Ma la scossa del 13 gennaio farà risentire gli effetti ed i danni in molti altri luoghi, a Monterotondo nei pressi di Roma, su di un ampio tratto in riva destra del Tevere, a settentrione della Capitale fino a Fiano, Morlupo e Castelnuovo di Porto ed oltre, raggiungendo e oltrepassando il massiccio del Soratte.

Per altre direzioni il sisma si farà sentire fino in Umbria ben oltre Norcia, nelle Marche a Fermo, nella bassa valle del Pescara a Manoppello ed oltre, fino al mare Adriatico, in Molise a San Vincenzo al Volturno. Nel Lazio meridionale verrà raggiunta e colpita Sora; il sisma correrà ancora verso meridione lungo la valle del Liri. A Sud Est e poi mano mano ad Est il sisma perverrà sull’altipiano delle Cinquemiglia, percorrerà la conca di Sulmona sui versanti settentrionali della Majella. I danni maggiori arrecati dal sisma saranno grosso modo circoscritti entro il poligono tracciabile congiungendo i punti estremi che abbiamo nominati. Ma entro questo vasto territorio, a causa della meccanica di spostamento delle onde di cui abbiamo fatto cenno, i danni potranno essere più modesti in vicinanza dell’epicentro e ricomparire invece imponenti più lontano, lungo una vallata o una cimosa alluvionale.
Testi di Luigi Marra e Gaetano Ferri

 

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I giornali dell’epoca
Stanotte sono arrivati i militi della Croce Rossa, i quali hanno subito cominciato a curare i feriti. I militi si sono subiti recati nel paese e alla luce delle torce hanno cominciato l’opera dei disseppellimento. Ma sono pochi e manca il materiale necessario per il salvataggio. Alcune squadre di volenterosi sono venute dai paesi vicini ed hanno cominciato l’opera umanitaria, ma hanno dovuto smettere subito, per mancanza dei mezzi indispensabili. Occorrono anche viveri per coloro che si prestano a questa generosa impresa. Episodi commoventissimi si verificano dovunque. Una bambina ha messo fuori una manina dalle macerie. Si sono avvicinati subito dei soldati ed hanno tentato di salvarla; ma per mancanza di mezzi hanno dovuto sospendere l’opera loro per paura di veder morire la piccina da un momento all’altro e quando hanno potuto ritentare l’opera si sono accorti che la povera creatura era già morta e accanto a lei si trovava il cadavere della madre. L’opera dei soldati procede sempre in modo mirabile. Ma i mezzi di cui dispongono sono inferiori ai bisogni. Urge assolutamente provvedere. In questo senso hanno chiesto provvedimento al ministero gli on. Sipari, Torlonia e Guglielmi che sono presenti sul luogo.
«Il Mattino», 15-1-1915

Fonte: terremarsicane

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

16th SS Division Logo

 

La 16ª SS Panzergrenadier Division "Reichsführer SS" (16ª divisione di fanteria meccanizzata delle Waffen SS "Reichsführer") fu costituita nel novembre 1943, in seguito all'ampliamento della Sturmbrigade Reichsführer-SS (Brigata d'assalto Reichsführer-SS), con l'arruolamento di volksdeutsche.
Il grosso della divisione, ripartita in diversi gruppi di combattimento, stazionò in Italia dal maggio 1944 al febbraio 1945 e durante sua la permanenza in Italia la divisione contrastò l'Operazione Shingle, ritirandosi successivamente attraverso Siena e Pisa fino in Versilia.

Nell'agosto 1944 la divisione si rese responsabile di numerose atrocità ai danni della popolazione civile: l'11 agosto a Nozzano (59 morti); il 12 agosto quattro compagnie del II battaglione del 35º reggimento a Sant' Anna di Stazzema (560 morti); ancora effettivi del 35º reggimento a Vinca (170 morti) il 24 agosto; nel mese di settembre effettivi di questa divisione effettuarono il rastrellamento della Certosa di Farneta trucidando nei giorni seguenti i prigionieri (strage di Farneta e strage delle Fosse del Frigido; fu poi la volta di Bergiola Foscalina ed infine a Marzabotto (Bologna), dove tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 furono trucidate 770 persone. Per l'eccidio di Marzabotto l'unità responsabile fu il 16ª Reparto corazzato di ricognizione (SS Panzer Aufklärungs Abteilung 16) comandato dal maggiore (Sturmbannführer) Walter Reder.

Nel febbraio 1945 la divisione venne trasferita in Ungheria per cercare di liberare le unità tedesche rimaste intrappolate a Budapest (Operazione Frühlingserwachen). In seguito al fallimento dell'offensiva, la divisione si ritirò in Austria, dove si arrese alle truppe inglesi nei pressi di Klagenfurt nel maggio del 1945.

