Croce Rossa Italiana - Comitato di Pisa
 
nastro tricolore
 
Il Campo di Fossoli durante la Seconda Guerra Mondiale: Un'Oscura Storia di Prigionia e Deportazione

Il Campo di Fossoli, situato vicino a Carpi in provincia di Modena, ha una storia complessa e oscura legata agli eventi della Seconda Guerra Mondiale. Originariamente istituito nel maggio 1942 come campo di prigionia per soldati alleati, il destino del campo cambiò radicalmente dopo l'occupazione tedesca dell'8 settembre 1943.

Dopo l'occupazione, le truppe tedesche trasferirono tutti i prigionieri alleati nei campi del Terzo Reich, abbandonando il campo di Fossoli. Tuttavia, a fine novembre 1943, il campo fu riattivato come luogo speciale per l'internamento degli ebrei. Questo segnò un cambiamento significativo, passando sotto il controllo diretto del podestà di Modena anziché dell'autorità militare, evidenziando la diretta responsabilità fascista nella politica di deportazione degli ebrei.
Le SS, guidate dal tenente Titho e dal maresciallo Haage, assunsero il controllo del campo ebraico, destinando alcune baracche del nuovo campo a luogo di transito e smistamento per antifascisti e partigiani arrestati nei rastrellamenti e destinati ai lager in Germania.

Il settore ebraico del campo consisteva in 10 baracche, ciascuna con una capacità di 250 persone, mentre nel settore dei prigionieri politici c'erano 7 baracche con una capacità di 320 persone ognuna.

Il 22 giugno 1944, Poldo Gasparotto, esponente del C.L.N. lombardo, fu brutalmente assassinato con un colpo alla nuca, evidenziando la brutalità del regime nei confronti degli oppositori. Il 12 luglio 1944, 67 prigionieri furono fucilati nel poligono di Cibeno come rappresaglia per la morte di sette soldati tedeschi per mano dei GAP di Genova.

All'inizio di agosto 1944, il campo fu sgomberato e chiuso, con tutto il suo contenuto trasferito al campo di Gries a Bolzano. Tuttavia, Fossoli rimase aperto come centro di raccolta di manodopera da trasportare in Germania.
La storia di Fossoli è un doloroso capitolo della Seconda Guerra Mondiale, testimoniando la brutalità della persecuzione e della deportazione sotto il regimefascista e nazista.
 
Fossoli planimetria 

Fonte: ITI-Maiorana

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

Il Tragico Tributo di Pisa alla Shoah: Bombardamenti e Deportazioni durante la Seconda Guerra Mondiale

Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la città di Pisa, strategicamente posizionata grazie al suo collegamento diretto al mare tramite il Canale dei Navicelli e alla sua importanza come snodo ferroviario cruciale, fu teatro di eventi devastanti che segnarono profondamente la comunità locale.

Bombardamenti Distruttivi:
Pisa subì pesanti bombardamenti a tappeto da parte delle forze americane, che miravano a colpire sia obiettivi bellici che civili. La stazione ferroviaria, fondamentale per il trasporto di uomini e materiali bellici, fu distrutta insieme ai quartieri sud-occidentali della città. In particolare, il quartiere di Porta a Mare fu polverizzato, causando ingenti perdite umane e danni strutturali irreparabili.

La zona industriale, cuore della produzione bellica, fu altrettanto colpita duramente. La fabbrica della Saint Gobain fu bersagliata da 367 bombe, provocando la morte di 56 persone. Le cifre ufficiali della Prefettura riportano 952 vittime, 1.000 feriti e danni significativi a edifici e abitazioni. Tuttavia, le stime suggeriscono che le vere vittime superarono le duemila.

Deportazioni e Campo di Fossoli:
In seguito ai bombardamenti, molti cittadini si rifugiarono nelle colline circostanti in cerca di sicurezza. Tuttavia, questa fuga da una tragedia si trasformò in un altro orrore per alcuni, poiché furono arrestati nei luoghi di rifugio e trasferiti al Campo di Fossoli. Da questo campo di internamento, molti furono poi deportati nei campi di sterminio nazisti.

Le Vittime della Shoah:
Vogliamo ricordare alcune delle vittime della Provincia di Pisa, persone che non sopravvissero alla Shoah e furono internate nel campo di Auschwitz. Queste vite spezzate rappresentano il tragico tributo che la comunità di Pisa ha pagato durante il periodo buio della storia:

Giulio Cremisi
Eva Della Seta
Gina Della Seta
Giovanni Della Seta
Jacopo Franco
Elena Gina Della Torre
Davide Finzi
Arrigo Coen
Olga Galletti
Karl Kammer
Mario Roccas
Elda Di Nola
Renzo Roccas
Liliana Archivolti
Edoardo Bigiavi
Evelina Sacerdoti

La memoria di questi eventi dolorosi serve come monito contro l'orrore della guerra e dell'odio, affinché possiamo impegnarci a costruire un futuro basato sulla pace, la comprensione e la solidarietà.

 

A Pisa, in Piazza S. Paolo all’Orto, 19 il 13 gennaio 2017 furono poste 4 pietre d'inciampo.
 
Le pietre d'inciampo (in tedesco Stolpersteine) sono un'iniziativa dell'artista tedesco Gunter Demnig per depositare nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. Tale progetto ha avuto inizio nel 1992 e consiste nell'incorporare nel selciato stradale delle città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, dei blocchi in pietra ricoperti da una piastra di ottone posta sulla faccia superiore.
 
 
Cremisi Giulio 

Figlio di Alberto Cremisi e Fortunata Pinto è nato in Egitto a Alessandria d'Egitto il 19 febbraio 1874. Coniugato con Matilde Galligo.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Giulio Cremisi  
   
Eva Della Seta Figlia di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nata in Italia a Roma il 10 giugno 1884. Coniugata con Enrico Di Capua.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Eva Della Seta  
   
Della Seta Gina Figlia di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nata in Italia a Castel Gandolfo il 3 settembre 1894. Coniugata con Jacopo Franco.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Gina Della Seta  
   
Della Seta Giovanni

Figlio di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nato in Italia a Roma il 18 gennaio 1883.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Giovanni Della Seta  
   
Franco Jacopo 

Figlio di Salomone Massimo Franco e Giulietta Tedeschi è nato in Italia a Verona il 9 giugno 1884. Coniugato con Gina Della Seta.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Jacopo Franco  
   
Immagine donna

Figlia di Egisto Della Torre e Palmira Bondì è nata in Italia a Livorno il 19 settembre 1885. Coniugata con Guido Archivolti.
Arrestata a Monteverdi Marittimo (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

Elena Gina Della Torre  
   
Immagine uomo Figlio di Isacco Finzi e Lea Alter è nato in Palestina a Akko il 25 settembre 1905. Coniugato con Ida De Paz.
Arrestato a Pisa (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Davide Finzi  
   
Immagine uomo
Figlio di Alessandro Coen e Enrichetta Levi è nato in Italia a Urbino il 17 settembre 1879. Coniugato con Olga Galletti.
Arrestato a Santa Croce sull'Arno (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 05/04/1944 partito da Fossoli.
Arrigo Coen  
   
Immagine donna Figlia di Cesare Galletti e Amalia Pesaro è nata in Italia a Firenze il 29 marzo 1881. Coniugata con Arrigo Coen.
Arrestata a Santa Croce sull'Arno (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 05/04/1944 partito da Fossoli.
Olga Galletti  
   
Immagine uomo Figlio di Leopold Kammer è nato in Austria a Vienna il 6 novembre 1899. Coniugato con Dora Sternhell.
Arrestato a Santa Luce (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Karl Kammer  
   
Roccas Mario


Figlio di Vito Roccas e Giuseppina Della Seta è nato in Italia a Bracciano il 15 marzo 1900. Coniugato con Elda Di NolaArrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

La famiglia Roccas è composta da Mario Roccas e la moglie Elda Di Nola, la suocera Valentina Della Seta ed il figlio Renzo. Dalla casa di abitazione di Pisa, nell'estate 1943 si trasferiscono nella villa estiva di Chianni e qui vengono tutti arrestati il 21 aprile 1944. Carcerati a Firenze sono in breve trasferiti a Fossoli e da qui ad Auschwitz.

Mario Roccas  
Mario Roccas Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto 
   
Della Seta Valentina Figlia di Raimondo Della Seta e Sara Pontecorvo è nata in Italia a Roma il 4 ottobre 1878. Coniugata con Angelo Di Nola.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Valentina Della Seta  
Valentina Della Seta Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto
   
198 219 DiNola Elda Figlia di Angelo Di Nola e Valentina Della Seta è nata in Italia a Pisa il 5 maggio 1901. Coniugata con Mario Roccas.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Elda Di Nola  
Elda Di Nola Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto 
   
Roccas Renzo Figlio di Mario Roccas e Elda Di Nola è nato in Italia a Roma il 10 giugno 1927.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Renzo Roccas  
Renzo Roccas Pietra d'inciampo Piazza S. Paolo all’Orto 
   
Immagine donna 

Figlia di Guido Archivolti e Elena Gina Della Torre è nata in Italia a Milano il 10 dicembre 1923.
Arrestata a Monteverdi Marittimo (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Numero di matricola: A-5348
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.

