La battaglia di Curtatone e Montanara
Il primo di questi “aggregati tematici” ruota attorno al concetto di epicità. Lo scontro tra i volontari toscani e le truppe austriache fu presentato già dai contemporanei come una battaglia epica, che trovava i suoi naturali riferimenti nel mondo classico e nel mondo cattolico. Ancora nel periodo giolittiano i riferimenti religiosi della giornata erano molto forti: il 29 maggio era festeggiato prevalentemente con una funzione a suffragio dei caduti e, sebbene non si trovassero più frequentemente i riferimenti alla “crociata di civiltà” (4), ancora si poteva leggere sul settimanale “Stella Cattolica” come il nome di Curtatone e Montanara rimandasse all’“amor di patria, alla pietà dei defunti, alla grandezza d’Italia, alla maestà del rito e alla santità di Dio” (5).
Pare invece che il riferimento all’epicità del mondo classico permanesse più saldamente fino all’inizio del XX secolo. La battaglia, che provocò un forte impatto emotivo nella popolazione fiorentina, fu da subito assimilata al sacrificio di Leonida e dei suoi trecento spartani al passo delle Termopili (6).
Così, sul “Nuovo Giornale” del 1907 Maffio Maffi celebrava i martiri di Curtatone e Montanara ricordando come la loro gloria, al pari di quella degli Spartani, rimanesse immutata di fronte ai grandi cambiamenti dell’epoca.
Il riferimento al mito del mondo classico fu riproposto in modo consistente anche nel 1908, anno del sessantesimo anniversario della battaglia. L’assimilazione tra Curtatone e le Termopili apparve in molti giornali e nei numeri unici editi per l’occasione, il che porterebbe a pensare ad un mito largamente condiviso e senza una particolare connotazione politica. Se “La Nazione” (Dopo sessant’anni, 29 maggio 1908), ricordando i morti in battaglia parlava di “spartano eroismo”, era ancora “Il Nuovo Giornale” a fare un largo uso della comparazione ideale. Il quotidiano, in un lungo editoriale, poneva le “Termopili toscane” come l’apice di un percorso storico in cui la saggezza, il coraggio e l’anelito alla libertà delle generazioni fiorentine precedenti trovavano finalmente piena attuazione.
Sempre nel 1908 un gruppo di studenti fiorentini pubblicò un numero unico sulla battaglia di Curtatone e Montanara che vide la collaborazione di alcuni tra i più importanti intellettuali della città, come Pietro Barbéra, Vamba, Renato Fucini, Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana e Domenico Zanichelli (7). Nell’introduzione di Giuseppe Rondoni i riferimenti all’eroismo classico erano molteplici e non si fermavano solo all’accostamento con le Termopili. Nella prefazione al volume egli recuperava un altro esempio – quello della battaglia di Maratona – che pareva testimoniare quanto il mito del piccolo esercito di cittadini liberi, che combatte contro un esercito più numeroso, al soldo di un tiranno, per difendere la libertà, fosse stato largamente utilizzato. Nello spiegare le motivazioni della pubblicazione egli scriveva che
Gli eroi di cui si parla nel testo sono giovani che accanto alle virtù classiche e alle passioni romantiche hanno già delle caratteristiche moderne, come il volontarismo e l’impegno civico. Questo passaggio, oltre a mostrare un parziale cambiamento nella percezione del personaggio eroico, pare anche testimoniare il suo carattere polisemantico e sincretico (Mascilli Migliorini 1984) che lo rende “una figura eclettica e malleabile che, come un racconto, può essere sottoposto a numerosi aggiornamenti e adattamenti” (Riall 2008, 43).
Nello specifico, i patrioti che si ricordavano a Firenze nel 1908 avevano ancora alcune caratteristiche degli eroi omerici, ma erano già proiettati “nel quadro di una dimensione borghese, nella quale l’impostazione eroica si democratizza e slarga i suoi confini” (Tobia 2008, 47). Sebbene si celebrasse una battaglia corale, questa appariva composta da un coro di singole voci; non si commemorava più un generico battaglione, ma un insieme di giovani che volontariamente avevano deciso di combattere per la patria.
La libera decisione di partire per la guerra appariva quindi come una delle basi del secondo aggregato tematico collegato alla memoria storica di Curtatone e Montanara: l’esemplarità dei giovani combattenti. Il volontarismo, inteso come “una delle più significative esperienze del processo di unificazione nazionale italiano e una delle componenti del mito dell’esperienza di guerra” (9), offriva un nuovo modello di impegno civico ad un’ampia parte della borghesia italiana e contribuiva a formare un nuovo modello maschile per il popolo italiano che fu poi ampiamente diffuso tramite libri, memorie e commemorazioni.
Nel caso specifico delle onoranze ai caduti del 29 maggio, il volontarismo era assunto come un valore, come un “insegnamento di idealità interessata, di moralità portata all’estremo, di un impegno vocato al disinteresse per sé” (Cipolla 2004b, (12).
La partecipazione spontanea al conflitto, tuttavia, era solo uno dei motivi dell’esemplarità dei combattenti. Un’altra caratteristica che fu spesso enfatizzata nel ricordo dei caduti era l’ambito di provenienza di parte dei volontari. Tra le formazioni impegnate nella battaglia del 29 maggio, un ruolo simbolico molto importante fu assunto da quella “élite politico-socio-culturale costituita da alcuni grandi scienziati (Mossotti, Corticelli, Pilla ecc…) e da molti dei loro ‘scolari’” (Calzolari 2004, 9). Il battaglione universitario toscano acquisì nel tempo una grande fama in ambienti politici e militari al punto di ricevere, nel 1910, la medaglia d’argento al valor militare. Gli studenti e i professori delle università di Pisa e Siena che morirono a Curtatone e Montanara acquisirono un posto privilegiato nel ricordo dei fiorentini e dei toscani e il loro sacrificio assunse un significato del tutto speciale: la loro formazione militare, raccogliendo i più influenti docenti e la più colta, erudita ed influente gioventù toscana, divenne da subito il simbolo dell’alto tributo che la Regione aveva pagato per il compimento della rinascita nazionale. A Curtatone e Montanara, infatti, come hanno scritto Mirtide Gavelli e Otello Sangiorgi, “le virtù civili si erano finalmente ricongiunte con le tradizionali virtù poetico-letterarie, e questo era così significativo dato che gli eroi di Curtatone provenivano dalla Regione che da sempre è stata considerata la culla della civiltà italiana; anzi, si trattava di professori universitari, deputati, anche da un punto di vista professionale, a custodire la cultura patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132).
La Toscana, inoltre, sentiva di aver perso in quell’occasione un’intera futura classe dirigente, formata da quei giovani che per lungo tempo avrebbe elevato a simbolo di esemplarità; essi con il loro sacrificio rimasero a lungo una presenza forte del Risorgimento, poiché con la loro morte “incarnavano il mito del giovane colto che sacrifica il suo brillante avvenire e la sua stessa vita per il bene della patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132). Il connubio tra cultura e patriottismo, rappresentato dai caduti del 29 maggio, superò agevolmente il passare del tempo e fu riproposto più volte negli articoli, nelle poesie e nelle commemorazioni. Un esempio è offerto dal discorso che Eugenio Coselschi tenne alla Pro Cultura in occasione dell’anniversario del 1911 (10).
In quel giorno di maggio nei piani di Lombardia tutti rigogliosi di messi, una più ricca messe di vita si disperdeva, se voi pensate che tra i caduti in quel giorno erano le più belle speranze della scienza e della patria, che tra i volontari pugnanti in quel memorabile sforzo, erano medici, avvocati, studenti, la più eletta parte, la più nobile figliolanza della Toscana, se nobiltà non può essere che altezza di ingegno, volontà di studio, potenza di sentimento; se voi pensate che nelle schiere che il brutale imperio soffocò erano le vivente espressioni delle scolari grandezze delle città nostre, della civiltà nostra, della nostra libertà popolana, muore sul labbro la parola del perdono, e rossa infrenabile, istintiva e possente dovrebbe sorgere invece la parola della maledizione (11).
Accanto al tema della cultura, l’estrema giovinezza dei patrioti, riportata anche a distanza di decenni da giornali e oratori, era un’ulteriore caratteristica che concorreva a incrementare il mito della straordinarietà dei combattenti. Con un età media inferiore ai vent’anni, gli studenti del battaglione universitario toscano erano elevati alla gloria come agnelli sacrificali (Banti 2011, 73). L’immagine più usata per ricordare i giovani patrioti toscani stroncati nel pieno della vita fu quella dei fiori, come a voler riallacciare simbolicamente la battaglia di Curtatone e Montanara alla metafora del movimento della “primavera dei popoli” del 1848. Così, nel 1908, “Il Nuovo Giornale” ricordando la “gloriosa sconfitta”, scriveva:
Sembra inoltre che l’immagine della primavera fosse utilizzata per instaurare un parallelismo tra la giovane età dei caduti – i morti in battaglia erano nel fiore degli anni – e il movimento di rinascita che stava attraversando la patria. L’affinità appariva anche grazie all’utilizzo di termini come “risorgimento” e “resurrezione”. Nella poesia pubblicata dagli studenti fiorentini nel loro numero unico appariva appieno questo voluto gioco di parole:
Assunta in questo contesto, anche la simbologia floreale assumeva una doppia valenza: da un lato, essa rappresentava la vita stroncata dal fuoco nemico, dall’altro sembrava essere usata come simbolo di rinascita della nazione e delle nuove generazioni.
Nel primo caso, i combattenti del battaglione universitario toscano erano raffigurati come germogli primaverili falcidiati dal fuoco nemico, oppure come fiori dai petali rossi. L’utilizzo della simbologia delle “rose purpuree” rimanda chiaramente al colore del sangue che era più volte menzionato negli articoli celebrativi e nelle poesie (12).