 

Teatri operativi
Ungheria, aprile-maggio 1944
Italia, giugno 1944 - gennaio 1945
Fronte orientale, febbraio-maggio 1945

Comandanti
SS-Gruppenführer Max Simon 3 ottobre 1943 - 24 ottobre 1944
SS-Brigadeführer Otto Baum 24 ottobre 1944 - 8 maggio 1945
 

Fonte: wikipedia

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Gli avversari

Francesco Giuseppe (1830 - 1916)
Figlio di Francesco I e di Sofia di Baviera, Franesco Giuseppe divenne Imperatore D'Austria e Ungheria durante la crisi del 1848. Con l'aiuto del principe Schwarzenberg, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, in meno di due anni ristabilì l'autorità imperiale in Boemia e in Ungheria e riaffermò la supremazia austriaca in Germania e in Italia. Tuttavia, l'ultimatum contro il Piemonte, lanciato nel 1859, poi quello contro la Prussia di Bismarck e il compromesso sull'Ungheria del 1867, si rivelarono azioni controproducenti. Per la dichiarazione di guerra alla Serbia, Francesco Giuseppe può essere, infine, ritenuto uno dei responsabili del conflitto del 1914-'18. Un matrimonio infelice, la fucilazione del fratello in Messico e il suicidio del figlio Rodolfo, scandirono tristemente i lunghi anni del suo regno.
 
Napoleone III (1808 - 1873)
In ossequio dei trattati di Plombières, Napoleone III scese in Italia con le truppe francesi il 27 Maggio 1859 a sostegno dell'esercito piemontese, ricevendo il comando supremo di entrambegli eserciti. A differenza di Vittorio Emanuele II, Napoleone possedeva una cultura militare puramente teorica. Tuttavia, a Solferino avrebbe scelto la tattica giusta. Figlio di Luigi Bonaparte re D'Olanda, fratello di Napoleone I, fu cresciuto in Svizzero imbevuto dei principi della Rivoluzione. Divenuto popolare a capo del partito bonapartista, fra alterne vicende, tra cui anche alcuni anni di prigione, venne eletto Presidente in Francia nelle elezioni successive alla monarchia di luglio. Difensore della sovranità popolare e garante dell'ordine al di sopra dei partiti, volle ricostruire l'Impero, con il colpo di stato nel dicembre del 1851, sanzionato poi da un plebiscito.
In antitesi con la politica austriaca, russa e prussiana, Napoleone III perseguì una politica estera basata su "principio di nazionalità", che piacque al popolo anche di altre nazioni. La Francia intervenne con L'Inghilterra nella Guerra di Crimea contro la Russia; Napoleone arbitrò il Congresso di Parigi e intervenne contro l'Austria nel 1859, con i Piemontesi. Il successivo isolamento diplomatico della Francia, però, risvegliò l'opposizione provocando la promulgazione di una nuova Costituzione. Napoleone III finì in esilio dopo la sconfitta francese a Sedan (1870).
 
Vittorio Emanuele II (1820 - 1878)
Figlio di Carlo Alberto e Maria Teresa di Lorena, aveva comandato brillantemente la divisione di riserva a Pastrengo, a Goito e Custoza(1848) durante la Prima Guerra d'Indipendenza; salì al trono del Regno di Sardegna in seguito all'abdicazione del padre dopo la sconfitta di Novara(1849). Gaudente in gioventù, il "Re galantuomo" si dimostrò poi volitivo e giudizioso, ottenendo la riduzione dell'indennità di guerra a 75 milioni e riuscendo a controllare le correnti democratiche interne. Scegliendo collaboratori come Cavour per la politica e La Marmora per l'esercito, il Re, lungimirante e spregiudicato, avrebbe stabilito un legame con il popolo, con i patrioti, con condottieri, sovrani, ministri e intellettuali: la carta vincente per l'unità d'Italia.

A pochi mesi dalla morte, nel 1887, sostenne il tentativo di Crispi per ottenere il passaggio del Trentino dall'Austria all'Italia.

L'età dei risorgimenti
Il secolo XIX è stato l'età dei Risorgimenti nazionali:Greci, Italiani, Belgi, Tedeschi, Ungheresi, Bulgari e Rumeni conquistarono, con diversi percorsi e travagli, l'indipendenza, ridisegnando completamente la carta geografica dell'Europa. L'idea di nazione, seminata nel continente dalle armate napoleoniche ed inutilmente archiviata dal Congresso di Vienna, aveva ben presto affascinato la borghesia liberale, insieme agli "immortali principi dell'Ottantanove"; alla Restaurazione seguì dopo appena un lustro la ben più lunga età delle rivoluzioni. Il fenomeno storico ancora successivo sarebbe stato il Nazionalismo: i popoli europei, ottenuta la loro libertà, sarebbero entrati in attrito, come un tempo avevano fatto le grandi monarchie assolutistiche, e le loro rivalità sarebbero poi sfociate nel primo conflitto mondiale.