 
Liliana Archivolti  
   
Bigiavi Edoardo
Figlio di Angelo Bigiavi e Elvira Pinto è nato in Egitto a Alessandria d'Egitto il 16 dicembre 1874. Coniugato con Evelina Sacerdoti.
Arrestato a Chianni (Pisa). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuto alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Edoardo Bigiavi  
   
Bigiavi Evelina
Nata in Italia a Modena il 21 marzo 1880. Coniugata con Edoardo Bigiavi.
Arrestata a Chianni (Pisa). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz.
Non è sopravvissuta alla Shoah.
Convoglio del 16/05/1944 partito da Fossoli.
Evelina Sacerdoti  
 

 

 

 

Fonti: nomidellashoah, wikipedia, italianiinguerra, digital-library.cdec.it


Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

Il 13 gennaio 1915 gli aghi dei sismografi di tutta Italia e d’Europa prendono ad oscillare parossisticamente e con ampiezza inaudita; l’ampiezza diverrà vieppiù contenuta con il progressivo aumentare della distanza dall’epicentro ma i segnali del terremoto verranno percepiti dappertutto nel mondo. In Italia le onde si propagheranno per tutta la dorsale Appenninica e il sisma verrà distintamente avvertito fino a Parma; verso meridione invece le scosse saranno ancora percettibili a Potenza (De Magistris).
La zona dove si manifestarono i massimi effetti del terremoto fu quella corrispondente all’epicentro, la conca Fucense, all’epoca gia completamente prosciugata dell’antico lago. Quest’ampia superficie pianeggiante, di poco meno di duecento chilometri quadrati, e costituita da roccia calcarea carsica, fessurata e presentante inghiottitoi e voragini. La conca rappresento da sempre la cupa di raccolta delle acque dell’ampio impluvio e queste, mano a mano che giungevano in basso venivano assorbite dalle fessure e dalle concamerazioni del fondo. Ma con le acque discendevano in basso anche rocce, sassi, detriti, polveri e terre che, sedimentando al suolo, incominciarono ad ostruire dapprima le fessure e poi poco alla volta anche gli inghiottitoi maggiori; il fondo della conca comincio a ritenere le acque che vi si raccoglievano e queste a loro volta contribuirono ad impermeabilizzare il fondo, depositandovi detriti organici che lentamente vennero a costituire un sicuro materiale sigillante ed impermeabilizzante.
Col passare dei millenni e di ere geologiche il fondo della conca, oltre che di acque, si arricchì di depositi alluvionali sempre più spessi e sempre più fertili che discesero nel lago, ma mano a mano si depositarono anche sui pendii costeggianti l’invaso del lago stesso, fino a rivestire di spessa coltre sempre più costipata la base delle colline circostanti. Su questi fertili terreni alluvionali nacquero dapprima piccoli insediamenti che divennero col tempo sempre più importanti ma anche, per la più favorevole trasmissione degli effetti delle onde sismiche, più esposti a pericolo in caso di terremoti. Il terremoto del 13 gennaio del 1915 ebbe come epicentro la conca Fucense. Le onde sismiche che interessarono la superficie svilupparono tutta la loro energia sul massiccio strato alluvionale che costituiva il fondo del lago ma che pure risaliva attorno ai bordi dell’invaso, ove sorgevano gli abitati di Avezzano, Pescina, San Benedetto dei Marsi, Ortucchio e numerosi altri centri minori.

avezzano terremoto 1915 2ddrsade

Tutti questi centri vennero tanto duramente colpiti dal sisma da venirne praticamente distrutti. All’epoca del terremoto la città di Avezzano contava 11.200 abitanti; i suoi edifici verranno distrutti per il 95 per cento e sotto le macerie moriranno più di diecimila persone. Si salveranno appena un migliaio di abitanti molti dei quali non perché fossero riusciti a scappare ai crolli ma semplicemente perché si trovavano all’aperto, in campagna. Quasi tutti i sopravvissuti dovettero la loro salvezza al mancato rispetto del giorno di riposo (il 13 gennaio fu festivo). Per il motivo opposto invece una buona parte degli abitanti di Ortucchio e di Cerchio, in maggioranza donne, perdettero la vita. In queste due località erano stati compiuti cicli di prediche e di ritiri spirituali che culminarono, appunto al mattino del terremoto, in una messa solenne con comunione generale.

Fu durante la solenne funzione che si scatenò il sisma; le chiese di Ortucchio e Cerchio andarono distrutte e sotto le macerie del tetto e delle mura i fedeli perirono a centinaia. Cerchio è situata in prevalenza non su terreno alluvionale ma sulla propaggine rocciosa che mano a mano sale verso la Forca Caruso; essa ha quindi risentito il terremoto in misura ridotta che non le città e i villaggi giacenti sulla conca. Questa cittadina quindi avrebbe avuto molto meno vittime che non quelle che ettettivamente ebbe (circa cinquecento) se non vi fossero stati i quattrocento fedeli periti nel crollo della chiesa. Cerchio sorge su terreno compatto al contrario di Ortucchio che invece poggia su di un basamento di detriti, questa località anzi è tanto adagiata su materiali incoerenti d’origine alluvionale che, secondo le escrescenze o il ritirarsi dell’antico lago, alternativamente diveniva un’isola oppure diventava terraferma. Non tutti i centri del Fucino ebbero quindi lo stesso destino, neppure quelli situati ai bordi del lago.

La cittadina di Trasacco, a meta strada fra Luco e Ortucchio, fu colpita solo nella meta lungo la fascia alluvionale, al limitare dell’antico invaso. Le case costruite appena più in alto invece, sulle propaggini rocciose del monte Carbonaro che il sisma scanso per correre più liberamente per le valli verso l’Aceretta, subirono danni meno rilevanti; per conseguenza molti abitanti della zona alta del paese salvarono le loro vite ed anche i loro beni. Sorte analoga a quella di Trasacco ebbe Celano, costruita in parte su detriti di falda e in parte sulla roccia; la città alta ebbe danni più contenuti che non quella bassa. Rispetto all’epicentro del sommotimento, identificato nella conca Fucense, le onde sismiche raggiunsero, per direzioni preferenziali, zone anche distanti facendosi sentire chiaramente, ad esempio, fino a Roma dove per la scossa cadrà una delle gigantesche statue sul frontespizio della basilica di San Giovanni in Laterano. Ma la scossa del 13 gennaio farà risentire gli effetti ed i danni in molti altri luoghi, a Monterotondo nei pressi di Roma, su di un ampio tratto in riva destra del Tevere, a settentrione della Capitale fino a Fiano, Morlupo e Castelnuovo di Porto ed oltre, raggiungendo e oltrepassando il massiccio del Soratte.

Per altre direzioni il sisma si farà sentire fino in Umbria ben oltre Norcia, nelle Marche a Fermo, nella bassa valle del Pescara a Manoppello ed oltre, fino al mare Adriatico, in Molise a San Vincenzo al Volturno. Nel Lazio meridionale verrà raggiunta e colpita Sora; il sisma correrà ancora verso meridione lungo la valle del Liri. A Sud Est e poi mano mano ad Est il sisma perverrà sull’altipiano delle Cinquemiglia, percorrerà la conca di Sulmona sui versanti settentrionali della Majella. I danni maggiori arrecati dal sisma saranno grosso modo circoscritti entro il poligono tracciabile congiungendo i punti estremi che abbiamo nominati. Ma entro questo vasto territorio, a causa della meccanica di spostamento delle onde di cui abbiamo fatto cenno, i danni potranno essere più modesti in vicinanza dell’epicentro e ricomparire invece imponenti più lontano, lungo una vallata o una cimosa alluvionale.
Testi di Luigi Marra e Gaetano Ferri