Aderendo alla glorificazione di cui coi siete promotori, i Corda Fratres nel 29 maggio colgono dalle zolle di Curtatone e Montanara i fiori vividi e belli, germogliati dalla terra che il sangue dei fratelli fecondava, e con l’argenteo ulivo nel intessono serti di gloria per tutti i martiri, per tutti gli eroi, nella fede che quelle vite, trasformatesi come tutte le cose e rinnovantisi nei secoli saranno bastevoli a compiere il più altro degli antichi prodigi (Favara 1908, 40).
Un simile sentimento si ritrova anche nell’articolo di Gian Battista Prunaj, intitolato Primavera Purpurea (29 maggio 1848). Ancora una volta, nel ricordare il sacrificio degli studenti toscani, si ricorreva alla metafora della primavera all’uso del colore rosso, il quale acquistava il duplice significato della morte e della rinascita:
L’esemplarità dei giovani caduti a Curtatone e Montanara, oltre ad essere motivata dalla loro giovinezza, cultura e dall’alto senso della patria, era collegata dai fiorentini anche ad un’altra caratteristica: la toscanità. Il 29 maggio, infatti, era visto come una data profondamente legata alla storia regionale. Il Prunaj, ad esempio, nell’articolo citato sopra, continuava la sua commemorazione ricordando proprio il carattere toscano della battaglia:
Non v’è nella serie delle battaglie combattute per l’indipendenza della cara patria nostra niuno scontro, niuna campagna niuna giornata, che sia così intimamente e profondamente toscana, come la giornata di Curtatone e Montanara, come quell’estroso ed eroico 29 maggio 1848, inghirlandato dalle rose vermiglie di tanto e si gentil sangue speso, con lieto animo, per il fascino di un idea. Alle quali vermiglie rose, sacre ai non manchevoli auspici dei destini ben deve rispondere nel rito odierno della riconoscenza e della celebrazione il Rosso Giglio, onde Firenze nostra fiorisce (Prunaj 1909).
Il tema della toscanità fu espresso in vari modi nel corso degli anni. Se “Il Fieramosca” nel 1908 si limitava a evidenziare come “la Toscana nostra rispose all’appello con uno slancio che ha pochi riscontri nella storia” (14), Eugenio Coselschi, in un discorso pronunciato alla Pro-Cultura, dopo aver ricordato come “nella stagione dell’amore e dei fiori, in questo Maggio sereno e giocondo è opera di poesia e di giustizia celebrare la resurrezione della patria, la primavera della patria” sottolineava che “è altrettanto giusto ricordare la nostra Firenze”. La città, infatti, per Coselschi meritava la gloria eterna da parte dei cittadini, una “gloria eterna e indistruttibile, poiché quale capitale di questa nostra Toscana essa dette vita e ardimento ai guerrieri di Curtatone e Montanara, a quei giovani generosi, a quei fanciulli indomabili, agli eroi immortali che al termine di questo mese in cui sembra più bella e più serena la vita, caddero sacrificando il bene più desiato e il più caro e offrirono il petto gagliardo al piombo degli oppressori” (15).
L’importanza del carattere toscano della giornata del 29 maggio trovò probabilmente la sua massima espressione nelle celebrazioni ad essa dedicate. Nonostante si trattasse di una giornata commemorativa legata ad ricordo dell’anno rivoluzionario per eccellenza – il 1848 – e quindi potenzialmente sovversiva, la classe dirigente fiorentina capì fin da subito che “rinunciare alla memoria di Curtatone e Montanara era assolutamente impossibile, visto che quella journée costituiva il simbolo vivente del ‘tributo di sangue’ pagato dai toscani all’indipendenza nazionale, e si presentava quindi come la carta da visita più convincente per quel ruolo di primo piano nella definizione e nella guida del [futuro] Stato nazionale che si pretendeva fosse loro riconosciuto”. Il 29 maggio divenne immediatamente un simbolo dell’orgoglio toscano, tanto da venire commemorato anche negli anni dell’occupazione austriaca.
Con il passare degli anni, la commemorazione dei morti di Curtatone e Montanara restò sempre un momento importante per l’orgoglio della Regione. In particolare, dopo l’unificazione del Regno e con la perdita dello status di capitale, il ricordo della giornata patriottica assunse anche una funzione anti piemontese. Con il 1861, infatti, la festa dello Statuto era divenuta ufficialmente la giornata commemorativa dell’Unità d’Italia, schiacciando di fatto le varie commemorazioni locali, tra cui quella fiorentina. La vicinanza tra le due date, infine, alimentava ulteriormente lo scontro tra la visione nazionale e quella locale sulla gestione della memoria risorgimentale.
Come ha scritto Claudia Burzagli, infatti:
Le celebrazioni in età giolittiana
Con l’avvento del nuovo secolo e l’emergere di nuovi soggetti nella scena politica e sociale, le celebrazioni del 29 maggio furono al centro di un forte scontro di gestione della memoria. La giornata, infatti, già nel periodo austriaco, e poi formalmente dal 1859, si svolgeva secondo in rituale prefissato. Nel corso degli anni, la classe dirigente toscana, e in particolare il suo nucleo fiorentino, aveva cercato di istituzionalizzare il più possibile la cerimonia e, lentamente, ne aveva epurato le parti più spontanee, come l’omaggio del corteo alle abitazioni dei sopravvissuti e dei caduti. Ad inizio secolo, dopo un percorso volto ad evitare che il 29 maggio divenisse un’occasione per evidenziare letture del processo di unificazione nazionale diverse da quelle volute dalla classe dirigente, la cerimonia ruotava quasi esclusivamente attorno alla funzione religiosa in Santa Croce. Essa era stata costretta in un rigido cerimoniale che prevedeva una netta separazione e gerarchizzazione dei posti all’interno del tempio, e che vietava l’ingresso delle bandiere dei reggimenti nella chiesa (17).
Dal giugno 1907, infatti, Firenze era governata da una coalizione tra socialisti, demosociali e repubblicani che, in soli tre anni, dette un netto colpo all’impianto della tradizionale città conservatrice. Uno dei punti su cui l’amministrazione popolare insisté di più fu, insieme alla lotta per le “case popolari”, quello per la completa laicizzazione di Firenze. Le giunte Sangiorgi e Chiarugi operarono in più direzioni per portare a compimento tale proposito: tra l’estate e l’autunno 1907 dettero l’avvio ad un programma amministrativo che avrebbe portato all’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole (18); e alla laicizzazione degli ospedali. Soprattutto negli anni centrali del blocco, il 1908 e il 1909, la tensione tra l’amministrazione di sinistra e gli esponenti dell’opposizione conservatrice e liberale salì nettamente, coinvolgendo anche l’ambito della gestione della memoria. Se il 1908 fu il primo anno in cui le bandiere rosse entravano in Palazzo Vecchio, fu anche l’anno in cui per la prima volta venne cambiato il programma della commemorazione di Curtatone e Montanara.
Proprio per il 60° anniversario della battaglia, lo scontro si giocò tutto sulla contrapposizione tra laicità e religiosità della commemorazione.
Il primo passo in questo senso fu compiuto dall’amministrazione comunale che, per rispetto all’impronta laica che aveva dato al governo della città, trovò un escamotage per evitare di finanziare con i soldi del Comune una manifestazione di ordine prettamente religioso. Così, la giunta Sangiorgi, il 18 maggio, emetteva la seguente delibera:
Che il 29 maggio corr. sia effettuata nel Salone dei Cinquecento una solenne commemorazione dei caduti per l’indipendenza nazionale.
Che siano deposte corone di fiori sulle lapidi che nel Tempio di Santa Croce ricordano i morti gloriosi per la libertà della patria.
Che la somma di lire mille inscritta in bilancio comunale all’articolo 101 sia rimessa al Benemerito Comitato Regionale Toscano dei Veterani del 1849-1870 lasciando ad esso la piena facoltà di erogazione si in onoranze ai defunti, sia in sussidi ai superstiti bisognosi (19).
La giunta, in questo modo, evitava di apparire tra gli organizzatori della funzione commemorativa religiosa, ma, al contempo, non impediva che la tradizionale messa di suffragio per i caduti in Santa Croce avesse luogo. Le polemiche sui giornali, soprattutto su quelli moderati e cattolici, divamparono già all’indomani della delibera.