Il termine "Risorgimento", sebbene non del tutto rispondente alla realtà storica, indica che qualcosa riprende coscienza di sé, tornando di diritto a possedere una propria dignità perduta. Nel nostro caso, si tratta della rinascita di nazioni che, seppur comprendenti realtà etniche e storiche ben definite, si trovavano, in una data epoca, subordinate ad altre potenze straniere. Il concetto di "risorgimento" implica, naturalmente, quello di una precedente "caduta" e questa, per quanto riguarda la situazione italiana, si verificò soprattutto nel secolo XVI, quando gli Stati della Penisola, a causa della loro debolezza e delle loro divisioni, divennero preda dell'imperialismo asburgico e francese.

La campagna del 1859

 

Fra quelli europei, quello italiano fu il più lento e il più difficile ad attuarsi, a causa delle particolari condizioni di frammentazione geografica e politica e della delicata questione religiosa e di rapporti internazionali posta dalla presenza sul suolo italiano dello Stato Pontificio. In compenso, però, quello italiano fu il più ricco di contenuti: nella definizione di Giuseppe Mazzini, infatti, il Risorgimento comprendeva tre obiettivi: l'unità della nazione, la sua indipendenza e la libertà dopo il riscatto, ovvero la costituzione di uno Stato repubblicano e democratico.
In altri Risorgimenti, invece era presente solo l'elemento dell'indipendenza, come ad esempio in quello belga, o dell'unità, come in quello tedesco; soltanto nella peculiare situazione italiana troviamo riunite, fin nel pensiero del suo primo teorico, un così ampio spettro di qualificazioni e di obiettivi politici.

Dal punto di vista storico, le tappe indicate da Mazzini si sono realizzate nel corso di più di un secolo di vicende:l'unità nel marzo del 1861; la totale indipendenza nel novembre del 1918; la libertà nel giugno del 1946 e nel gennaio del 1948, con il referendum istituzionale prima, e poi con l'entrata in vigore dell'attuale Costituzione della Repubblica. La lucida, quasi profetica analisi mazziniana, era però estremamente carente dal punto di vista dell'individuazione degli strumenti necessari per la sua attuazione.
Mazzini, infatti, riteneva che il Risorgimento potesse realizzarsi soltanto attraverso una rivoluzione popolare, volta contemporaneamente anche in senso democratico:l'Italia doveva essere liberata al tempo stesso dai tiranni stranieri e da quelli locali. Tale visione mancava di concretezza e di pragmatismo, in quanto non teneva conto del fatto che il Risorgimento di una nazione, dal momento che altera inevitabilmente degli equilibri politici, è anche una questione diplomatica internazionale che richiede la paziente tessitura di alleanze.
Mazzini non comprendeva neppure che, per il riscatto di un popolo e la nascita di un nuovo Stato, non sarebbero state sufficienti barricate e martiri, ma serbbero occorsi capitali, eserciti e la convergenza degli interessi di almeno una parte delle potenze egemoni in Europa.

L'Italia si estende su una penisola che divide il Mediterraneo in due bacini, ed è dotata, dunque, di un'importanza strategica e geografica unica. Questa caratteristica, che aveva costituito il motivo della disgrazia politica italiana nei secoli passati, se abilmente sfruttata, avrebbe potuto invece contribuire ad instaurare rapporti diplomatici favorevoli con qualche potente nazione europea.
A comprendere che Inghilterra e Francia potevano essere utilizzate per il Risorgimento nazionale, e che la sua guida doveva essere affidata ad uno Stato con un esercito piuttosto che alla rivoluzione di popolo; a scorgere del Risorgimento il volto prosaico e pragmatico, al di là di quello poetico e romantico, non poteva che essere uno statista, non un ideologo:un primo ministro della caratura di Camillo Benso, conte di Cavour.
Dal punto di vista politico, dunque, il Risorgimento si sviluppò attraverso il contributo dinamico sia delle forze liberal-moderate sia di quelle repubblicane, poste in fiera rivalità fra di loro. Sotto l'aspetto militare le prime espressero la loro azione per mezzo degli eserciti monarchici, le seconde apportarono il generoso contributo delle forze irregolari dei volontari. E' giusto ricordare, tuttavia, che la maggior parte del popolo italiano rimase passiva, o comunque, seguì e vicende risorgimentali con brevi entusiasmi fugaci.