 

gionalieopocaterremoto
I giornali dell’epoca
Stanotte sono arrivati i militi della Croce Rossa, i quali hanno subito cominciato a curare i feriti. I militi si sono subiti recati nel paese e alla luce delle torce hanno cominciato l’opera dei disseppellimento. Ma sono pochi e manca il materiale necessario per il salvataggio. Alcune squadre di volenterosi sono venute dai paesi vicini ed hanno cominciato l’opera umanitaria, ma hanno dovuto smettere subito, per mancanza dei mezzi indispensabili. Occorrono anche viveri per coloro che si prestano a questa generosa impresa. Episodi commoventissimi si verificano dovunque. Una bambina ha messo fuori una manina dalle macerie. Si sono avvicinati subito dei soldati ed hanno tentato di salvarla; ma per mancanza di mezzi hanno dovuto sospendere l’opera loro per paura di veder morire la piccina da un momento all’altro e quando hanno potuto ritentare l’opera si sono accorti che la povera creatura era già morta e accanto a lei si trovava il cadavere della madre. L’opera dei soldati procede sempre in modo mirabile. Ma i mezzi di cui dispongono sono inferiori ai bisogni. Urge assolutamente provvedere. In questo senso hanno chiesto provvedimento al ministero gli on. Sipari, Torlonia e Guglielmi che sono presenti sul luogo.
«Il Mattino», 15-1-1915

Fonte: terremarsicane

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

16th SS Division Logo

 

La 16ª SS Panzergrenadier Division "Reichsführer SS" (16ª divisione di fanteria meccanizzata delle Waffen SS "Reichsführer") fu costituita nel novembre 1943, in seguito all'ampliamento della Sturmbrigade Reichsführer-SS (Brigata d'assalto Reichsführer-SS), con l'arruolamento di volksdeutsche.
Il grosso della divisione, ripartita in diversi gruppi di combattimento, stazionò in Italia dal maggio 1944 al febbraio 1945 e durante sua la permanenza in Italia la divisione contrastò l'Operazione Shingle, ritirandosi successivamente attraverso Siena e Pisa fino in Versilia.

Nell'agosto 1944 la divisione si rese responsabile di numerose atrocità ai danni della popolazione civile: l'11 agosto a Nozzano (59 morti); il 12 agosto quattro compagnie del II battaglione del 35º reggimento a Sant' Anna di Stazzema (560 morti); ancora effettivi del 35º reggimento a Vinca (170 morti) il 24 agosto; nel mese di settembre effettivi di questa divisione effettuarono il rastrellamento della Certosa di Farneta trucidando nei giorni seguenti i prigionieri (strage di Farneta e strage delle Fosse del Frigido; fu poi la volta di Bergiola Foscalina ed infine a Marzabotto (Bologna), dove tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 furono trucidate 770 persone. Per l'eccidio di Marzabotto l'unità responsabile fu il 16ª Reparto corazzato di ricognizione (SS Panzer Aufklärungs Abteilung 16) comandato dal maggiore (Sturmbannführer) Walter Reder.

Nel febbraio 1945 la divisione venne trasferita in Ungheria per cercare di liberare le unità tedesche rimaste intrappolate a Budapest (Operazione Frühlingserwachen). In seguito al fallimento dell'offensiva, la divisione si ritirò in Austria, dove si arrese alle truppe inglesi nei pressi di Klagenfurt nel maggio del 1945.

 

Teatri operativi
Ungheria, aprile-maggio 1944
Italia, giugno 1944 - gennaio 1945
Fronte orientale, febbraio-maggio 1945

Comandanti
SS-Gruppenführer Max Simon 3 ottobre 1943 - 24 ottobre 1944
SS-Brigadeführer Otto Baum 24 ottobre 1944 - 8 maggio 1945
 

Fonte: wikipedia

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Gli avversari

Francesco Giuseppe (1830 - 1916)
Figlio di Francesco I e di Sofia di Baviera, Franesco Giuseppe divenne Imperatore D'Austria e Ungheria durante la crisi del 1848. Con l'aiuto del principe Schwarzenberg, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, in meno di due anni ristabilì l'autorità imperiale in Boemia e in Ungheria e riaffermò la supremazia austriaca in Germania e in Italia. Tuttavia, l'ultimatum contro il Piemonte, lanciato nel 1859, poi quello contro la Prussia di Bismarck e il compromesso sull'Ungheria del 1867, si rivelarono azioni controproducenti. Per la dichiarazione di guerra alla Serbia, Francesco Giuseppe può essere, infine, ritenuto uno dei responsabili del conflitto del 1914-'18. Un matrimonio infelice, la fucilazione del fratello in Messico e il suicidio del figlio Rodolfo, scandirono tristemente i lunghi anni del suo regno.
 
Napoleone III (1808 - 1873)
In ossequio dei trattati di Plombières, Napoleone III scese in Italia con le truppe francesi il 27 Maggio 1859 a sostegno dell'esercito piemontese, ricevendo il comando supremo di entrambegli eserciti. A differenza di Vittorio Emanuele II, Napoleone possedeva una cultura militare puramente teorica. Tuttavia, a Solferino avrebbe scelto la tattica giusta. Figlio di Luigi Bonaparte re D'Olanda, fratello di Napoleone I, fu cresciuto in Svizzero imbevuto dei principi della Rivoluzione. Divenuto popolare a capo del partito bonapartista, fra alterne vicende, tra cui anche alcuni anni di prigione, venne eletto Presidente in Francia nelle elezioni successive alla monarchia di luglio. Difensore della sovranità popolare e garante dell'ordine al di sopra dei partiti, volle ricostruire l'Impero, con il colpo di stato nel dicembre del 1851, sanzionato poi da un plebiscito.
In antitesi con la politica austriaca, russa e prussiana, Napoleone III perseguì una politica estera basata su "principio di nazionalità", che piacque al popolo anche di altre nazioni. La Francia intervenne con L'Inghilterra nella Guerra di Crimea contro la Russia; Napoleone arbitrò il Congresso di Parigi e intervenne contro l'Austria nel 1859, con i Piemontesi. Il successivo isolamento diplomatico della Francia, però, risvegliò l'opposizione provocando la promulgazione di una nuova Costituzione. Napoleone III finì in esilio dopo la sconfitta francese a Sedan (1870).
 
Vittorio Emanuele II (1820 - 1878)
Figlio di Carlo Alberto e Maria Teresa di Lorena, aveva comandato brillantemente la divisione di riserva a Pastrengo, a Goito e Custoza(1848) durante la Prima Guerra d'Indipendenza; salì al trono del Regno di Sardegna in seguito all'abdicazione del padre dopo la sconfitta di Novara(1849). Gaudente in gioventù, il "Re galantuomo" si dimostrò poi volitivo e giudizioso, ottenendo la riduzione dell'indennità di guerra a 75 milioni e riuscendo a controllare le correnti democratiche interne. Scegliendo collaboratori come Cavour per la politica e La Marmora per l'esercito, il Re, lungimirante e spregiudicato, avrebbe stabilito un legame con il popolo, con i patrioti, con condottieri, sovrani, ministri e intellettuali: la carta vincente per l'unità d'Italia.

A pochi mesi dalla morte, nel 1887, sostenne il tentativo di Crispi per ottenere il passaggio del Trentino dall'Austria all'Italia.

L'età dei risorgimenti
Il secolo XIX è stato l'età dei Risorgimenti nazionali:Greci, Italiani, Belgi, Tedeschi, Ungheresi, Bulgari e Rumeni conquistarono, con diversi percorsi e travagli, l'indipendenza, ridisegnando completamente la carta geografica dell'Europa. L'idea di nazione, seminata nel continente dalle armate napoleoniche ed inutilmente archiviata dal Congresso di Vienna, aveva ben presto affascinato la borghesia liberale, insieme agli "immortali principi dell'Ottantanove"; alla Restaurazione seguì dopo appena un lustro la ben più lunga età delle rivoluzioni. Il fenomeno storico ancora successivo sarebbe stato il Nazionalismo: i popoli europei, ottenuta la loro libertà, sarebbero entrati in attrito, come un tempo avevano fatto le grandi monarchie assolutistiche, e le loro rivalità sarebbero poi sfociate nel primo conflitto mondiale.

Il termine "Risorgimento", sebbene non del tutto rispondente alla realtà storica, indica che qualcosa riprende coscienza di sé, tornando di diritto a possedere una propria dignità perduta. Nel nostro caso, si tratta della rinascita di nazioni che, seppur comprendenti realtà etniche e storiche ben definite, si trovavano, in una data epoca, subordinate ad altre potenze straniere. Il concetto di "risorgimento" implica, naturalmente, quello di una precedente "caduta" e questa, per quanto riguarda la situazione italiana, si verificò soprattutto nel secolo XVI, quando gli Stati della Penisola, a causa della loro debolezza e delle loro divisioni, divennero preda dell'imperialismo asburgico e francese.

La campagna del 1859

 

Fra quelli europei, quello italiano fu il più lento e il più difficile ad attuarsi, a causa delle particolari condizioni di frammentazione geografica e politica e della delicata questione religiosa e di rapporti internazionali posta dalla presenza sul suolo italiano dello Stato Pontificio. In compenso, però, quello italiano fu il più ricco di contenuti: nella definizione di Giuseppe Mazzini, infatti, il Risorgimento comprendeva tre obiettivi: l'unità della nazione, la sua indipendenza e la libertà dopo il riscatto, ovvero la costituzione di uno Stato repubblicano e democratico.
In altri Risorgimenti, invece era presente solo l'elemento dell'indipendenza, come ad esempio in quello belga, o dell'unità, come in quello tedesco; soltanto nella peculiare situazione italiana troviamo riunite, fin nel pensiero del suo primo teorico, un così ampio spettro di qualificazioni e di obiettivi politici.