La prima, ad indignarsi fu “La Nazione”. La testata moderata, già all’indomani del comunicato stampa con cui Palazzo Vecchio comunicava la decisione presa dalla giunta, pubblicava un articolo di fondo dove, con ovvio riferimento alla dominazione austriaca, appellava i consiglieri popolari con il nome di “Croati d’Italia”, ed esprimeva tutta la riprovazione per la decisione presa. Nel testo si legge:
Nella prima edizione del settimanale cattolico “Stella Cattolica” successiva alla delibera del 18 maggio, si trova un articolo di fondo scritto dal direttore dove è ricordato l’importanza della cerimonia e il suo “santo” significato. Egli prendendo come spunto i suoi ricordi di bambino ricorda “l’impressione infantile rimasta ancora nel cuore del cielo sereno, delle campane a festa, delle musiche militari, della folla multicolore invadente il tempio severo, […] dei bei soldati schierati davanti al tempo, delle campane allietanti ai martiri della patria, delle dolci fanfare che rallegravano lo spirito dei bambini vestiti a festa a Santa Croce e ricordavano come la chiesa prega e onora i morti della patria”. In contrapposizione con questi ricordi felici il direttore prosegue descrivendo il prossimo scenario “privo di senso” voluto dall’amministrazione comunale che, in offesa alla tradizione, ha optato per una funzione civile, dove, secondo l’autore, il patriottismo sarà solo un bieco pretesto per ribadire la linea anticlericale di Palazzo Vecchio. Egli infatti scrive:
Come si legge nell’articolo di “Stella Cattolica”, l’altro motivo per cui la giunta fu molto criticata fu quello di affiancare alla cerimonia religiosa quella civile. La doppia celebrazione comportò anche un problema di rappresentanza per il Comune. Credendo di trovare un correttivo nella commemorazione civile nel Salone dei Cinquecento e nell’invio di corone di fiori in Santa Croce, il sindaco non aveva preso in considerazione quanto questa scelta potesse rivelarsi “arma a doppio taglio”, perché, come sottolineava “La Nazione”:
L’atteggiamento del Comune fu ambiguo, perché proprio la persistenza della messa in suffragio dei caduti mise in seria difficoltà l’amministrazione Sangiorgi che si trovava così stretta tra il rispetto delle tradizioni e la coerenza con l’indirizzo laicista impresso al Comune. La situazione di impasse in cui erano caduta la giunta pare attestare proprio il complesso rapporto tra religiosità e laicità in materia di gestione delle politiche della memoria. Nelle carte conservate nell’archivio comunale, in particolare dai verbali delle sedute della giunta, si può leggere che, alla fine, il sindaco lasciò liberi i consiglieri di maggioranza e gli assessori di recarsi in forma privata alle celebrazioni, e stabilì che una rappresentanza della giunta, composta dagli assessori Lustig e Masini, dagli assessori supplenti Pieraccini, Banchi e Trinci, e dai segretari Paci, Lenzi e Romagnoli, avrebbe lasciato agli uscieri due corone di fiori da far appendere sulle targhe di bronzo all’interno del tempo. Il sindaco, inviando un telegramma ai veterani, si dichiarò indisposto e non presenziò né alla deposizione delle corone di fiori (24).
I giornali moderati e cattolici sottolinearono l’accaduto e “La Nazione” scrisse apertamente che la soluzione trovata dal sindaco rivelava quanto la maggioranza fosse spaccata proprio sul tema della laicità che aveva agitato tanto in campagna elettorale. Il giornale moderato, infatti, parlò di un “gesuitismo alla Ponzio Pilato”, di una soluzione che “salvava capra e cavoli” e che permetteva a Sangiorgi “di salvare la sua popolarità e di dare una soddisfazione all’amico anticlericale e massonico prof. Banti” (25).
Sull’ambiguità della giunta intervenne anche il settimanale cattolico “Il Popolo”, che era nato a Firenze solo pochi mesi prima e che faceva della sua appartenenza religiosa il proprio punto di riferimento. Il giornale, a differenza della “elitaria” “Civiltà Cattolica”, nasceva come un settimanale rivolto alle classi popolari, al fine di “di dimostrare con i fatti alla mano la speciosità apparente di certe teorie lusingatrici che con l’orpello esterno cercano di nascondere il marcio interiore; di toccar con mano la mendacità di certe promesse fatte da uomini ambiziose che della schiena dell’operaio si servono di sgabello per salire in alto; di mettere a nudo l’ipocrisia di certe dottrine e di certi programmi che la buona fede proletaria sfruttano e a individuale vantaggio”. Proprio per rispettare questo suo proposito di parlare al popolo, il settimanale fiorentino utilizzava un linguaggio semplice, ricorrendo spesso a scenette divertenti e alla trascrizione di improbabili conversazioni sentite per la strada che, il più delle volte, avevano come protagonista un socialista e un cattolico. Anche nel caso delle celebrazioni del 29 maggio, “Il Popolo” fece largo ricorso alla pungente ironia fiorentina per denunciare l’atteggiamento ambiguo. Già dall’inizio, la polemica politica era affidata a lettere immaginarie che la statua del Nettuno, posta di fronte a Palazzo Vecchio, inviava al sindaco per denunciare i comportamenti che vedeva dall’alto del suo piedistallo e che non condivideva. Il Biancone – nomignolo che i fiorentini avevano dato alla statua a causa della sua imponente mole di marmo bianco – anche per le celebrazioni di Curtatone e Montanara scrisse a Sangiorgi, questa volta per riportargli una lettera scritta da un altro guardiano di una piazza fiorentina: la statua di Dante in Santa Maria Novella. Il giornalista de “Il Popolo”, fingendo di parlare a nome della statua annotava cosa aveva visto quella mattina presto:
Mio desiderio sarebbe che nel palazzo degli antichi priori, il quale sulla porta maggiore, ha scolpito il nome di Cristo Dio, proclamato un di da’ miei concittadini re di Fiorenza, fossero quete mia parole di seria meditazione.
Da Santa Croce, il 29 maggio del 1908
Dante Alighieri
MASSONI di coraggio
Hanno alzato la voce
In odio a Santa Croce
Tanto perché era Maggio!
Suo aff.mo Nettuno
detto i’ Biancone (27).
La compresenza della doppia celebrazione, invece, fu ritenuta dai quotidiani vicini a Palazzo Vecchio come un’opportunità per celebrare al meglio i martiri per l’indipendenza, restituendo loro anche quella dimensione di patriottismo civile che era stata limitata dalla commemorazione religiosa. “Il Fieramosca”, ad esempio, all’indomani della celebrazione nel salone dei Cinquecento scriveva:
Il Comune, nei suoi anni di amministrazione popolare, puntò molto sulla valorizzazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio. Essa, nelle intenzioni degli organizzatori, era volta a ricostruire una memoria civile intorno ad una data fondativa della identità nazionale e, soprattutto, toscana. Le manifestazioni organizzate per gli anni 1908, 1909, 1910, furono cerimonie essenziali: il sindaco, con alcuni assessori e consiglieri, si recava a pranzo presso la Pia Casa del Lavoro e, poi, nel primo pomeriggio, officiava la distribuzione dei diplomi di merito alle alunne e agli alunni delle scuole comunali, e ai fiorentini distintisi nel corso dell’anno per atti di valor civile. Seppur apparentemente semplici nel loro svolgimento, le celebrazioni rimandavano ad una serie di significati ben precisi.
Il primo di questi era rappresentato dalla volontà di istituire un legame simbolico tra i giovani allievi delle scuole comunali e i reduci e i mutilati delle guerre patrie. Leggendo le minute dei discorsi conservate nell’archivio comunale e le descrizioni delle manifestazioni nelle cronache dei giornali, si nota come il legame tra le due generazione fosse costantemente rievocato. Così, nel 1908, sappiamo che i bambini delle elementari consegnarono al sindaco e ai veterani intervenuti dei mazzi di garofani rossi, fiore simbolo della nuova amministrazione, e che, l’anno successivo, i bambini allietarono la cerimonia con i cori dell’Inno di Garibaldi e dell’Italia risorta ((Cfr. La cerimonia nel Salone dei Cinquecento, in “La Nazione”, 30 maggio 1908, e La cerimonia d’oggi in Palazzo Vecchio, in “La Nazione”, 30 maggio 1909.)). L’esempio che però meglio illustra questo collegamento tra le due generazioni è dato dal discorso del sindaco Giulio Chiarugi in occasione della cerimonia del 1910. Egli, infatti, di fronte ad un salone dei Cinquecento gremito di bambini e di reduci, ricordava agli allievi delle scuole elementari:
L’insistenza sul legame tra i vecchi patrioti e i giovani, se da un lato pare strumentale alla funzione di propaganda per l’operato dell’amministrazione popolare in materia di scuole pubbliche (31), sembrerebbe anche voler veicolare un altro messaggio: quello dell’importanza del civismo. L’idea del coraggio e dello slancio volontaristico sembra essere accentuata dal nesso che si veniva a creare tra i premiati per il valor civile e i reduci presenti in sala.
Con la creazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio, pare che l’amministrazione popolare tentasse una trasposizione a livello istituzionale di quei valori del Risorgimento democratico che fino ad allora erano stati schiacciati dalla funzione religiosa che aveva come motivo prevalente quello del cordoglio dei caduti. Temi come il civismo, il volontarismo, lo spontaneismo, la libertà di partecipazione, che erano stati limati ed emarginati dalla classe dirigente liberale negli ultimi decenni dell’800, erano ora ripresi e amplificati dalla pubblicistica e dalle scelte dei partiti popolari. La scissione del modello dell’eroe, sottolineata, tra gli altri, da Maurizio Ridolfi e da Lucy Riall, per l’Italia degli anni immediatamente post unitari, parve riproporsi, e riprendere slancio, negli anni dell’età giolittiana. Questa rinegoziazione, compiuta in anni densi di celebrazioni risorgimentali, sembrò essere un indice della complessità e dell’incompletezza del processo di creazione di una memoria pubblica unitaria e condivisa attorno alla mitologia della liberazione della patria. Inoltre, in un periodo in cui i partiti popolari erano al potere in alcune delle città più importanti d’Italia, questo processo di ripensamento e di contrasto attorno alla figura dell’eroe assunse forme insolite e nuovi canali di espressione, portando a nuove declinazioni della frattura tra la visione democratica e quella monarchica-liberale.
Fonti: storiaefuturo.eu. Annarita Gori, Le “Termopili toscane”. La memoria di Curtatone e Montanara in età giolittiana, in “Storia e Futuro”, n. 30, novembre 2012.
2. “Una memoria collettiva – sia nazionale che di partito, o di chiesa, comunque di un grande gruppo sociale – nasce da eventi che hanno la forza di coinvolgere e rendersi memorabili; ma poi anche dalla capacità di dare forma organizzata e quindi durata temporale ai contenuti di una memoria che va aureolandosi di mito e intrecciando alla realtà documentabile le libertà della favola” (Isnenghi 2010, 12).