Alla vigilia della Seconda guerra d'indipendenza
Alla conferenza di pace di Parigi del 6 maggio 1856, successiva alla Guerra di Crimea cui avevano partecipato anche i Piemontesi(battaglia sul fiume Cernaia), il conte di Cavour riuscì a porre la questione patriottica italiana, ottenendo un sia pur labile incoraggiamento da Napoleone III. Nei due anni successivi, pur tra ripensamenti e diffidenze, l'Imperatore francese avrebbe avvicinato sempre più le proprie posizioni a quelle dei Savoia, grazie anche alla "missione patriottica" brillantemente compiuta dalla bella e spregiudicata contessa di Castiglione su esplicito suggerimento di Cavour. Sembra che anche Costantino Nigra, allora in veste diplomatica, compisse con successo un'analoga "opera di convincimento" presso l'Imperatrice di Francia: ma se dell'Impresa della Castiglione siamo certi, di quella del Nigra non possediamo prove sicure, in quanto prima di morire fece bruciare tutti i suoi incartamenti.

Paradossalmente, anche l'attentatore alla vita di Napoleone III, l'anarchico Felice Orsini, contribuì a questo clima di seduzione, grazie alla dignitosa e "maschia bellezza" che seppe ostentare durante il processo. L'Imperatrice ne restò infatuata e commossa e l'Imperatore stesso ordinò la pubblicazione della lettera che l'Orsini gli aveva inviato prima di salire il patibolo, chiedendo alla Francia di restituire all'Italia "l'indipendenza che i suoi figli hanno perduto per mano dei francesi"(Orsini si riferiva ovviamente ai tempi lontani di Carlo VIII).

Di ritorno da Parigi, ove aveva partecipato al tavolo della pace per la Crimea, Cavour poté pronunciare alla Camera un discorso che suscitò in tutta la Penisola un'eco di entusiasmo enorme: "Per la prima volta nella nostra storia, la questione italiana è stata portata e discussa dinanzi ad un congresso europeo, al tribunale della pubblica opinione. La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte: ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspetteremo l'esito finale".

Su un piano sostanziale, la partecipazione sabauda alla Guerra di Crimea non aveva comportato alcun vantaggio ma la pubblica opinione ora comprendeva che qualcosa di molto più convincente delle barricate era in movimento; intravvedendo anche che lo Stato sabaudo e con esso la via monarchico-moderata, più che quella rivoluzionaria, avrebbero potuto rispondere concretamente alle aspirazioni patriottiche degli Italiani. Di ciò si ebbe assoluta certezza solo nel 1858, quando, nell'incontro svoltosi a Plombières tra Napoleone III e Cavour, furono stabiliti i termini di un accordo militare che prevedeva, fra i vari punti, che l'esercito francese sarebbe intervenuto in Italia a fianco del Piemonte qualora questo fosse stato aggredito dall'Austria; in tal caso, il comando supremo dei due eserciti sarebbe spettato a Napoleone III.

Poiché le condizioni di pace della precedente guerra contro l'Austria vietavano, tra l'altro, al Piemonte la ricostituzione dell'esercito, Cavour iniziò a mobilitare truppe in segreto e per gradi, accampando i più svariati pretesti. Egli sperava in questo modo di provocare l'aggressione austriaca. Inoltre, Garibaldi venne chiamato a colloquio e assicurato "al guinzaglio", mentre il famoso discorso del "grido di dolore"fece affluire in Piemonte da tutta Italia circa 29.000 volontari, subito inquadrati nell'esercito regolare e nella brigata "Cacciatori delle Alpi", posta sotto il comando di Garibaldi. Fortuna volle che il giovane ed altezzoso Imperatore austriaco, Francesco Giuseppe, reagisse alle provocazioni della "pulce piemontesi" con ultimatum che Massimo d'Azeglio non esitò a definire "uno di quei terni al lotto che capitano una volta in un secolo". La parola così passava agli eserciti.

L'approccio
Dopo la sanguinosa battaglia di Magenta (4 giugno) che aveva provocato la caduta di Milanonelle mani dei franco-piemontesi, il responsabile austriaco del fronte, il "lento" maresciallo Giulay, era stato sollevato dal'incarico ed il ventinovenne imperatore Francesco Giuseppe, coadiuvato dal Capo di Stato Maggiore Hess, aveva assunto personalmente la condotta della guerra in Lombardia, malgrado la nomina del conte Schilk di Bassano e Weisskirchen a comandante in capo del fronte lombardo. La notizia, dimostratasi poi falsa, di un imminente sbarco sulle coste adriatiche di 60.000 soldati francesi con il presunto obiettivo di attaccare alle spalle gli Austriaci da oriente, convinse Francesco Giuseppe a sospendere la ritirata e riattraversare il Mincio tra il 22 e 23 giugno, per battere le forze coalizzate nemiche prima di questo temuto sbarco.