Dal punto di vista storico, le tappe indicate da Mazzini si sono realizzate nel corso di più di un secolo di vicende:l'unità nel marzo del 1861; la totale indipendenza nel novembre del 1918; la libertà nel giugno del 1946 e nel gennaio del 1948, con il referendum istituzionale prima, e poi con l'entrata in vigore dell'attuale Costituzione della Repubblica. La lucida, quasi profetica analisi mazziniana, era però estremamente carente dal punto di vista dell'individuazione degli strumenti necessari per la sua attuazione.
Mazzini, infatti, riteneva che il Risorgimento potesse realizzarsi soltanto attraverso una rivoluzione popolare, volta contemporaneamente anche in senso democratico:l'Italia doveva essere liberata al tempo stesso dai tiranni stranieri e da quelli locali. Tale visione mancava di concretezza e di pragmatismo, in quanto non teneva conto del fatto che il Risorgimento di una nazione, dal momento che altera inevitabilmente degli equilibri politici, è anche una questione diplomatica internazionale che richiede la paziente tessitura di alleanze.
Mazzini non comprendeva neppure che, per il riscatto di un popolo e la nascita di un nuovo Stato, non sarebbero state sufficienti barricate e martiri, ma serbbero occorsi capitali, eserciti e la convergenza degli interessi di almeno una parte delle potenze egemoni in Europa.

L'Italia si estende su una penisola che divide il Mediterraneo in due bacini, ed è dotata, dunque, di un'importanza strategica e geografica unica. Questa caratteristica, che aveva costituito il motivo della disgrazia politica italiana nei secoli passati, se abilmente sfruttata, avrebbe potuto invece contribuire ad instaurare rapporti diplomatici favorevoli con qualche potente nazione europea.
A comprendere che Inghilterra e Francia potevano essere utilizzate per il Risorgimento nazionale, e che la sua guida doveva essere affidata ad uno Stato con un esercito piuttosto che alla rivoluzione di popolo; a scorgere del Risorgimento il volto prosaico e pragmatico, al di là di quello poetico e romantico, non poteva che essere uno statista, non un ideologo:un primo ministro della caratura di Camillo Benso, conte di Cavour.
Dal punto di vista politico, dunque, il Risorgimento si sviluppò attraverso il contributo dinamico sia delle forze liberal-moderate sia di quelle repubblicane, poste in fiera rivalità fra di loro. Sotto l'aspetto militare le prime espressero la loro azione per mezzo degli eserciti monarchici, le seconde apportarono il generoso contributo delle forze irregolari dei volontari. E' giusto ricordare, tuttavia, che la maggior parte del popolo italiano rimase passiva, o comunque, seguì e vicende risorgimentali con brevi entusiasmi fugaci.

Alla vigilia della Seconda guerra d'indipendenza
Alla conferenza di pace di Parigi del 6 maggio 1856, successiva alla Guerra di Crimea cui avevano partecipato anche i Piemontesi(battaglia sul fiume Cernaia), il conte di Cavour riuscì a porre la questione patriottica italiana, ottenendo un sia pur labile incoraggiamento da Napoleone III. Nei due anni successivi, pur tra ripensamenti e diffidenze, l'Imperatore francese avrebbe avvicinato sempre più le proprie posizioni a quelle dei Savoia, grazie anche alla "missione patriottica" brillantemente compiuta dalla bella e spregiudicata contessa di Castiglione su esplicito suggerimento di Cavour. Sembra che anche Costantino Nigra, allora in veste diplomatica, compisse con successo un'analoga "opera di convincimento" presso l'Imperatrice di Francia: ma se dell'Impresa della Castiglione siamo certi, di quella del Nigra non possediamo prove sicure, in quanto prima di morire fece bruciare tutti i suoi incartamenti.

Paradossalmente, anche l'attentatore alla vita di Napoleone III, l'anarchico Felice Orsini, contribuì a questo clima di seduzione, grazie alla dignitosa e "maschia bellezza" che seppe ostentare durante il processo. L'Imperatrice ne restò infatuata e commossa e l'Imperatore stesso ordinò la pubblicazione della lettera che l'Orsini gli aveva inviato prima di salire il patibolo, chiedendo alla Francia di restituire all'Italia "l'indipendenza che i suoi figli hanno perduto per mano dei francesi"(Orsini si riferiva ovviamente ai tempi lontani di Carlo VIII).

Di ritorno da Parigi, ove aveva partecipato al tavolo della pace per la Crimea, Cavour poté pronunciare alla Camera un discorso che suscitò in tutta la Penisola un'eco di entusiasmo enorme: "Per la prima volta nella nostra storia, la questione italiana è stata portata e discussa dinanzi ad un congresso europeo, al tribunale della pubblica opinione. La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte: ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspetteremo l'esito finale".

Su un piano sostanziale, la partecipazione sabauda alla Guerra di Crimea non aveva comportato alcun vantaggio ma la pubblica opinione ora comprendeva che qualcosa di molto più convincente delle barricate era in movimento; intravvedendo anche che lo Stato sabaudo e con esso la via monarchico-moderata, più che quella rivoluzionaria, avrebbero potuto rispondere concretamente alle aspirazioni patriottiche degli Italiani. Di ciò si ebbe assoluta certezza solo nel 1858, quando, nell'incontro svoltosi a Plombières tra Napoleone III e Cavour, furono stabiliti i termini di un accordo militare che prevedeva, fra i vari punti, che l'esercito francese sarebbe intervenuto in Italia a fianco del Piemonte qualora questo fosse stato aggredito dall'Austria; in tal caso, il comando supremo dei due eserciti sarebbe spettato a Napoleone III.

Poiché le condizioni di pace della precedente guerra contro l'Austria vietavano, tra l'altro, al Piemonte la ricostituzione dell'esercito, Cavour iniziò a mobilitare truppe in segreto e per gradi, accampando i più svariati pretesti. Egli sperava in questo modo di provocare l'aggressione austriaca. Inoltre, Garibaldi venne chiamato a colloquio e assicurato "al guinzaglio", mentre il famoso discorso del "grido di dolore"fece affluire in Piemonte da tutta Italia circa 29.000 volontari, subito inquadrati nell'esercito regolare e nella brigata "Cacciatori delle Alpi", posta sotto il comando di Garibaldi. Fortuna volle che il giovane ed altezzoso Imperatore austriaco, Francesco Giuseppe, reagisse alle provocazioni della "pulce piemontesi" con ultimatum che Massimo d'Azeglio non esitò a definire "uno di quei terni al lotto che capitano una volta in un secolo". La parola così passava agli eserciti.

L'approccio
Dopo la sanguinosa battaglia di Magenta (4 giugno) che aveva provocato la caduta di Milanonelle mani dei franco-piemontesi, il responsabile austriaco del fronte, il "lento" maresciallo Giulay, era stato sollevato dal'incarico ed il ventinovenne imperatore Francesco Giuseppe, coadiuvato dal Capo di Stato Maggiore Hess, aveva assunto personalmente la condotta della guerra in Lombardia, malgrado la nomina del conte Schilk di Bassano e Weisskirchen a comandante in capo del fronte lombardo. La notizia, dimostratasi poi falsa, di un imminente sbarco sulle coste adriatiche di 60.000 soldati francesi con il presunto obiettivo di attaccare alle spalle gli Austriaci da oriente, convinse Francesco Giuseppe a sospendere la ritirata e riattraversare il Mincio tra il 22 e 23 giugno, per battere le forze coalizzate nemiche prima di questo temuto sbarco.

L'esercito austriaco, dunque, attraversò il Mincio diviso in due Armate: a nord la 2° Armata, composta dall'VIII Corpo del Generale Benedek, dal V, dal I e dal VII Corpo; a sud la 1° Armata, composta dal IX, dal III e dall'XI Corpo, il cui obiettivo era Carpenedolo, sul fiume Chiese. Nei piani dello Stato Maggiore austriaco, la 2° Armata doveva tenere inchiodato il nemico, mentre la 1° aveva il compito di aggirarlo, avvantaggiata dalla manovra di avanzata su terreno pianeggiante. Frattanto, il 24 Giugno, i Piemontesi avevano raggiunto a nord il territorio di Pozzolengo; il I Corpo d'Armata francese (Baraguey e d'Hilliers), con la Guardia imperiale e Napoleone, erano in prossimità di Solferino, il II (MacMahon), il IV (Niel) ed il III Corpo d'Armata (Canrobert) gravitavano su Medole. Le cavallerie in ricognizione il giorno precedente avevano scorto un gran movimento di truppe nemiche sul Mincio, ma Napoleone aveva pensato che si trattasse soltanto di robuste retroguardie e sicuramente non di un movimento di avvicinamento in grande stile. D'altra parte neppure l'austriaco Hess riteneva di trovarsi di fronte l'intero esercito alleato, rimanendo convinto di dover affrontare soltanto truppe d'avanguardia.