3. Per una trattazione più ampia del concetto di “figura profonda” cfr. Banti 2011, VII.; 2000, 3-56; 2005.
4. Il colonnello Cesare de Laugier, ricordando lo spirito religioso della battaglia, ordinò “ad ogni milite toscano, di qualunque corpo, di apporre dal lato sinistro del petto e segnatamente sul cuore, una croce dei colori nazionali, a distintivo della Santa Crociata, benedetta dal Sommo Pio IX, destinata alla difesa della Patria comune” (Nerucci 47, citato in. Burzagli 2005, 270).
5. Curtatone e Montanara, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908.
6. A contribuire al successo dell’identificazione tra la battaglia di Curtatone e Montanara e lo scontro del Passo delle Termopili sono stati gli stessi volontari. Nelle memorie del colonnello De Laugier si legge come egli nelle fasi iniziali della battaglia gridi ai soldati “Toscani!Son queste le vostre Termopili: o vincere o morire!” (De Laugier 1854, 28). Una citazione simile la si trova anche altre memorie e articoli di giornale a testimonianza della forza che ebbe il mito classico sulla ricostruzione degli avvenimenti storici. Cfr. Gavelli, Sangiorgi 2004.
7. I curatori del numero erano: Augusto Hermet, Giancarlo Batachi, Luigi Baccarini, Ugo Ottolenghi, Giovanni Ravagli, Enrico Poggi, Ferruccio Silvestri, Piperno e Vagaggini. Sulla composizione dell’opuscolo cfr. L’iniziativa degli studenti, in “La Nazione”, 29 maggio 1908.
8. Rondoni 1908, 7. Poco più oltre, nell’articolo di Jack La Bolina, per spiegare la gloriosità della battaglia di Curtatone e Montanara è ripreso un altro mito greco, quello della Gloria e della Vittoria: “Gli antichi scultori greci che raffigurarono alata la vittoria si apposero al vero. La dea spietata non si posa a vicenda ora in un campo ora in quello avversario? Non si libra incerta talora tra i due contendenti? Quando, alfine, muove i vanni vermigli verso la parte cui ha decretato la palma, manda alla contrada una minor sorella: la Gloria. Questa visitò la sera del 29 maggio i campi contrastati di Curtatone e Montanara e si assise compassionevole tra le salme dei difensori di quelle due umili borgate che per valore di toscani e di napoletani sono entrate nella storia” (La Bolina 1908, 14.).
9. Isastia 2008, 172. Sul punto cfr. tra gli altri Isastia 1990; Asor Rosa 2002. Per un approccio comparato cfr. Pécout 2008, 188-196.
10. La commemorazione appare interessante perché fu tenuta una prima volta ai soci fondatori e alle autorità intervenute e, pochi giorni dopo, fu riproposta ai soli operai, come a voler sottolineare loro lo stretto rapporto tra cultura e patriottismo, inserendosi in quel filone di manifestazioni di stampo pedagogico-paternalistico fortemente volute dalla classe dirigente moderata durante le celebrazioni del giubileo della Patria.
11. In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi alla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911.
12. “Quando fioriscono le rose la pia e gentile consuetudine fiorentina e toscana commemora i caduti di Curtatone e Montanara, rose purpuree di sangue dell’italico giardino” (Rondoni 1908, 5).
13. Il rapporto tra l’associazione studentesca Corda Fratres e la celebrazione delle battaglie risorgimentali del 1848 è molto stretto. L’associazione, infatti, fu fondata nel 1898, anno delle celebrazioni cinquantenarie di tali eventi patriottici, inoltre per dare avvio alla Corda Fratres, Efisio Giglio Tosi chiamò a raccolta i pochi sopravvissuti tra gli studenti universitari che nel 1848 avevano preso parte alle “patrie battaglie”. Sulla Corda Fratres cfr. tra gli altri Mola 1999.
14. Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908.
15. In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi allla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911.
16. ACF, CF 5020, Festa dello Statuto.
17. “Il Fieramosca” pubblica questa lettera il 28 maggio 1908: “All’On. Pres. Del Com. Reg. Toscano dei Veterani 1848-1870. Ringrazio sentitamente per l’invito fattomi da SV per intervenire alla Messa in Santa Croce e la prego di partecipare ai nostri veterani le considerazioni seguenti. È molto lodevole il proposito di commemorare con canonizzazioni solenni i caduti di Curtatone e Montanara, e a me sembra che sia giusto di commemorare degnamente gli eroi di quella giornata mediante una messa in suffragio per le anime dei morti nelle guerre di indipendenza. E il luogo della commemorazione, sia pure il Pantheon d’Italia non è adatto ai veterani italiani in quanto essi vi sono obbligati a lasciare fuori dalla porta la bandiera d’Italia in ossequio alle prescrizioni dell’autorità ecclesiastica; la quale dal 1849 al 1859 non fece impedimento alla bandiera d’Austria che portata dai soldati entrava in Santa Croce, e io lo vidi. Né le milizie austriache si ritenevano autorizzate a chiedere permesso alcuno. Perciò da molti anni io non vengo a tali onoranze. Con ossequio il veterano Tenente Generale Giovanni Cecconi”. La lettera di un veterano, in “Il Fieramosca”, 28 maggio 1908.
18. ACF, CF 4872, Affari Generali, f.18, Abolizione insegnamento Religioso nelle scuole.
19. Per il XXIX maggio. La deliberazione del consiglio comunale, “La Nazione” 19 maggio 1908.
20. Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908.
21. Carducci e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 29 maggio 1908.
22. Curtatone e Montanara!, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908.
23. Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908.
24. Cfr. Pel XXIX maggio, in “L’Unità Cattolica”, 30 maggio 1908.
25. XXIX maggio. Il gesuitismo di Ponzio Pilato,in “La Nazione”, 26 maggio 1908.
26. La cerimonia di ieri mattina in Santa Croce, in “La Nazione”, 30 maggio 1908.
27. Lettere del Biancone, in “Il Popolo”, 7 giugno 1908. L’articolo de “Il Fieramosca” a cui si riferisce “Il Popolo”, è la già citata La lettera di un veterano, riportata il 28 maggio 1908. Il giornale vicino all’amministrazione popolare commentava la successiva decisione delle autorità ecclesiastiche di far entrare la bandiera dei veterani solo dopo Sessant’anni dalla battaglia come un riconoscimento tardivo e sottolineava come, tra il 1849 e il 1855, le bandiere austriache erano sempre state beneaccette nel tempio (cfr. anche La commemorazione del XXIX maggio in Santa Croce, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908).
28. Commenti analoghi si leggono anche nel 1909 e nel 1910, gli altri due anni in cui la giunta popolare deciderà di sdoppiare le commemorazioni in laiche e civili. Cfr. “Il Fieramosca” 29-30 maggio 1909, “La Nazione”, 30 maggio 1909 “La Nazione”, 29 maggio 1910.
29. Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908.
30. La solenne cerimonia di Palazzo Vecchio, in “L’Opinione democratica”, 30 maggio 1910.
31. Il giornale moderato “La Nazione” si fece portatrice di una polemica circa la strumentalizzazione dei giovani da parte del Comune. Il 30 maggio 1910, si può leggere in un commento alle celebrazioni per i martiri di Curtatone e Montanara: “Ho potuto vedere nella Chiesa parecchia gioventù – più di quanta io ne prevedessi – e questo mi ha confortato l’animo. Se nelle scuole comunali, per ordine superiore, s’insegna soltanto a leggere, a scrivere, a bestemmiare Iddio e a cantare l’Inno dei lavoratori, nelle scuole governative si mantengono vivi i sentimenti patriottici, l’affetto, la venerazione per i non indegni padri che ci hanno preparato il benessere civile e morale e ce lo hanno lasciato in sacro retaggio con l’obbligo di mantenerlo e difenderlo da qualsiasi spregio, da qualsiasi attentato esterno e interno. E questo dovere sente la vera gioventù che studia, che pensa, che non si lascia traviare dal dottrinismo sovversivo, e che ama addestrarsi alle armi, raggruppandosi in battaglioni, ai comandi dei benemeriti ufficiali dell’esercito nazionale”. (La solenne cerimonia del XXIX maggio nel tempio di Santa Croce, in “La Nazione”, 29 maggio 1910).
Villani Giovanni e Matteo
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Guerrazzi, Francesco Domenico
Scrittore e uomo politico (Livorno 1804 - Cecina, Livorno, 1873). Si laureò in giurisprudenza a Pisa nel 1824, ma appena un anno più tardi esordì nella carriera letteraria con le Stanze alla memoria di Lord Byron(1825), un’esaltazione del poeta inglese conosciuto a Pisa poco tempo prima, la cui influenza sulla sua produzione fu sempre molto forte. Nel 1827 uscirono, sempre a Livorno, i quattro volumi di una delle sue opere maggiori, La battaglia di Benevento, un romanzo storico in cui già si rivelavano le qualità che restarono pressoché costanti nello scrittore: un vivacissimo e sfrenato patriottismo; la ricercatezza linguistica; uno stile convulso, baroccheggiante, pur con venature classicistiche; una predilezione per le tinte cupe e macabre che lo avvicinarono al romanzo nero inglese. Acceso democratico, fondò nel 1829 il giornale «Indicatore livornese» e si impegnò nei moti risorgimentali, subendo a più riprese arresti e condanne: durante i mesi di prigionia a Portoferraio scrisse le Note autobiografiche(pubblicate postume, 1899) e portò quasi a termine l’Assedio di Firenze, uno dei suoi romanzi storici di maggiore successo. A questo periodo della sua vita risale anche La serpicina, una riuscita satira della giustizia umana e della vita forense che fu pubblicata tra gli Scritti(1847). Nel 1848-49 fu tra i protagonisti della rivoluzione in Toscana: nel febbraio 1849, fuggito Leopoldo II, costituì un governo provvisorio con Giuseppe Montanelli e Giuseppe Mazzoni e il mese successivo fu eletto capo del potere esecutivo, esercitando di fatto una dittatura personale. Al ritorno del granduca fu processato e condannato a 15 anni di prigionia e, durante la sua detenzione nel carcere delle Murate a Firenze, scrisse Apologia della vita politica di F.D.G. scritta da lui medesimo(1851), una lunga autodifesa fortemente polemica verso i moderati e il sistema giudiziario toscano. La pena gli fu successivamente commutata nell’esilio in Corsica, da dove fuggì nel 1859 per raggiungere Genova. Qui soggiornò fino al 1862. Fu eletto nel 1860 deputato nel primo Parlamento nazionale, dove sedette per circa dieci anni, sempre schierato tra i banchi dell’opposizione contro le forze moderate. Nell’ultimo periodo della sua vita, mentre si distaccava dal dibattito politico, Guerrazzi mantenne intensa la sua produzione letteraria con il romanzo Il buco nel muro(1862), la sua opera artisticamente più notevole, L’assedio di Roma(1863-65) e Il secolo che muore(pubblicato postumo per intero nel 1885), continuazione poco riuscita del romanzo del 1862. Tra i suoi romanzi storici, per i quali divenne popolare tra i contemporanei, si ricordano anche Veronica Cyboe Isabella Orsini, entrambi compresi nella citata raccolta degli Scritti, Beatrice Cenci(1853) e Pasquale Paoli(1860), dedicato a Garibaldi.