L'esercito austriaco, dunque, attraversò il Mincio diviso in due Armate: a nord la 2° Armata, composta dall'VIII Corpo del Generale Benedek, dal V, dal I e dal VII Corpo; a sud la 1° Armata, composta dal IX, dal III e dall'XI Corpo, il cui obiettivo era Carpenedolo, sul fiume Chiese. Nei piani dello Stato Maggiore austriaco, la 2° Armata doveva tenere inchiodato il nemico, mentre la 1° aveva il compito di aggirarlo, avvantaggiata dalla manovra di avanzata su terreno pianeggiante. Frattanto, il 24 Giugno, i Piemontesi avevano raggiunto a nord il territorio di Pozzolengo; il I Corpo d'Armata francese (Baraguey e d'Hilliers), con la Guardia imperiale e Napoleone, erano in prossimità di Solferino, il II (MacMahon), il IV (Niel) ed il III Corpo d'Armata (Canrobert) gravitavano su Medole. Le cavallerie in ricognizione il giorno precedente avevano scorto un gran movimento di truppe nemiche sul Mincio, ma Napoleone aveva pensato che si trattasse soltanto di robuste retroguardie e sicuramente non di un movimento di avvicinamento in grande stile. D'altra parte neppure l'austriaco Hess riteneva di trovarsi di fronte l'intero esercito alleato, rimanendo convinto di dover affrontare soltanto truppe d'avanguardia.

 

La campagna del 1859

 

A san Martino e Solferino, insomma, entrambre gli schieramenti erano in marcia e nessuno dei due si trovava disposto in ordine di battaglia, tanto che i sanguinosissimi scontri si sarebbero accesi all'improvviso, come sempre accade nelle battaglie d'incontro, senza, quindi, una preventiva pianificazione tattica. Al levar del sole, si verificò l'incontro tra il I Corpo francese e il V austriaco. Alle ore 6 i francesi ebbero l'amara sorpresa di trovare la collina di Solferino occupata dal nemico; così come, nello stesso momento, i Piemontesi trovavano inaspettatamente occupata dagli Austriaci a San Martino, circa 6 chilometri più a nord. Lo sconcerto coglieva, naturalmente, anche gli Austriaci, convinti che l'esercito degli alleati fosse ancora sul fiume Chiese, almeno una dozzina di chilometri più a ovest. In una tale sorta di commedia degli equivoci, restava da vedere chi per primo si sarebbe ripreso dalla beffa che il destino aveva voluto giocare.

Le forze in campo
Sul campo si trovavano complessivamente 263.000 uomini con 773 cannoni: soltanto durante la Prima Guerra Mondiale sarebbero state superate in Italia cifre così cospicue di combattenti in un solo scontro. Nel loro settore gli Italiani impegnarono 34.000 uomini con 94 cannoni, mentre gli Austriaci disponevano di 32.000 soldati e 56 pezzi, con il vantaggio però di occupare forti posizioni sulle alture, che l'esercito piemontese avrebbe dovuto necessariamente espugnare, conquistandole palmo a palmo.

Sull'intero fronte i Francesi, invece, schieravano circa 100.000 uomini contro 95.000 Austriaci. Questi ultimi erano notevolmente superiori nell'artiglieria, poiché disponevano di circa 350 pezzi contro i 250 dei francesi, i quali però godevano di due notevoli vantaggi che si sarebbero rivelati poi, risolutivi. Anzitutto, Napoleone III era presente sul luogo dello scontro e avrebbe potuto dirigerlo personalmente dal monte Fienile, quasi sulla linea del fronte, mentre Francesco Giuseppe ed il generale Hess si trovavano in posizione molto più arretrata rispetto alla linea del fronte, nella località del Volta, e non sarebbero riusciti quindi, ad avere un quadro altrettanto chiaro della situazione tattica. In secondo luogo, aggregata al I Corpo francese si trovava in riserva la Guardia imperiale francese che, conservando la tradizione di Napoleone I, era costituita da truppe sceltissime, le migliori che si trovassero in Italia.

Al contrario, gli Austriaci, come avrebbe osservato il generale prussiano Moltke nel commentare Solferino, non disponevano di alcuna riserva da poter impiegare in battaglia al momento giusto. Dal suo osservatorio, dunque, Napoleone III intuì immediatamente la chiave della battaglia: la collina di Solferino era il perno dello schieramento nemico, e, sfondando in quel settore, egli avrebbe potuto mettere in crisi l'intero esercito austriaco. Per una curiosa coincidenza, la situazione sul terreno non era dissimile da quella affrontata dal suo illustre zio as Austerlitz. In questo caso, però, il I Corpo francese non poteva ricevere rinforzi perchè l'alleato piemontese, ubicato ala sua sinistra , si trovava già impegnato in combattimento contro l'VIII Corpo d'Armata austriaco a San Martino; inoltre, due delle cinque brigate del V Corpo francese erano impegnate alla Madonna della Scoperta e, infine, Napoleone III non poteva sperare neppure nell'IV Corpo di Niel alla sua destra, che, già si trovava in difficoltà con il III e il IX Corpo asburgico e, a sua volta, aveva bisogno del sostegno del II Corpo d'Armata di MacMahon e del III di Canrobert.