 

La campagna del 1859

 

A san Martino e Solferino, insomma, entrambre gli schieramenti erano in marcia e nessuno dei due si trovava disposto in ordine di battaglia, tanto che i sanguinosissimi scontri si sarebbero accesi all'improvviso, come sempre accade nelle battaglie d'incontro, senza, quindi, una preventiva pianificazione tattica. Al levar del sole, si verificò l'incontro tra il I Corpo francese e il V austriaco. Alle ore 6 i francesi ebbero l'amara sorpresa di trovare la collina di Solferino occupata dal nemico; così come, nello stesso momento, i Piemontesi trovavano inaspettatamente occupata dagli Austriaci a San Martino, circa 6 chilometri più a nord. Lo sconcerto coglieva, naturalmente, anche gli Austriaci, convinti che l'esercito degli alleati fosse ancora sul fiume Chiese, almeno una dozzina di chilometri più a ovest. In una tale sorta di commedia degli equivoci, restava da vedere chi per primo si sarebbe ripreso dalla beffa che il destino aveva voluto giocare.

Le forze in campo
Sul campo si trovavano complessivamente 263.000 uomini con 773 cannoni: soltanto durante la Prima Guerra Mondiale sarebbero state superate in Italia cifre così cospicue di combattenti in un solo scontro. Nel loro settore gli Italiani impegnarono 34.000 uomini con 94 cannoni, mentre gli Austriaci disponevano di 32.000 soldati e 56 pezzi, con il vantaggio però di occupare forti posizioni sulle alture, che l'esercito piemontese avrebbe dovuto necessariamente espugnare, conquistandole palmo a palmo.

Sull'intero fronte i Francesi, invece, schieravano circa 100.000 uomini contro 95.000 Austriaci. Questi ultimi erano notevolmente superiori nell'artiglieria, poiché disponevano di circa 350 pezzi contro i 250 dei francesi, i quali però godevano di due notevoli vantaggi che si sarebbero rivelati poi, risolutivi. Anzitutto, Napoleone III era presente sul luogo dello scontro e avrebbe potuto dirigerlo personalmente dal monte Fienile, quasi sulla linea del fronte, mentre Francesco Giuseppe ed il generale Hess si trovavano in posizione molto più arretrata rispetto alla linea del fronte, nella località del Volta, e non sarebbero riusciti quindi, ad avere un quadro altrettanto chiaro della situazione tattica. In secondo luogo, aggregata al I Corpo francese si trovava in riserva la Guardia imperiale francese che, conservando la tradizione di Napoleone I, era costituita da truppe sceltissime, le migliori che si trovassero in Italia.

Al contrario, gli Austriaci, come avrebbe osservato il generale prussiano Moltke nel commentare Solferino, non disponevano di alcuna riserva da poter impiegare in battaglia al momento giusto. Dal suo osservatorio, dunque, Napoleone III intuì immediatamente la chiave della battaglia: la collina di Solferino era il perno dello schieramento nemico, e, sfondando in quel settore, egli avrebbe potuto mettere in crisi l'intero esercito austriaco. Per una curiosa coincidenza, la situazione sul terreno non era dissimile da quella affrontata dal suo illustre zio as Austerlitz. In questo caso, però, il I Corpo francese non poteva ricevere rinforzi perchè l'alleato piemontese, ubicato ala sua sinistra , si trovava già impegnato in combattimento contro l'VIII Corpo d'Armata austriaco a San Martino; inoltre, due delle cinque brigate del V Corpo francese erano impegnate alla Madonna della Scoperta e, infine, Napoleone III non poteva sperare neppure nell'IV Corpo di Niel alla sua destra, che, già si trovava in difficoltà con il III e il IX Corpo asburgico e, a sua volta, aveva bisogno del sostegno del II Corpo d'Armata di MacMahon e del III di Canrobert.

Il I Corpo, pertanto, avrebbe dovuto battersi da solo, in un attacco estremamente richioso, contro il parere del generale Baraguey d'Hilliers. Napoleone III, perfettamente cosciente della responsabilità che si assumeva da solo e in prima persona, ma, del resto, lucidamente convinto che nessun'altra condotta gli si presentasse da scegliere, trepidante, diede l'ordine d'attacco.

Dalle Alpi alla Sicilia
Alle cinque divisioni "regolari" schierate dal Piemonteper la campagna del 1859, si aggiungeva la brigata dei cacciatori delle Alpi, composta da 3.200 uomini, esclusivamente volontari, organizzata in tre reggimenti di due battaglioni ciascuno, equipaggiata con uniforme piemontese e posta sotto il comando di Giuseppe Garibaldi. Questo contingente costituisce l'espressione concreta del segno di una rinnovata intesa, raggiunta grazie a Cavour, fra le fazioni irredentiste monarchiche e quelle degli estremisti repubblicani "mangiapreti".

I Cacciatori, durante la campagna del 1859, arrivarono a 10 km da Trento, procurando a Garibaldi una grande popolarità, ma dopo l'armistizio di Villafranca e la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, un certo raffreddamento dei rapporti tra Casa Savoia e il nizzardo Garibaldi fu ovviamente inevitabile.

Si materializzò così, anche in forza delle argomentazioni del siciliano Crispi, il progetto di spedizione in Sicilia che seppur mosso al motto di "Italia e Vittorio Emanuele", avrebbe potuto dar luogo a complicazioni gravi, procurando a Garibaldi una fama eccessiva. Cavour quindi, cercò, senza successo, di ostacolare l'impresa dei Mille, che però, in realtà, avrebbe senza dubbio propiziato, con un modesto spargimento di sangue, l'unificazione Italiana sotto la corona sabauda.

La battaglia di Solferino
La collina di Solferino inizialmente era difesa da due brigate austriache e da quattro battaglionidi Kaiserjager ("Cacciatori dell'Imperatore"), arroccati su tre punti chiave: le case del paese, il cimitero e il vecchio castello. Per tutta la mattinata, sino a mezzogiorno, gli Asburgici respinsero a valle ben quattro attacchi alla baionetta delle "furie francesi" ed invocarono dal comando l'intervento di rinforzi per sferrare un contrattacco che avrebbe avuto buone probabilità di successo. Il comando supremo austriaco, nel frattempo trasferitosi da Volta a Cavriana, distante solamente pochi chilometri da Solferino, non poteva però rendersi conto in tempo reale delle fasi di battaglia.

A dire il vero, l'ottantenne maresciallo Nugent era l'unico, in tutto l'entourage di Francesco Giuseppe, che consigliasse di far affluire a Solferino massiccie riserve, ma l'età giocava a suo sfavore, e le sue parole non vennero ascoltate. In conclusione, al V Corpo arroccato a Solferino non giunsero gli aiuti richiesti a Benedeck, tanto impegnato dai Piemontesi a San Martino che credeva di avere addirittura dieci brigate sarde, anziché quattro, contrapposte alle sue sei. Qualche rinforzo austriaco, concesso per di più con riluttanza, giunse solo dal I Corpo, dietro al V, ma questo contingente si rivelò comunque troppo debole.

 

Fase finale della battaglia di Solferino

 

Alle 12.00 Napoleone III prese la decisione di far intervenire nella battaglia la Guardia imperiale francese, rinforzata anche con due brigate della divisione Forey: quest'ordine costituiva quella che Napoleone I, cinquant'anni prima, avrebbe chiamato la "dannata decisione". 5.000 dei migliori soldati ancora freschi, si avventarono contro gli esausti difensori austriaci di Solferino. Solo a questo punto il Comando supremo austriaco si rese conto della grave lacuna di non aver disposto una riserva che potesse gettare nella mischia al momento opportuno: Benedeck non era in condizione di distogliere neppure un uomo da San Martino e, a sud, anche il III e IX Corpo si trovavano, adesso, energicamente impegnati da violenti attacchi lanciati da MacMahon, Niel e Canrobert.

Alle 14, seppur decimate dall'artiglieria, le truppe francesi conquistavano di slancio le posizioni difensive sulla collina. Le due brigate della divisione Forey avevano assaltato alla baionetta il cimitero, la Guardia aveva raggiunto il castello, e la pur provata divisione Bazaine era riuscita a ripulire il paese dagli Austriaci.