Fonte: Treccani
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Guerra italo-turca per la Libia
La guerra italo-turca, iniziata con la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Turchia (29 settembre 1911), si concluse con la pace di Losanna sottoscritta il 18 ottobre 1912.
Cause della guerra. - Superata la crisi morale provocata dall'insuccesso dell'impresa di Abissinia, l'Italia, ammaestrata dalla dura esperienza dei passati errori, aveva iniziato una politica oculata per tutelare i suoi interessi nel Mediterraneo, il cui equilibrio politico era continuamente minacciato dall'incombente sfacelo dell'Impero Ottomano. Così essa partecipò con le altre potenze interessate all'occupazione di Creta e pose gli occhi sulla Libia e sul Marocco, i soli territorî rimasti esenti da influenze dirette europee nell'Africa Mediterranea. La Libia, principalmente, per la sua situazione geografica, era indispensabile all'Italia per la sua stessa sicurezza e per il suo avvenire di potenza mediterranea.
Tra il 1902 e il 1905 ebbero luogo fra Italia, Francia e Inghilterra accordi per la sistemazione delle rispettive aspirazioni coloniali e furono stabiliti i limiti delle zone d'influenza di ciascuna: la Francia ottenne libertà d'azione al Marocco e promise il suo disinteressamento qualora l'Italia avesse dovuto sostituire la Turchia in Libia. Germania e Austria non si opposero da principio alle aspirazioni della loro alleata Italia, ma, ritardando questa l'attuazione dei suoi disegni, fra il 1909 e il 1911 la Germania aveva pensato d'insediarvisi essa stessa o comunque esercitarvi la propria influenza diretta per mezzo dell'amica Turchia; ciò in relazione al progetto di una ferrovia transahariana che doveva collegare il Mediterraneo col futuro impero centro-africano che la Germania si riprometteva di formare collegando i suoi possedimenti del Camerun, dell'Africa Sud-occidentale e dell'Africa Orientale attraverso i territori coloniali della Francia, dell'Inghilterra, del Belgio e del Portogallo.
Il ritardo frapposto nell'attuazione del progetto era dipeso dal fatto che, sul principio, l'opinione pubblica italiana, per i dolorosi ricordi della campagna del 1895-96, rifuggiva da ogni politica di espansione. Ma poi, con l'aumentare del benessere e della tranquillità del paese, col formarsi in Italia di una coscienza coloniale, la questione libica cominciò ad appassionare l'opinione pubblica, specie quando, col risorgere della questione marocchina e con la definizione di questa, ancora una volta modificante a nostro svantaggio l'equilibrio mediterraneo, la parte illuminata della nazione (auspice l'Associazione nazionalista) comprese come non potesse rimanere allo stato di semplice aspirazione il diritto dell'Italia di avere assicurata in Libia una sfera d'influenza politica adeguata ai suoi interessi. Il pericolo, poi, vero o supposto, di un'occupazione tedesca della Libia, non fece che affrettare la decisione. La Turchia, già da tempo messa in sospetto dall'interessamento dell'Italia per la Libia, si era data a perseguitare i sudditi e le iniziative italiane nei suoi territori, offrendo più volte l'occasione di un intervento. Un ultimo incidente, nel settembre 1911, diede luogo alla dichiarazione di guerra (29 settembre). L'azione dell'Italia provocò il malumore di molte potenze rimaste deluse nelle loro speranze, malumore di cui si fece eco la stampa internazionale, senza riuscire peraltro a impedire all'Italia l'attuazione dell'impresa.
Fonte: treccani.it
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Terremoto di Messina del 1908
“Il 28 dicembre 1908, il terremoto di Messina (M. 7.1) ha provocato più di 80.000 morti. Il terremoto di Messina del 1908 è il più distruttivo del XX e XXI secolo in Europa, ma la geometria e la cinematica della faglia che si è rotta sono ancora motivo di dibattito. È stato uno dei primi terremoti in Europa nel periodo strumentale, trasformando lo studio della sismologia, avviando l’interesse nei fattori ambientali dei terremoti in tutto il mondo, che ora sappiamo essere fondamentali per comprendere la geometria e la cinematica di una fonte sismica”, scrivono gli autori di un nuovo studio, tra cui A. M. Michetti (Università degli Studi dell’Insubria, Como) sul devastante sisma che ha colpito Messina e Reggio Calabria nel lontano 1908.
“L’epicentro è stato localizzato nel Graben dello Stretto di Messina, d’accordo con gli effetti ambientali mappati”, scrivono gli autori dello studio, pubblicato su Nature, il cui obiettivo è stato quello di confinare la posizione, l’immersione e lo slittamento della faglia che si è rotta nel 1908, utilizzando le misure di livellazione dal 1907 al 1909. “È noto che le faglie capaci ben mappate intorno allo Stretto di Messina, localizzate sia sulla terraferma che al largo, coincidano con le compensazioni della stratigrafia del terreno. Queste compensazioni si saranno sviluppate a causa della ripetuta fagliazione che bilancia la superficie nel corso del tempo, quindi il fatto che non siano state modellizzate in dettaglio è una chiara omissione nello studio di questo grande terremoto”, sostengono gli autori.
“Diversi modelli precedenti hanno tentato di risolvere il dibattito di lunga data su quale sorgente sismogenetica potesse aver prodotto il terremoto di Messina del 1908. Noi dimostriamo per la prima volta che la qui chiamata Faglia Messina-Taormina è probabilmente la sorgente per il terremoto più distruttivo registrato in Europa nel XX e XXI secolo. Il riesame dei dati di livellazione dal 1907 al 1909 svela lo slittamento sulla faglia capace con un’immersione ad est di 70° e una profondità dip-slip di 5 metri, con lo slittamento che si è propagato alla superficie del fondale marino, con la rottura superficiale localizzata al largo sulla Faglia Messina-Taormina”, scrivono gli autori.
Per quanto riguarda un’altra questione molto dibattuta su questo grande terremoto, ossia il devastante tsunami generato, gli autori dello studio riportando che “non vi è accordo sulla causa dello tsunami; alcuni autori propongono un’importante frana sottomarina come causa del maremoto, mentre altri la escludono. Un’ipotesi alternativa suggerisce una causa composita, con uno spostamento cosismico del fondale marino insieme ad una notevole frana sottomarina all’interno dello Stretto di Messina”.
Il terremoto e il conseguente tsunami del 1908 hanno danneggiato gravemente le città di Messina e Reggio Calabria, provocando un tragico bilancio umano. Il boato del sisma fece tremare lo Stretto di Messina alle 05:20 del 28 dicembre e onde di altezza comprese tra 6 e 13 metri spazzarono via le coste siciliane e calabresi che si affacciavano sullo Stretto, compresi tutti gli abitanti che su quelle coste si erano rifugiati per tentare di sfuggire ai crolli. Metà della popolazione di Messina e un terzo di quella di Reggio Calabria persero la vita in quella che è considerata la più grave catastrofe naturale in Europa per numero di vittime e il più grande disastro naturale a colpire l’Italia in tempi storici.
Fonte: strettoweb
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Il colera a Pisa
Nell'Ottocento, l'Italia fu devastata da un'esplosione di colera, una malattia che trovò terreno fertile nelle cattive condizioni igienico-sanitarie del tempo. Un'indagine parlamentare svolta tra il 1885 e il 1886 rivelò uno scenario allarmante, caratterizzato da mancanza di fognature, carenza di latrine e smaltimento inadeguato dei rifiuti. Questo contesto, combinato con la mancanza di acqua potabile e la generale sfiducia nella medicina ufficiale, contribuì a rendere l'epidemia di colera particolarmente letale.
Condizioni Igienico-Sanitarie Precarie:
L'indagine parlamentare evidenziò che la maggior parte dei comuni nel Regno d'Italia era priva di sistemi fognari, mentre meno della metà possedeva latrine. In alcune aree, gli escrementi venivano addirittura depositati negli spazi pubblici, amplificando il rischio di diffusione delle malattie. La carenza di acqua potabile aggravava ulteriormente la situazione, creando un ambiente ideale per la proliferazione del colera.
Problemi nello Smaltimento dei Rifiuti:
Lo smaltimento dei rifiuti rappresentava un grave problema, specialmente nelle periferie e nei paesi sprovvisti di servizi di nettezza urbana. La mancanza di un sistema efficiente portava all'accumulo di rifiuti per strada, aumentando il rischio di contaminazione e facilitando la diffusione del colera.