Il I Corpo, pertanto, avrebbe dovuto battersi da solo, in un attacco estremamente richioso, contro il parere del generale Baraguey d'Hilliers. Napoleone III, perfettamente cosciente della responsabilità che si assumeva da solo e in prima persona, ma, del resto, lucidamente convinto che nessun'altra condotta gli si presentasse da scegliere, trepidante, diede l'ordine d'attacco.

Dalle Alpi alla Sicilia
Alle cinque divisioni "regolari" schierate dal Piemonteper la campagna del 1859, si aggiungeva la brigata dei cacciatori delle Alpi, composta da 3.200 uomini, esclusivamente volontari, organizzata in tre reggimenti di due battaglioni ciascuno, equipaggiata con uniforme piemontese e posta sotto il comando di Giuseppe Garibaldi. Questo contingente costituisce l'espressione concreta del segno di una rinnovata intesa, raggiunta grazie a Cavour, fra le fazioni irredentiste monarchiche e quelle degli estremisti repubblicani "mangiapreti".

I Cacciatori, durante la campagna del 1859, arrivarono a 10 km da Trento, procurando a Garibaldi una grande popolarità, ma dopo l'armistizio di Villafranca e la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, un certo raffreddamento dei rapporti tra Casa Savoia e il nizzardo Garibaldi fu ovviamente inevitabile.

Si materializzò così, anche in forza delle argomentazioni del siciliano Crispi, il progetto di spedizione in Sicilia che seppur mosso al motto di "Italia e Vittorio Emanuele", avrebbe potuto dar luogo a complicazioni gravi, procurando a Garibaldi una fama eccessiva. Cavour quindi, cercò, senza successo, di ostacolare l'impresa dei Mille, che però, in realtà, avrebbe senza dubbio propiziato, con un modesto spargimento di sangue, l'unificazione Italiana sotto la corona sabauda.

La battaglia di Solferino
La collina di Solferino inizialmente era difesa da due brigate austriache e da quattro battaglionidi Kaiserjager ("Cacciatori dell'Imperatore"), arroccati su tre punti chiave: le case del paese, il cimitero e il vecchio castello. Per tutta la mattinata, sino a mezzogiorno, gli Asburgici respinsero a valle ben quattro attacchi alla baionetta delle "furie francesi" ed invocarono dal comando l'intervento di rinforzi per sferrare un contrattacco che avrebbe avuto buone probabilità di successo. Il comando supremo austriaco, nel frattempo trasferitosi da Volta a Cavriana, distante solamente pochi chilometri da Solferino, non poteva però rendersi conto in tempo reale delle fasi di battaglia.

A dire il vero, l'ottantenne maresciallo Nugent era l'unico, in tutto l'entourage di Francesco Giuseppe, che consigliasse di far affluire a Solferino massiccie riserve, ma l'età giocava a suo sfavore, e le sue parole non vennero ascoltate. In conclusione, al V Corpo arroccato a Solferino non giunsero gli aiuti richiesti a Benedeck, tanto impegnato dai Piemontesi a San Martino che credeva di avere addirittura dieci brigate sarde, anziché quattro, contrapposte alle sue sei. Qualche rinforzo austriaco, concesso per di più con riluttanza, giunse solo dal I Corpo, dietro al V, ma questo contingente si rivelò comunque troppo debole.

 

Fase finale della battaglia di Solferino

 

Alle 12.00 Napoleone III prese la decisione di far intervenire nella battaglia la Guardia imperiale francese, rinforzata anche con due brigate della divisione Forey: quest'ordine costituiva quella che Napoleone I, cinquant'anni prima, avrebbe chiamato la "dannata decisione". 5.000 dei migliori soldati ancora freschi, si avventarono contro gli esausti difensori austriaci di Solferino. Solo a questo punto il Comando supremo austriaco si rese conto della grave lacuna di non aver disposto una riserva che potesse gettare nella mischia al momento opportuno: Benedeck non era in condizione di distogliere neppure un uomo da San Martino e, a sud, anche il III e IX Corpo si trovavano, adesso, energicamente impegnati da violenti attacchi lanciati da MacMahon, Niel e Canrobert.