Alle 17 Solferino si trovava in mano dei francesi, insieme ad un totale di 1.500 prigionieri asburgici, 14 cannoni e 2 bandiere nemiche. A sud, intanto, MacMahon aveva preso San Cassiano, scacciandone il VII Corpo di Zobel, Canrobert avanzava da Medole e Niel occupava Guidizzolo, sloggiando il III Corpo di Schwarzenberg e l'XI Corpo di Veigl. Soltanto verso le 15, Francesco Giuseppe si risolse a lasciare Cavriana per rincuorare le truppe con la sua presenza e con la celebre frase "Avanti miei soldati! Anch'io ho moglie e figli!". Ma era ormai troppo tardi e il cedimento della 1° Armata sarebbe stato inevitabile.

Più o meno alla stessa ora, anche Vittorio Emanuele, a San Martino, rincuorava i propri soldati. Un'ora dopo, il Comando Supremo austriaco fu costretto a sgomberare da Cavriana e, alle ore 17.30, tutto il fronte meridionale austriaco si ritirava in perfetto ordine. Il fortunale estivo che si abatté poco dopo, sull'intera zona e l'urgente necessità di riposo per l'esercito francese, avrebbero impedito a quest'ultimo l'inseguimento degli austriaci. A nord si sarebbe ancora combattuto ferocemente sulla collina di San Martino e alla Madonna della Scoperta fino alle otto di sera, ma per gli Austriaci la battaglia era ormai perduta.

La battaglia di San Martino
San Martino è un'ampia altura nei pressi di Peschiera e del Lago di Garda, circondata da ovest e da nord da ripide scarpate, con parecchi casolari e fattorie adatti ad essere trasformati in centri di resistenza fortificata. I Piemontesi naturalmente ignoravano che durante la notte San Martino fosse stata occupata da consistenti forze nemiche: così alle 7 del mattino poco più di 1.000 uomini della 5° divisione Cucchiari, in avanscoperta agli ordini del Tenente Colonnello Cadorna, il futuro generale di Porta Pia, si apprestavano a risalire la china, quando furono attaccati da una divisione austriaca, che li ricacciò sino alla non distante ferrovia.

Intervenuta in loro appoggio la brigata Cuneo, con 3.500 uomini e 4 cannoni, sembrò, ad un tratto, che questa riuscisse a conquistare il colle, ma fu, invece, a sua volta rigettata da 7.000 imperiali appoggiati da 29 pezzi, e dovette riunirsi, scompaginata, ai reparti di Cadorna. Alle 11 giunse a San Martino la brigata Casale, che, nonostante si fosse gettata risolutamente all'attacco, venne sopraffatta da forze fresche nemiche. Queste ultime, a loro volta, vennero ricacciate dal reggimento Acqui, appena sopraggiunto, che lentamente ma inesorabilmente procedva risalendo le pendici.

Il generale Benedeck, il quale sottovalutata la capacità di resistenza della fanteria sarda, fece intervenire allora due brigate, schierandole alle spalle dei Piemontesi impegnati sul crinale di San Martino per prenderli tra due fuochi. L'allarmante situazione venutasi a creare spinse il Capo di Stato Maggiore Enrico Morozzo della Rocca, d'accordo con il Re e Lamarmora, a richiamare la riserva costituita dalla brigata Aosta, alla quale si aggiungeva una certa porzione della divisione Fanti. La riserva si riunì alle forze della brigata Cuneo e di Cadorna. Sulla destra si schierò la cavalleria, sulla sinistra l'artiglieria, ed al centro si dispose la fanteria, forte di 15.000 uomini.

 

Le fasi della battaglia di San Martino

 

Nella calura afosa del primo pomeriggio intervenne lo stesso Vittorio Emanuele ad incoraggiare le truppe e impartì l'ordine, rimasto celebre, di liberarsi del peso degli zaini (circa 15 chilogrammi) prima di affrontare l'ardua salita disposizione che contravveniva al ferreo regolamento d'allora. Si racconta che anche il Resi rivolgesse in dialetto ai suoi soldati dicendo loro «O prendiamo San Martino o facciamo San Martino!», alludendo all'usanza piemontese di traslocare in occasione della festività di quel santo. Tali parole suonarono come monito estremo agli uomini che si preparavano all'ultimo attacco possibile, in alternativa alla ritirata generale e all'onta della disfatta.

L'assalto, effettuato con estremo coraggio, fu però carente nell'organizzazione, per ammissione dello Stato Maggiore stesso, e privo di compattezza. La brigata Pinerolo aveva appena conquistato la cascina Controcania, quando si scatenò un nubifragio estivo che compromise seriamente la manovrabilità dell'intero schieramento italiano. Alle 19, si raccolsero tutte le forze per l'ultimo disperato tentativo: quattro reggimenti e due brigate, 12.000 uomini complessivamente, ripresero ad avanzare sotto il fuoco di 18.000 Austriaci. Alla fine, 18 pezzi di artiglieria del tenente colonnello Ricotti riuscirono a scompaginare il fianco nemico, sul quale, allora, si avventarono i cavalleggeri del capitano Avogadro, insieme a due brigate appena sopraggiunte. Alle 20, il colle era in mano ai Piemontesi; il generale Benedeck, sconvolto dalla notizia della contemporanea sconfitta austriaca a Solferino da parte dei francesi, decise di abbandonare anche le posizioni alla Madonna della Scoperta, ritirandosi oltre il Mincio con il resto delle sue truppe.

Le conseguenze storiche e il bilancio finale
Il periodo tra l'estate del 1859 e quella del 1860 può a ragione essere definito l'annus mirabilis del Risorgimento italiano, malgrado il voltafaccia di Napoleone III con l'armistizio di Villafranca. Da San Martino e Solferino sarebbero scaturite la liberazione e l'annessione della Lombardia al Piemonte, nonchè i plebisciti con cui le popolazioni sottomesse ai ducati dell'Italia settentrionale ed alle legazioni pontificie si sarebbero espressi per l'unificazione. Nel maggio del 1860 partì la spedizione dei Mille che, con un impresa militare al limite dell'impossibile, determinò la scomparsa del Regno delle due Sicilie.

Nel settembre del 1860 l'abilità diplomatica di Cavour permise di scorporare le Marche e l'Umbria dallo Stato della Chiesa. In seguito ai plebisciti e all'annessione delle regioni dell'Italia centro-meridionale, venne dichiarata all'Europa e al mondo intero la nascita del Regno d'Italia, dopo tredici secoli in cui la nazione era stata divisa e soggiogata dalle potenze straniere.

L'ultimo personaggio italiano a fregiarsi del titolo di Re d'Italia prima di Vittorio Emanuele II era stato Arduino d'Ivrea, deposto dall'imperatore Enrico II nel 1014.

Questo il bilancio conclusivo delle perdite subite nelle Battaglie di Solferino e San Martino:

Schermata 2020 08 31 alle 08.44.58

 

E se avessero vinto gli Austriaci?
L'incerto e volubile Napoleone III, che da vincitore si affrettò a offrire l'armistizio, da sconfitto avrebbe a maggior ragione cercato una pace che non intaccasse troppo il suo prestigio e L'Austria lo avrebbe pobabilmente assecondato. Da parte sua Vittorio Emanuele non avrebbe potuto continuare la guerra da solo. Di conseguenza, la pace avrebbe posto probabilmente il Piemonte sotto protettorato francese.

Peraltro la disillusione, unita alle dimissioni di Cavour ed alla sua probabile e definitiva scomparsa dalla scena politica, avrebbe spinto il movimento patriottico nelle braccia di Mazzini e delle sue vaneggianti teorizzazioni sulla guerra di popolo. In questo quadro di debolezza, isolamento e disordine italiano , l'Austria avrebbe continuato a dominare per ancora molto tempo.

 

La nascita della Croce Rossa
Magenta, Solferino e San Martino furono battaglie particolarmente orribili per l'assenza di soccorso medico. A San Martino, ad esempio, gli Italiani lamentarono la perdita di 869 morti, 3982 feriti e 774 dispersi e, solamente grazie agli ottimi ospedali piemontesi ed ex-asburgici, i soldati deceduti in seguito alle ferite furono poco meno di 400.

Si dice che, dalla parte austriaca, Francesco Giuseppe alla vista del macello di Solferino esclamasse: «Meglio perdere una provincia intera e non rivedere mai più una carneficina del genere !».

Un filantropo ginevrino, Henri Durant, che già a Magenta aveva tentato di organizzare il soccorso ai feriti, al sentimento di orrore seppe unire anche un proposito concreto: dopo soli quattro anni a Ginevra verrà sottoscritta dalle potenze europee una prima convenzione dalla quale sarebbe poi nata la Croce Rossa Internazionale.