Arretratezza delle Conoscenze Mediche e Sfiducia nella Medicina Ufficiale:
Nell'Ottocento, le conoscenze mediche erano ancora limitate, e la popolazione aveva scarsa fiducia nella medicina ufficiale. Questa sfiducia complicò gli sforzi per contenere l'epidemia, poiché molte persone preferivano rimanere fedeli a rimedi tradizionali o addirittura evitare il coinvolgimento delle autorità sanitarie.
Misure Adottate e Fallimenti:
Per cercare di arginare l'epidemia, furono implementate misure come i cordoni sanitari marittimi e i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da zone infette. Tuttavia, tali provvedimenti si rivelarono inefficaci nel fermare la diffusione del colera, soprattutto nelle città più colpite come Napoli, dove l'epidemia si manifestò con particolare ferocia.
Conclusioni:
L'esplosione del colera nell'Italia dell'Ottocento rappresentò un drammatico risultato delle condizioni igienico-sanitarie precarie, dell'arretratezza delle conoscenze mediche e della sfiducia nella medicina ufficiale. Questo capitolo oscuro della storia italiana sottolinea l'importanza dell'igiene pubblica e delle politiche sanitarie nella prevenzione delle epidemie, fornendo lezioni preziose per il futuro.
Fonte: ambimed-group
Il colera a Pisa da il Corriere dell Arno 12 ottobre 1884
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Fratellanza militare
La Fratellanza Militare dei Combattenti: Un Legame Solido Tra Veterani e Soccorso Pubblico
Nel lontano 1872, prendeva vita in Italia un'associazione destinata a scrivere un capitolo significativo nella storia del supporto ai veterani militari. La Fratellanza Militare, o "Fratellanza Militare dei Combattenti", nacque con l'intento nobile di riunire coloro che avevano indossato l'uniforme e di promuovere il loro benessere, alimentando nel contempo il spirito di solidarietà tra i compagni d'armi.
Le origini della Fratellanza Militare erano intrise di un profondo senso di mutuo soccorso, poiché i veterani condividevano il peso delle esperienze belliche e cercavano un rifugio comune nella fratellanza che solo chi ha condiviso le stesse sfide può comprendere appieno. Tuttavia, fu solo nel 1878 che l'organizzazione ampliò la sua missione, dando vita alla "Compagnia Volontaria di Pubblica Assistenza".
Questa audace iniziativa, interna alla Fratellanza Militare, vide la luce con l'obiettivo di estendere una mano solidale non solo ai veterani, ma anche agli emarginati e agli infortunati della società. La "Compagnia Volontaria di Pubblica Assistenza" divenne il baluardo dell'umanità organizzata militarmente, impegnandosi nella missione nobile di portare aiuto concreto a coloro che si trovavano in situazioni di disagio.
I Militi Volontari, con il loro impegno, non solo offrivano assistenza agli ammalati, ma si dedicavano anche al soccorso in situazioni di emergenza. Le esercitazioni periodiche, precursori di ciò che oggi chiameremmo Protezione Civile, evidenziavano la preparazione di questa compagnia a rispondere con prontezza a qualsiasi evenienza, confermando il loro ruolo imprescindibile nella tutela della comunità.
Da allora, la Fratellanza Militare ha tessuto una trama di solidarietà e servizio, offrendo sostegno ai veterani delle forze armate italiane, specialmente nei delicati periodi che seguirono la guerra d'indipendenza e l'unificazione del Paese. Oggi, la loro eredità continua a vivere attraverso un impegno costante a promuovere il bene comune e a mantenere vivo il legame tra chi ha servito la patria.
Roberto Marchetti
Fonte: fratellanzamilitare.com
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Baroni Giosafatte
Giosafatte Baroni: Una Vita Di Passione e Impegno Politico
Nato a Pisa il 21 ottobre 1827*, Giosafatte Baldassarre Marchionne Baroni è stato una figura di spicco nel panorama politico e patriottico dell'Italia del XIX secolo. La sua vita è stata segnata da una fervente partecipazione ai movimenti per l'indipendenza e la ricostruzione del Gran Ducato di Toscana.
Già in giovane età, Baroni si unì ai movimenti cospiratori contro il governo lorenese, venendo costretto ad emigrare in Corsica. Nel 1848, all'età di ventuno anni, si unì al Corpo di Spedizione Toscano, combattendo valorosamente a Curtatone e Montanara nelle file del Battaglione Civico pisano-senese inquadrato nel IV Reggimento dei Cacciatori degli Appennini.
Ferito e catturato dagli austriaci, fu imprigionato ma successivamente rilasciato, tornando a combattere l'anno successivo nella Battaglia di Novara.
La sua vita politica fu segnata da continue tensioni con le autorità, venendo ammonito più volte dalla polizia per le sue presunte connessioni con associazioni sovversive. Nel 1854 partecipò al fallito moto mazziniano a Pisa e nel 1859 si unì come cacciatore volontario al 1° Reggimento Cacciatori delle Alpi guidato da Garibaldi nella "Seconda guerra d'indipendenza".
Baroni, un fervente seguace dei principi mazziniani, ricoprì importanti incarichi, tra cui la presidenza dell'Associazione dei Reduci delle Patrie Battaglie e la fondazione della sezione pisana dell'AIL (Associazione Internazionale dei Lavoratori).
La sua partecipazione alla "Terza guerra di indipendenza" nel 1866 e alla sfortunata Battaglia di Mentana nel 1867 al fianco di Garibaldi ne fecero un eroe nazionale. Nel 1871, divenne membro del Consiglio direttivo della Società democratica internazionale, rappresentando la componente garibaldina.
Nel corso degli anni, Baroni continuò il suo impegno politico e sociale, assumendo la presidenza dell'Associazione di Mutuo Soccorso fra i volontari superstiti delle patrie battaglie nel 1872. Tuttavia, dopo il 1875, si allontanò gradualmente dal movimento internazionalista.
Nel 1884, a Pisa, fu fondatore e Comandante della Croce Rossa, una Compagnia di mutua assistenza.
Giosafatte Baroni si spense il 5 maggio 1899 a Pisa, lasciando dietro di sé una ricca eredità di impegno politico e sociale nella storia dell'Italia unita.
R. Romiti Bernardi, "Gli internazionalisti a Pisa dal 1864 al 1875", in "La Toscana nell'Italia unita. Aspetti e momenti di storia toscana 1861-1945", Firenze, Unione Regionale delle Provincie Toscane, 1962.
F. Bertolucci, "Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla nascita dell'Internazionale alla Camera del Lavoro", Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1988.
E. Capannelli e E. Insabato, "Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra '800 e '900. L'area pisana". Olschki, 2000
Scuole Tecniche
I magazzini della Croce Rossa erano ubicati presso l'Istituto Tecnico Antonio Pacinotti, situato nei locali di Palazzo Lanfranchi.
Questo istituto, dedicato alla memoria di Antonio Pacinotti, fungeva da sede ospitante per i depositi della Croce Rossa.
Il Palazzo Lanfranchi, a sua volta, costituiva l'ambiente fisico che accoglieva e forniva spazio per gli sforzi logistici e umanitari dell'organizzazione. In tale contesto, l'Istituto Tecnico svolgeva un ruolo cruciale nel supportare le attività della Croce Rossa, offrendo le strutture necessarie per gestire e distribuire le risorse destinate all'assistenza e al soccorso in situazioni di emergenza o necessità.
Roberto Marchetti
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Convento di San Giovannino
Era una storia pressoché dimenticata.
Il 24 febbraio 1919 il capo missione della CR ungherese in Svizzera, Ernst Ludwig, dopo che una richiesta del 12 gennaio precedente era rimasta inascoltata, inoltrava al Cicr. una lettera nella quale esprimeva tutta la sua preoccupazione per una serie di reclami che aveva ricevuto dalla CR di Budapest sulla situazione dei prigionieri ungheresi in Italia. Prima di tutto i rilievi riguardavano il ritardo del rimpatrio dei prigionieri invalidi che avveniva 3-4 mesi dopo gli esami medici. In Italia ermo stati organizzati due campi di concentramento per Invalidi, uno a Calci (Pisa) e l'altro a Como. A Calci i prigionieri vivevano in condizioni primitive senza il bagno e nelle baracche il riscaldamento era del tutto insufficiente. Gli invalidi erano costretti a trascorrere molto tempo all'aria aperta così che, sosteneva la denuncia, le loro gambe e mani gelate dovevano essere amputati.
La Certosa ha svolto un ruolo importante durante la prima guerra mondiale. Da gennaio a marzo 1915 fu caserma del 32 ° Reggimento Artiglieria dell'Esercito Italiano, prima di diventare ospedale per soldati italiani dall'ottobre 1915 a dicembre 1916. Tra gennaio 1917 e dicembre 1919 fu trasformato in ospedale di transito per austro-ungarici Prigionieri di guerra, sottoposti a visita e spesso mesi di osservazione per distinguere i feriti e gli ammalati in buona fede da quelli autoinflitti, in vista del loro scambio con le controparti italiane. Accanto a questa funzione, nel 1918 la Certosa accolse alcuni profughi italiani da quelle parti del Paese che erano state sotto l'occupazione nemica. Fu solo nel 1920 che fu finalmente riportato alla sua funzione originaria.