Alle 14, seppur decimate dall'artiglieria, le truppe francesi conquistavano di slancio le posizioni difensive sulla collina. Le due brigate della divisione Forey avevano assaltato alla baionetta il cimitero, la Guardia aveva raggiunto il castello, e la pur provata divisione Bazaine era riuscita a ripulire il paese dagli Austriaci.

Alle 17 Solferino si trovava in mano dei francesi, insieme ad un totale di 1.500 prigionieri asburgici, 14 cannoni e 2 bandiere nemiche. A sud, intanto, MacMahon aveva preso San Cassiano, scacciandone il VII Corpo di Zobel, Canrobert avanzava da Medole e Niel occupava Guidizzolo, sloggiando il III Corpo di Schwarzenberg e l'XI Corpo di Veigl. Soltanto verso le 15, Francesco Giuseppe si risolse a lasciare Cavriana per rincuorare le truppe con la sua presenza e con la celebre frase "Avanti miei soldati! Anch'io ho moglie e figli!". Ma era ormai troppo tardi e il cedimento della 1° Armata sarebbe stato inevitabile.

Più o meno alla stessa ora, anche Vittorio Emanuele, a San Martino, rincuorava i propri soldati. Un'ora dopo, il Comando Supremo austriaco fu costretto a sgomberare da Cavriana e, alle ore 17.30, tutto il fronte meridionale austriaco si ritirava in perfetto ordine. Il fortunale estivo che si abatté poco dopo, sull'intera zona e l'urgente necessità di riposo per l'esercito francese, avrebbero impedito a quest'ultimo l'inseguimento degli austriaci. A nord si sarebbe ancora combattuto ferocemente sulla collina di San Martino e alla Madonna della Scoperta fino alle otto di sera, ma per gli Austriaci la battaglia era ormai perduta.

La battaglia di San Martino
San Martino è un'ampia altura nei pressi di Peschiera e del Lago di Garda, circondata da ovest e da nord da ripide scarpate, con parecchi casolari e fattorie adatti ad essere trasformati in centri di resistenza fortificata. I Piemontesi naturalmente ignoravano che durante la notte San Martino fosse stata occupata da consistenti forze nemiche: così alle 7 del mattino poco più di 1.000 uomini della 5° divisione Cucchiari, in avanscoperta agli ordini del Tenente Colonnello Cadorna, il futuro generale di Porta Pia, si apprestavano a risalire la china, quando furono attaccati da una divisione austriaca, che li ricacciò sino alla non distante ferrovia.

Intervenuta in loro appoggio la brigata Cuneo, con 3.500 uomini e 4 cannoni, sembrò, ad un tratto, che questa riuscisse a conquistare il colle, ma fu, invece, a sua volta rigettata da 7.000 imperiali appoggiati da 29 pezzi, e dovette riunirsi, scompaginata, ai reparti di Cadorna. Alle 11 giunse a San Martino la brigata Casale, che, nonostante si fosse gettata risolutamente all'attacco, venne sopraffatta da forze fresche nemiche. Queste ultime, a loro volta, vennero ricacciate dal reggimento Acqui, appena sopraggiunto, che lentamente ma inesorabilmente procedva risalendo le pendici.

Il generale Benedeck, il quale sottovalutata la capacità di resistenza della fanteria sarda, fece intervenire allora due brigate, schierandole alle spalle dei Piemontesi impegnati sul crinale di San Martino per prenderli tra due fuochi. L'allarmante situazione venutasi a creare spinse il Capo di Stato Maggiore Enrico Morozzo della Rocca, d'accordo con il Re e Lamarmora, a richiamare la riserva costituita dalla brigata Aosta, alla quale si aggiungeva una certa porzione della divisione Fanti. La riserva si riunì alle forze della brigata Cuneo e di Cadorna. Sulla destra si schierò la cavalleria, sulla sinistra l'artiglieria, ed al centro si dispose la fanteria, forte di 15.000 uomini.

 

Le fasi della battaglia di San Martino

 

Nella calura afosa del primo pomeriggio intervenne lo stesso Vittorio Emanuele ad incoraggiare le truppe e impartì l'ordine, rimasto celebre, di liberarsi del peso degli zaini (circa 15 chilogrammi) prima di affrontare l'ardua salita disposizione che contravveniva al ferreo regolamento d'allora. Si racconta che anche il Resi rivolgesse in dialetto ai suoi soldati dicendo loro «O prendiamo San Martino o facciamo San Martino!», alludendo all'usanza piemontese di traslocare in occasione della festività di quel santo. Tali parole suonarono come monito estremo agli uomini che si preparavano all'ultimo attacco possibile, in alternativa alla ritirata generale e all'onta della disfatta.