 

Bibliografia:
AA. VV., La Storia - 11: Risorgimento e rivoluzioni nazionali, UTET - De Agostini, 2004, per "La Biblioteca di Repubblica";
Livio Agostini, Piero Pastoretto, Le grandi Battaglie della Storia, Viviani Editore, Il Giornale, 1999

Fonte: arsbellica

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 

 

 

 

90 curtatone montanara cropped 96
Fonte: quinewspisa
 
La “sconfitta vittoriosa” (1) di Curtatone e Montanara, la cui durata fu solo di poche ore, ha avuto sin dall’inizio un forte impatto nella popolazione, diventando di fatto un cardine della pedagogia patriottica toscana (2). Il 29 maggio, come ha messo in luce Costantino Cipolla, diventò una data emblematica della storia della formazione del paese, perché, in questo giorno.
 
Un esercito, potente, classico, strutturato, addestrato, solido, sempre in azione, si scontrò con un esercito composto per il 50% da volontari senza alcuna esperienza di guerra; perché un mondo di nobili si oppose o assalì un mondo già di borghesi; […] perché il divario fra i belligeranti fu enorme sul piano delle forze in campo; perché, come è facile provare, il battaglione universitario toscano, che andava a combattere con la sua spavalda gioventù e con la sua élite culturale contro lo straniero usurpatore è rimasto nella memoria collettiva della nazione; perché la battaglia, proprio forse per la presenza di tanti intellettuali, fu molto raccontata, descritta, testimoniata, interpretata; perché fu combattuta per conto terzi – i piemontesi-, pur non avendo da terzi alcun supporti; perché pur nella sconfitta, essa evitò agli austriaci di mettere in atto il loro piano di aggiramento dell’esercito sabaudo; […] perché il volontariato che qui si espresse fu puro, senza carismi trascinanti, extra-territoriale e coprì quasi tutto il centro e il sud (Cipolla 2004a, 18).
 
La battaglia di Curtatone e Montanara riassunse in sé una molteplicità di significati: attorno a questa data si concentrarono alcune “figure profonde” (3) – come il lutto, l’eroismo e il martirio –, che furono rielaborate in maniera originale grazie all’intreccio con il substrato mitico e simbolico che contraddistinse la battaglia stessa.
Il primo di questi “aggregati tematici” ruota attorno al concetto di epicità. Lo scontro tra i volontari toscani e le truppe austriache fu presentato già dai contemporanei come una battaglia epica, che trovava i suoi naturali riferimenti nel mondo classico e nel mondo cattolico. Ancora nel periodo giolittiano i riferimenti religiosi della giornata erano molto forti: il 29 maggio era festeggiato prevalentemente con una funzione a suffragio dei caduti e, sebbene non si trovassero più frequentemente i riferimenti alla “crociata di civiltà” (4), ancora si poteva leggere sul settimanale “Stella Cattolica” come il nome di Curtatone e Montanara rimandasse all’“amor di patria, alla pietà dei defunti, alla grandezza d’Italia, alla maestà del rito e alla santità di Dio” (5).

Pare invece che il riferimento all’epicità del mondo classico permanesse più saldamente fino all’inizio del XX secolo. La battaglia, che provocò un forte impatto emotivo nella popolazione fiorentina, fu da subito assimilata al sacrificio di Leonida e dei suoi trecento spartani al passo delle Termopili (6).
 
Curtatone e Montanara diveniva così l’emblema dell’avanguardia del rinnovamento in atto nel paese; non solo, tramite questo processo di assimilazione il 29 maggio diventava “un modello di lotta della civiltà contro la barbarie, della libertà contro il dispotismo, dei pochi contro i molti, e ancor più del sacrificio volontario, della gioventù offerta per il bene della patria” (De Laugier 1854, 131). La familiarità del mito fece sì che la battaglia continuasse a rappresentare, nel corso degli anni, un punto fondamentale della storia del Risorgimento e un motivo d’orgoglio per i cittadini di Firenze. Il riferimento all’epicità classica, con il conseguente portato di valori etici e morali, proseguì durante i decenni successivi a ulteriore riprova di quanto esso fosse stato assimilato dalla popolazione.

Così, sul “Nuovo Giornale” del 1907 Maffio Maffi celebrava i martiri di Curtatone e Montanara ricordando come la loro gloria, al pari di quella degli Spartani, rimanesse immutata di fronte ai grandi cambiamenti dell’epoca.
 
Attraverso le generazioni, gli anni, i mutamenti di idee, i grandi fatti eroici della nazione e della stirpe non si dimenticano. Muore la civiltà ellenica, dileguarsi tra le ombre del passato la Gloria dello Spirito Greco, ma vivono di vita eterna, oltre che nel canto di Simonide, anche nell’immaginazione e nel cuore dei popoli, i difensori del passo delle Termopili, dell’invasione della barbarie, della ferocia, della tirannide. Non morrà in Italia il ricordo dei difensori toscani che con animo non impari a quello del leggendario manipolo lacedemone, apposero i loro petti alle orde avanzanti tra Curtatone e montanara sui campi italiani a ripristinare il dominio del giogo feroce e della tirannide austriaca. Oggi, l’Italia, la Toscana e Firenze, in quella regione ideale del tempo, della storia e della gloria che il tempio di Santa Croce, innalzano a quel ricordo i pensieri più puri e dedicano a quella gloria il fiore delle loro speranze. Ma che la speranza non sia vana. E che i cuori, nella speranza, non siano fiacchi, ma vivi. L’Italia deve trovare negli eroismi del passato, non un pretesto soltanto a cerimonie ufficiali, bensì il coraggio, la dignità e la forza di non essere indegna di quelli né per il presente, né per l’avvenire (XXIX Maggio, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1907).

Il riferimento al mito del mondo classico fu riproposto in modo consistente anche nel 1908, anno del sessantesimo anniversario della battaglia. L’assimilazione tra Curtatone e le Termopili apparve in molti giornali e nei numeri unici editi per l’occasione, il che porterebbe a pensare ad un mito largamente condiviso e senza una particolare connotazione politica. Se “La Nazione” (Dopo sessant’anni, 29 maggio 1908), ricordando i morti in battaglia parlava di “spartano eroismo”, era ancora “Il Nuovo Giornale” a fare un largo uso della comparazione ideale. Il quotidiano, in un lungo editoriale, poneva le “Termopili toscane” come l’apice di un percorso storico in cui la saggezza, il coraggio e l’anelito alla libertà delle generazioni fiorentine precedenti trovavano finalmente piena attuazione.
 
Popol nostro che trai origine e rechi conforme geniale sottigliezza di spiriti della prima saggezza etrusca, feconda, durevole forza dalla solenne austera imperiosità romana, agil cortesia e santo ardore di libertà, dalla sonora, operosa primavera dell’Italico comune, della ricca e bellissima opulenza delle Repubbliche superbe – popol nostro, in alto le anime e i cuori, dalla votiva odierna cerimonia. […] Nella gioia selvaggia e deserta delle Termopili, là dove la schiera immortale condotta da Leonida si fece intera trucidare, prima di lasciar passo alle soverchianti forze straniere, alle ognor rinnovate falangi Persiane, sorse una stella effigiata da una rude figura di guerriero. E nella sua base, iscrizione degna delle gesta di chi l’aveva compiuta si leggevano sol queste poche, ma sublimi parole: O passeggero, tu di a Sparta, che noi qui siamo tutti morti per obbedire alle sue leggi”. Se una simile sorgesse sui campi di Curtatone e Montanara essa potrebbe con egual gloria, con più alto valore spirituale ammonire: “Noi qui morimmo non per altrui, e fosse pur cittadina legge; ma per adempiere il nostro proprio destino; perché più nobile e puro battesimo di sangue non potesse avere la sorte nuova della patria – la fortuna d’Italia!” (29 maggio 1948, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1908).

Sempre nel 1908 un gruppo di studenti fiorentini pubblicò un numero unico sulla battaglia di Curtatone e Montanara che vide la collaborazione di alcuni tra i più importanti intellettuali della città, come Pietro Barbéra, Vamba, Renato Fucini, Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana e Domenico Zanichelli (7). Nell’introduzione di Giuseppe Rondoni i riferimenti all’eroismo classico erano molteplici e non si fermavano solo all’accostamento con le Termopili. Nella prefazione al volume egli recuperava un altro esempio – quello della battaglia di Maratona – che pareva testimoniare quanto il mito del piccolo esercito di cittadini liberi, che combatte contro un esercito più numeroso, al soldo di un tiranno, per difendere la libertà, fosse stato largamente utilizzato. Nello spiegare le motivazioni della pubblicazione egli scriveva che
 
Quest’anno una schiera di giovani, che negli studi cercano non solo la cultura della mente, ma ispirazioni ed argomento ad ogni nobile intrapresa, vollero con questo libretto alla commemorazione augurare dare più valido impulso e significato, sia come pegno di gratitudine e di conforto alla schiera superstite, ahimè sempre più scarsa, dei nostri, emuli di Maratona, sia per eccitare e far palesi ad un tempo gli ideali donde traggono gli auspici per le battaglie ella vita, dell’avvenire e del progresso (Rondoni 1908, 5). 
 