Furono necessari numerosi rimaneggiamenti per trasformare la Certosa in prima caserma, poi ospedale militare e successivamente ospedale sicuro per i prigionieri di guerra nemici. Quest'ultimo prevedeva la costruzione di una garitta all'ingresso e l'erezione di muri e sbarre per impedire la fuga dei detenuti e l'ingresso in alcune aree di importanza artistica o storica. Gli ufficiali austro-ungarici erano alloggiati in stanze in varie parti del complesso, ma i prigionieri di grado inferiore molto probabilmente occupavano e ricevevano cure mediche negli edifici dell'ex granaio, magazzini e stalle che si estendono per oltre 4.000 metri quadrati. I prigionieri affetti da malattie infettive, che originariamente occupavano un certo numero di stanze di isolamento all'interno del monastero, furono trasferiti nel 1918 in tende nel parco contro il muro di fondo del complesso, ben lontano dagli edifici principali, probabilmente in risposta alle pressioni locali.
Dopo l'Armistizio, l'afflusso del numero degli infermi divenne ingente tanto che "con il passare dei mesi gli arrivi dei prigionieri aumentarono al punto che nel febbraio 1919 ne risultano 1.000, molti dei quali sistemati alla meglio per terra sulla paglia".
La Certosa di San Giovanni Evangelista in Calci, comunemente nota come Certosa di Pisa o Certosa di Calci, è un complesso monastico, situato alle pendici del Monte Pisano, nel comune di Calci (Pisa), che ospitò un monastero certosino, attualmente sede del Museo Nazionale della Certosa Monumentale di Calci e del Museo di Storia Naturale dell'Università di Pisa (ala occidentale).
Stalle, magazzini e granai adibiti ad alloggi dei soldati
Soldati nel chiostro grande
Soldati italiani nel cortile d'onore
32°Reggimento artiglieria
La Certosa di Calci nella Grande Guerra. Riuso e tutela tra Pisa e l' Italia, a c. di Gioli A., Edifir Edizioni Firenze 2015, p.72
Ambulanza da montagna
Le ambulanze da montagna, completamente someggiate su quadrupedi, durante il conflitto avevano assunto una vasta gamma di ruoli che superavano le loro funzioni originali.
Operavano sia in prima che in seconda linea, svolgendo compiti diversificati come infermerie presidiali, ospedaletti chirurgici, locali d'isolamento, depositi per casi sospetti e istituti di riposo.
La loro versatilità consentiva loro di adattarsi alle mutevoli esigenze del fronte, fungendo da punti cruciali per la gestione e il trattamento di feriti e malati in diverse situazioni operative durante il conflitto.
Queste piccole formazioni sanitarie, in numero di 32, avevano assunto una numerazione non progressiva: 3, da 7 a 10, 15, 20, 22, 24, da 29 a 33, 37, 40, 45, da 48 a 50, 59, 60, 67, 73, 75, 77, 82, 83, 85, 87, 88.
Fonte: sanitagrandeguerra.it
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Clarice Pierini Borella
Salita sulla nave ospedale Menfi con il secondo turno e rimasta anche nel terzo, su precisa richiesta della marchesa Guiccioli, Clarice Pierini Borella tenne un diario dei suoi tre mesi di missione che costituì una preziosa testimonianza non solo della capacità professionale delle infermiere, ma anche della sensibilità umana sua personale e di quella delle sorelle, ma in particolare la loro rappresentante pisana, espressero verso quei disgraziati che venivano sottoposte alle loro cure.
Clarice Pierini Borella, che poteva fregiarsi ormai del distintivo che lo Stato Maggiore della Regia Marina aveva deciso di assegnare al personale imbarcato per servire sulle Navi Ospedale, fu poi invitata dal Comitato di Volterra, ormai tra i più attivi della provincia e non solo, a tenere una conferenza, corredata da un filmato, sulla guerra di Libia, presso il Teatro Flacco della città etrusca, in occasione della Festa del fiore che doveva servire anche a rilanciare il sostegno economico alla Croce Rossa. Per parte loro, le Dame pisane organizzavano nei giorni del natale, in sintonia con quanto facevano le sorelle di altre città, una vendita di distintivi patriottici, il “trifoglio” d’Italia, in metallo smaltato con foglioline dei tre colori nazionali. Alla raccolta di fondi contribuirono anche gli studenti con le rappresentazioni teatrali.
Clarice Pierini Borella, Tre mesi come infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana sulla nave “Melfi”. Diario di bordo, Pisa, Mariotti, 1912
Cfr. Alberto Galazzetti-Filippo Lombardi, La Croce Rossa Italiana nella guerra di Libia, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 753
Barbara Baccarini, La strutturazione dei soci e le componenti femminili della Croce Rossa Italiana, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 435.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 14 gennaio 1912.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 24-31 dicembre 1911. 55
Fonte: Storia della Croce Rossa in Toscana dalla nascita al 1914 I studi
Ricerca storica: Roberto Marchetti
La Croce Rossa Italiana a Pisa
La Croce Rossa Italiana a Pisa
Prima parte dal 1883 al 1915
Il 21 ottobre del 1883, a Pisa, veniva presentato il programma per la costituzione del Consolato operaio delle Associazioni liberali della provincia di Pisa, ovvero l’associazione provinciale di tutte le società che si richiamavano ai valori condivisi del Risorgimento.
Per lo più legate all’area radicale e massonica, si trattava di organizzazioni laiche, aperte a vari orientamenti coerentemente con la complessità ideologica garibaldino-mazziniana. Il programma si riprometteva il «miglioramento intellettuale, economico e politico della grande famiglia dei lavoratori», lo sviluppo dell’istruzione affinché gli operai potessero meglio attendere ai loro doveri e aspirare ai loro diritti, lo sviluppo del mutuo soccorso, della cooperazione e della partecipazione agli utili di impresa, il conseguimento del suffragio universale. L’elenco di società aderenti comprendeva ben 22 soggetti, fra cui la Fratellanza Militare di Mutuo soccorso di Pisa; è in questo ambito di associazionismo popolare che compare quindi il primo segnale di un’idea di Croce Rossa a Pisa.
Un anno dopo, con un manifesto del 31 ottobre 1884 a firma del “comandante” Giosafatte Baroni, che agiva a nome del Comitato promotore, veniva annunciata la costituzione in Pisa della compagnia di mutuo soccorso e di assistenza “La Croce Rossa”, militarmente ordinata, avente come scopo «il mutuo soccorso e l’assistenza di ogni ordine di cittadini in caso di pubbliche calamità o di parziali ma gravi disgrazie», prestando l’opera sua esclusivamente umanitaria, o per propria iniziativa o per mandato affidatole dall’autorità provinciale o comunale. Il nome di Baroni riconduceva alla massoneria e al mondo risorgimentale, in quanto quel personaggio, assai noto nel territorio, aveva un ricco passato di partecipazione agli eventi del movimento garibaldino e post-garibaldino; era stato anche un convinto internazionalista, legato ai gruppi più radicali nei primi anni settanta dell’800.
Le circostanze in cui nasceva quel primo tentativo di Comitato della Croce Rossa pisana erano comunque drammatiche e contingenti, perché legate allo scoppio dell’epidemia di colera che non aveva risparmiato neppure la “salubre” Pisa. Si deve dunque pensare a un’iniziativa del mondo laico, che così intendeva differenziarsi dalla Misericordia, ma che dal punto di vista delle modalità di allora non corrispondeva agli scopi ufficiali della organizzazione, che a quel tempo andava strutturandosi a livello nazionale e regionale. L’esperienza di questo primo comitato, che a Pisa si era intitolato Croce Rossa, ebbe quindi una vita abbastanza breve, anche per ragioni politiche.
Fu così che nacque nel 1888 un nuovo Sotto Comitato della Croce Rossa Italiana di Pisa, formalizzato a seguito di un’assemblea di cittadini e di autorevoli rappresentanti del notabilato, tenutasi il 25 agosto di quell’anno nella sala del Consiglio comunale. L’elemento propulsore di questa operazione era l’avvocato e giurista Emilio Bianchi, professore, civilista e politico di orientamento monarchico-costituzionale, il che faceva comprendere come la nuova Croce Rossa a Pisa nascesse in un contesto decisamente alternativo a quello in cui si era formato il primo sodalizio recante quel nome.
Il Sottocomitato di Pisa, che già all’inizio contava 111 iscritti, cominciò la sua attività sotto la presidenza del Tenete Generale Francesco Villani, con vicepresidenti lo stesso professor Bianchi e il cavalier Giuseppe Calvagna. Gli uffici furono situati presso la Regia Prefettura di Pisa ed il magazzino materiali, situato in locali presso le Scuole Tecniche, rimase lì fino alla smobilitazione del 1919.
La nomina di Villani come presidente dovette avere un carattere contingente e di urgenza; già l’anno successivo gli subentrò infatti il prof. Domenico Barduzzi, che sarebbe rimasto in carica fino al 1893. Barduzzi era un prestigioso medico e professore universitario, nonché direttore delle Terme di San Giuliano; il suo era un ruolo più che altro rappresentativo, essendo svolte tutte le principali funzioni operative dal vicepresidente Bianchi, vero ispiratore del sodalizio e personaggio di assoluto rilievo nel panorama politico cittadino, esponente attivo anche nel campo della propaganda liberale-monarchica.
Pisa intanto veniva considerata sempre più strategica in prospettiva militare; nel 1892 la Croce Rossa Italiana di Pisa venne incaricata di predisporre un Ospedale Territoriale da 120 posti letto presso l’ ex Convento di San Giovannino, attività pensata soprattutto in funzione del crescente impegno coloniale. Nel 1893 la presidenza del Comitato venne affidata di nuovo a un medico, il maggiore Emilio Bartalini che aveva fatto parte del consiglio fin dagli esordi.