L'assalto, effettuato con estremo coraggio, fu però carente nell'organizzazione, per ammissione dello Stato Maggiore stesso, e privo di compattezza. La brigata Pinerolo aveva appena conquistato la cascina Controcania, quando si scatenò un nubifragio estivo che compromise seriamente la manovrabilità dell'intero schieramento italiano. Alle 19, si raccolsero tutte le forze per l'ultimo disperato tentativo: quattro reggimenti e due brigate, 12.000 uomini complessivamente, ripresero ad avanzare sotto il fuoco di 18.000 Austriaci. Alla fine, 18 pezzi di artiglieria del tenente colonnello Ricotti riuscirono a scompaginare il fianco nemico, sul quale, allora, si avventarono i cavalleggeri del capitano Avogadro, insieme a due brigate appena sopraggiunte. Alle 20, il colle era in mano ai Piemontesi; il generale Benedeck, sconvolto dalla notizia della contemporanea sconfitta austriaca a Solferino da parte dei francesi, decise di abbandonare anche le posizioni alla Madonna della Scoperta, ritirandosi oltre il Mincio con il resto delle sue truppe.

Le conseguenze storiche e il bilancio finale
Il periodo tra l'estate del 1859 e quella del 1860 può a ragione essere definito l'annus mirabilis del Risorgimento italiano, malgrado il voltafaccia di Napoleone III con l'armistizio di Villafranca. Da San Martino e Solferino sarebbero scaturite la liberazione e l'annessione della Lombardia al Piemonte, nonchè i plebisciti con cui le popolazioni sottomesse ai ducati dell'Italia settentrionale ed alle legazioni pontificie si sarebbero espressi per l'unificazione. Nel maggio del 1860 partì la spedizione dei Mille che, con un impresa militare al limite dell'impossibile, determinò la scomparsa del Regno delle due Sicilie.

Nel settembre del 1860 l'abilità diplomatica di Cavour permise di scorporare le Marche e l'Umbria dallo Stato della Chiesa. In seguito ai plebisciti e all'annessione delle regioni dell'Italia centro-meridionale, venne dichiarata all'Europa e al mondo intero la nascita del Regno d'Italia, dopo tredici secoli in cui la nazione era stata divisa e soggiogata dalle potenze straniere.

L'ultimo personaggio italiano a fregiarsi del titolo di Re d'Italia prima di Vittorio Emanuele II era stato Arduino d'Ivrea, deposto dall'imperatore Enrico II nel 1014.

Questo il bilancio conclusivo delle perdite subite nelle Battaglie di Solferino e San Martino:

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E se avessero vinto gli Austriaci?
L'incerto e volubile Napoleone III, che da vincitore si affrettò a offrire l'armistizio, da sconfitto avrebbe a maggior ragione cercato una pace che non intaccasse troppo il suo prestigio e L'Austria lo avrebbe pobabilmente assecondato. Da parte sua Vittorio Emanuele non avrebbe potuto continuare la guerra da solo. Di conseguenza, la pace avrebbe posto probabilmente il Piemonte sotto protettorato francese.

Peraltro la disillusione, unita alle dimissioni di Cavour ed alla sua probabile e definitiva scomparsa dalla scena politica, avrebbe spinto il movimento patriottico nelle braccia di Mazzini e delle sue vaneggianti teorizzazioni sulla guerra di popolo. In questo quadro di debolezza, isolamento e disordine italiano , l'Austria avrebbe continuato a dominare per ancora molto tempo.

 

La nascita della Croce Rossa
Magenta, Solferino e San Martino furono battaglie particolarmente orribili per l'assenza di soccorso medico. A San Martino, ad esempio, gli Italiani lamentarono la perdita di 869 morti, 3982 feriti e 774 dispersi e, solamente grazie agli ottimi ospedali piemontesi ed ex-asburgici, i soldati deceduti in seguito alle ferite furono poco meno di 400.

Si dice che, dalla parte austriaca, Francesco Giuseppe alla vista del macello di Solferino esclamasse: «Meglio perdere una provincia intera e non rivedere mai più una carneficina del genere !».

Un filantropo ginevrino, Henri Durant, che già a Magenta aveva tentato di organizzare il soccorso ai feriti, al sentimento di orrore seppe unire anche un proposito concreto: dopo soli quattro anni a Ginevra verrà sottoscritta dalle potenze europee una prima convenzione dalla quale sarebbe poi nata la Croce Rossa Internazionale.

 

Bibliografia:
AA. VV., La Storia - 11: Risorgimento e rivoluzioni nazionali, UTET - De Agostini, 2004, per "La Biblioteca di Repubblica";
Livio Agostini, Piero Pastoretto, Le grandi Battaglie della Storia, Viviani Editore, Il Giornale, 1999

Fonte: arsbellica

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 

 

 

 

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