Il Comitato di Pisa cominciava ad avere un peso patrimoniale e finanziario non trascurabile. Come altrove, svolgevano un ruolo importante anche le Dame della Croce Rossa che, nel 1907, come sezione femminile, furono protagoniste delle attività di finanziamento, organizzando con un certo successo diverse feste di beneficenza. Per il terremoto di Messina del 1908, la Croce Rossa pisana si mobilitò allestendo nella stazione ferroviaria di Pisa San Rossore un “Posto di Pronto Soccorso”, garantito da un Ufficiale e tre militi della C.R.I., e con le dame di Croce Rossa che prestavano assistenza come infermiere durante il passaggio di convogli con feriti e profughi sfollati dalle zone terremotate. Il lavoro svolto in quell’occasione portò al Comitato di Pisa tre onorificenze, tra cui una medaglia di bronzo.
Non ci fu dunque difficoltà ad organizzare anche a Pisa, come già veniva fatto altrove, un primo corso per Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, istituito nel maggio del 1909, con le prime diplomate effettive dal luglio del 1910.
Nel 1909, intanto, era stato chiamato alla presidenza il prof. Dario Bocciardo, esperto di radiologia medica, che dovette gestire un periodo delicato di riorganizzazione del sistema pisano della assistenza sociale (è di quegli anni la fusione di Pubblica Assistenza e Croce Bianca in un unico organismo). Bocciardo, uomo di idee innovative, era un convinto fautore di una decisa accelerazione nei metodi e nella organizzazione della C.R.I., che implicava una presenza assai più attiva nella società civile.
Nel 1910 la Croce Rossa di Pisa subentrò alla Società di Mutuo Soccorso Croce Bianca del Piano di Pisa (che aveva sede a San Frediano a Settimo), assumendone la quota di lavoro e ampliando così il proprio ambito territoriale. Tutto questo imponeva una continua ricerca di fondi, che specialmente le dame seppero perseguire con grande alacrità, raggiungendo l’apice con il grande avvenimento del ballo per la Croce Rossa organizzato a Pisa il 18 febbraio 1911.
Gli avvenimenti politici, però, fecero sì che si imponesse di nuovo ben presto la fisionomia originaria dell’impegno sui campi di battaglia. Allo scoppio della guerra italo-turca per la Libia, l’infermiera volontaria Clarice Pierini Borella di Pisa fu chiamata a Tripoli a prestare servizio di assistenza ai militari italiani feriti. La dama pisana precedette di poco la partenza di un contingente maschile, guidato dal tenente medico Luigi Bertini. Il 10 gennaio del 1912, al loro rientro da Tripoli, i militi pisani della Croce Rossa furono accolti da una folla di cittadini, che li accompagnò in corteo dalla stazione fino in piazza Garibaldi.
Nello stesso anno 1912 il Comitato di Pisa passò sotto la presidenza del professor Giuseppe Tusini, clinico universitario, direttore dell'Istituto di Patologia Chirurgica. Dal 1914 la C.R.I. di Pisa si dedicò soprattutto al potenziamento delle risorse, alimentando la raccolta di fondi da investire nell’acquisto di strumenti e di materiali, oltre che nell’organizzazione di corsi di addestramento di diverso tipo.
Tra le altre cose, dall’inizio del 1915 Pisa lavorò alla fondazione, nella sua zona, della Croce Rossa Italiana Giovanile, organizzazione creata per gli ambienti scolastici, rivelatasi particolarmente efficace sul territorio. Il successo tra gli studenti doveva riferirsi anche alla propensione che molti giovani manifestavano per l’intervento in guerra, verso il quale i dirigenti locali della Croce Rossa di Pisa non si mostrarono ostili. Incombevano però anche le questioni “civili”.
Alla fine di febbraio dello stesso anno, la Croce Rossa Italiana di Pisa si mobilitò infatti per il terremoto della Marsica che aveva fatto circa 30.000 vittime. In breve tempo fu disposto l’invio di coperte, vestiario e viveri e si organizzarono squadre di soccorso per contribuire allo slancio nazionale. Meno di tre mesi dopo, il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarava la guerra all’Austria – Ungheria.
A cura di: Alessandra Pollina
in costruzione
Ricerca storica: Giuseppe Cacciatore e Roberto Marchetti
Personaggi storici
" Nessuno muore sulla terra finchè vive nel cuore di chi resta"
Ricerca storica: Roberto Marchetti
25 agosto 1888 Costituzione della CRI a Pisa
Nella mattina di sabato scorso, 25 agosto 1888, i membri del sotto comitato per la Croce Rossa si sono riuniti nella solenne sala del consiglio comunale. L'atmosfera era carica di impegno e determinazione, pronti a continuare la nobile tradizione di servizio e soccorso che caratterizza l'istituzione.
Il momento clou dell'incontro è stato il breve ma eloquente discorso del Prof. Cav. Avvocato Emilio Bianchi, il quale ha ripercorso la storia illustre di questa istituzione dedicata al soccorso umanitario. Dopo il toccante intervento, si è proceduto con l'importante passo dell'elezione dei membri chiave che avrebbero guidato il sotto comitato.
Al prestigioso ruolo di presidente è stato eletto il Generale On. Francesco Villani, già deputato al parlamento. La scelta di un uomo con una vasta esperienza politica ed umanitaria promette di portare leadership e dedizione alla causa.
Tra i consiglieri, figure di spicco sono emerse: il dottor Bartolini Emilio, il Prof. Cav. Avv. Emilio Bianchi, il Dottor Vittorio Casaretti, l'avvocato Luigi Curini, il Barone Giuseppe Galvagna, il dottor Riccardo Gattai, l'avvocato Alberto Guarducci, il dottor Lando Landi, il dottor Amerigo Leeci e il dottor Amerigo Poggesi.
In un prossimo incontro, i membri del consiglio dovranno eleggere due vice presidenti, un segretario, un responsabile contabile per la cassa, un responsabile contabile per il magazzino e un delegato presso il Comitato regionale di Firenze. Questi incarichi cruciali saranno fondamentali per garantire il corretto funzionamento e la gestione efficace delle risorse a disposizione.
La Croce Rossa, con la sua lunga storia di altruismo e dedizione, può sicuramente contare su questo nuovo sotto comitato per continuare a svolgere il suo nobile compito di soccorso e supporto alle comunità in momenti di necessità.
Roberto Marchetti
La Provincia di Pisa anno XXIV n. 35 del 30 agosto 1888
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Fiat 2300
Nella seconda metà degli anni cinquanta la casa torinese avviò lo studio di una nuova vettura di grandi dimensioni che potesse prendere il posto delle FIAT 1400 e 1900, sul mercato dal 1950. Visto il perdurare della moda, anche per la nuova ammiraglia venne scelta una carrozzeria d'impronta americaneggiante. Bandite però le rotondità del modello precedente, la nuova carrozzeria sfoggiava linee tese, grosse pinne e abbondanza di cromature.
Una 1800 berlina al Concorso d'eleganza a Cortina d'Ampezzo nell'estate del 1959
Dal punto di vista tecnico, invece, le novità maggiori arrivavano dai motori (tutti a 6 cilindri in linea con albero a camme laterale) e dalla sospensione anteriore a ruote indipendenti con barre di torsione. Per il resto la vettura conservava la trazione posteriore, il retrotreno ad assale rigido con balestre longitudinali, i freni a tamburo sulle 4 ruote ed il cambio manuale a 4 marce con leva al volante.
Pochi mesi dopo la presentazione della berlina a 4 porte (Salone dell'automobile di Ginevra del 1959), nelle versioni 1800 (1795cm³, 75cv) e 2100 (2054 cm³, 82 CV), la gamma s'arricchì della variante familiare, con carrozzeria giardinetta. La Fiat, prima casa in Europa (ma la moda era già diffusa negli Stati Uniti), tentò di affrancare questo tipo di carrozzeria dalla poco lusinghiera fama di veicolo da lavoro, introducendo il concetto di station wagon di lusso per il tempo libero. Gianni Agnelli, qualche anno dopo, utilizzava una 2300 Lusso Familiare, evoluzione della 2100 Familiare, per andare a giocare a golf.
Alla fine del '59 la Sezione Carrozzerie Speciali della FIAT realizzò la versione Speciale, sulla base della 2100, caratterizzata da passo e lunghezza maggiorati, un diverso (e più elaborato) frontale, da interni meglio rifiniti e da altre differenze minori. La carrozzeria Francis Lombardi, invece, lanciò la versione a passo allungato della berlina, apprezzata come taxi (configurazione a 7 posti) o come auto di rappresentanza (sia per le autorità Italiane che per il Vaticano) denominata President.
Fonte: wikipedia
Ricerca storica: Roberto Marchetti
Fiat 1100
L'iconica Fiat 1100: Un'icona dell'industria automobilistica italiana
La storia della Fiat 1100 risale al lontano 1937, quando la Fiat 508C "Nuova Balilla 1100" fece la sua comparsa sul mercato automobilistico. Questo modello, evolutosi nel tempo, divenne famoso per la sua distintiva calandra, che gli valse il soprannome di "musone".
Dopo il periodo bellico, nel settembre del 1948, la vettura subì delle lievi modifiche, diventando la 1100 B. Tuttavia, fu con l'introduzione della 1100 E, verso la fine dell'estate del 1949, che la Fiat fece un significativo passo avanti. Questa versione presentava un vano bagagliaio e alloggiamento per la ruota di scorta, insieme al comando del cambio montato sul volante.
La Fiat 1100 E mantenne la sua popolarità fino alla primavera del 1953, quando venne sostituita dalla 1100/103. Questo modello continuò a godere di un notevole successo, grazie alla sua spaziosità, e trovò impiego in diversi settori, come taxi e ambulanze. Durante la guerra, era stata persino prodotta una versione adibita ad "ufficio mobile".
In definitiva, la Fiat 1100 si guadagnò un posto di rilievo nell'industria automobilistica italiana, diventando un'icona del suo tempo e lasciando un'impronta duratura nella storia dell'automobile.
Roberrto Marchetti
Fonte: wikipedia
Ricerca storica: Roberto Marchetti