Poche pagine oltre, Rondoni utilizzava anche il solito accostamento con il mito delle Termopili; tuttavia, nel farlo, apriva un interrogativo di fondo sulle differenze motivazionali tra i due eserciti:
 
La epica pugna di Curtatone e Montanara viene definita le toscane Termopili; ma il paragone solo in parte è giusto, dacché se gli Spartani caddero devoti alle patrie leggi, è pur vero che queste nel ferreo rigore dello antico stato riserbavano ai superstiti della sconfitta la schiavitù e la vergogna; una vita peggiore di mille morti. Onde il patriottismo, l’eroismo, era per quei guerrieri un dovere. Invece chi obbligava i nostri volontari ignari di milizia? […] Il desiderio della patria, che tendeva loro le braccia, l’invase coll’impeto del primo amore, e, senza calcoli di gretto utilitarismo si immolarono a lei, esultanti pel dovere compiuto fino al martirio, e perciò grandi e meritevoli quanto gli antichi eroi, che li avranno accolti riverenti ed ammirati nel fulgido coro (8)

 Gli eroi di cui si parla nel testo sono giovani che accanto alle virtù classiche e alle passioni romantiche hanno già delle caratteristiche moderne, come il volontarismo e l’impegno civico. Questo passaggio, oltre a mostrare un parziale cambiamento nella percezione del personaggio eroico, pare anche testimoniare il suo carattere polisemantico e sincretico (Mascilli Migliorini 1984) che lo rende “una figura eclettica e malleabile che, come un racconto, può essere sottoposto a numerosi aggiornamenti e adattamenti” (Riall 2008, 43).

Nello specifico, i patrioti che si ricordavano a Firenze nel 1908 avevano ancora alcune caratteristiche degli eroi omerici, ma erano già proiettati “nel quadro di una dimensione borghese, nella quale l’impostazione eroica si democratizza e slarga i suoi confini” (Tobia 2008, 47). Sebbene si celebrasse una battaglia corale, questa appariva composta da un coro di singole voci; non si commemorava più un generico battaglione, ma un insieme di giovani che volontariamente avevano deciso di combattere per la patria.

La libera decisione di partire per la guerra appariva quindi come una delle basi del secondo aggregato tematico collegato alla memoria storica di Curtatone e Montanara: l’esemplarità dei giovani combattenti. Il volontarismo, inteso come “una delle più significative esperienze del processo di unificazione nazionale italiano e una delle componenti del mito dell’esperienza di guerra” (9), offriva un nuovo modello di impegno civico ad un’ampia parte della borghesia italiana e contribuiva a formare un nuovo modello maschile per il popolo italiano che fu poi ampiamente diffuso tramite libri, memorie e commemorazioni.
Nel caso specifico delle onoranze ai caduti del 29 maggio, il volontarismo era assunto come un valore, come un “insegnamento di idealità interessata, di moralità portata all’estremo, di un impegno vocato al disinteresse per sé” (Cipolla 2004b, (12).

La partecipazione spontanea al conflitto, tuttavia, era solo uno dei motivi dell’esemplarità dei combattenti. Un’altra caratteristica che fu spesso enfatizzata nel ricordo dei caduti era l’ambito di provenienza di parte dei volontari. Tra le formazioni impegnate nella battaglia del 29 maggio, un ruolo simbolico molto importante fu assunto da quella “élite politico-socio-culturale costituita da alcuni grandi scienziati (Mossotti, Corticelli, Pilla ecc…) e da molti dei loro ‘scolari’” (Calzolari 2004, 9). Il battaglione universitario toscano acquisì nel tempo una grande fama in ambienti politici e militari al punto di ricevere, nel 1910, la medaglia d’argento al valor militare. Gli studenti e i professori delle università di Pisa e Siena che morirono a Curtatone e Montanara acquisirono un posto privilegiato nel ricordo dei fiorentini e dei toscani e il loro sacrificio assunse un significato del tutto speciale: la loro formazione militare, raccogliendo i più influenti docenti e la più colta, erudita ed influente gioventù toscana, divenne da subito il simbolo dell’alto tributo che la Regione aveva pagato per il compimento della rinascita nazionale. A Curtatone e Montanara, infatti, come hanno scritto Mirtide Gavelli e Otello Sangiorgi, “le virtù civili si erano finalmente ricongiunte con le tradizionali virtù poetico-letterarie, e questo era così significativo dato che gli eroi di Curtatone provenivano dalla Regione che da sempre è stata considerata la culla della civiltà italiana; anzi, si trattava di professori universitari, deputati, anche da un punto di vista professionale, a custodire la cultura patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132).

La Toscana, inoltre, sentiva di aver perso in quell’occasione un’intera futura classe dirigente, formata da quei giovani che per lungo tempo avrebbe elevato a simbolo di esemplarità; essi con il loro sacrificio rimasero a lungo una presenza forte del Risorgimento, poiché con la loro morte “incarnavano il mito del giovane colto che sacrifica il suo brillante avvenire e la sua stessa vita per il bene della patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132). Il connubio tra cultura e patriottismo, rappresentato dai caduti del 29 maggio, superò agevolmente il passare del tempo e fu riproposto più volte negli articoli, nelle poesie e nelle commemorazioni. Un esempio è offerto dal discorso che Eugenio Coselschi tenne alla Pro Cultura in occasione dell’anniversario del 1911 (10).
 
Egli, parlando agli operai intervenuti, ricorda come:

In quel giorno di maggio nei piani di Lombardia tutti rigogliosi di messi, una più ricca messe di vita si disperdeva, se voi pensate che tra i caduti in quel giorno erano le più belle speranze della scienza e della patria, che tra i volontari pugnanti in quel memorabile sforzo, erano medici, avvocati, studenti, la più eletta parte, la più nobile figliolanza della Toscana, se nobiltà non può essere che altezza di ingegno, volontà di studio, potenza di sentimento; se voi pensate che nelle schiere che il brutale imperio soffocò erano le vivente espressioni delle scolari grandezze delle città nostre, della civiltà nostra, della nostra libertà popolana, muore sul labbro la parola del perdono, e rossa infrenabile, istintiva e possente dovrebbe sorgere invece la parola della maledizione (11).

Accanto al tema della cultura, l’estrema giovinezza dei patrioti, riportata anche a distanza di decenni da giornali e oratori, era un’ulteriore caratteristica che concorreva a incrementare il mito della straordinarietà dei combattenti. Con un età media inferiore ai vent’anni, gli studenti del battaglione universitario toscano erano elevati alla gloria come agnelli sacrificali (Banti 2011, 73). L’immagine più usata per ricordare i giovani patrioti toscani stroncati nel pieno della vita fu quella dei fiori, come a voler riallacciare simbolicamente la battaglia di Curtatone e Montanara alla metafora del movimento della “primavera dei popoli” del 1848. Così, nel 1908, “Il Nuovo Giornale” ricordando la “gloriosa sconfitta”, scriveva:
 
Che importa se fortuna di vittoria non arrise alle schiere di Curtatone e di Montanara? Ci sono sconfitte nelle quali assai più degno e memore e glorioso è il soccombere che il rimaner superiori. Le due campagne, i due fatti d’arme che la terra nostra celebra oggi di ricordevole e pietosa onoranza sono di tal numero. Ricordiamo pertanto il dilagar di alfieri entusiasmi, il lirico fiorir dei bellissimi eroismi il Maggio eterno e simbolico – il tuo Maggio, o sacra Primavera del ’48! (29 maggio 1948, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1908).

Sembra inoltre che l’immagine della primavera fosse utilizzata per instaurare un parallelismo tra la giovane età dei caduti – i morti in battaglia erano nel fiore degli anni – e il movimento di rinascita che stava attraversando la patria. L’affinità appariva anche grazie all’utilizzo di termini come “risorgimento” e “resurrezione”. Nella poesia pubblicata dagli studenti fiorentini nel loro numero unico appariva appieno questo voluto gioco di parole:
 
Quando toscana bella a primavera/ La sua ghirlanda nuzial prepara,/voi risorgete al sole in balda schiera,/Morti di Curtatone e Montanara./Ma riguardando della patria cara/ogni vetta, ogni piaggia, ogni riviera,/ Di lei che a voi parea così preclara/ Ritrovate l’imagine primiera?/ Morti, non so: ben vi ricorda ancora/ Italia madre, e prega in Santa Croce/Pace e l’anime vostre e a le vostre ossa./ E come a maggio il vento dell’aurora/ Reca mesta e augural la vostra voce,/Par ch’ogni rosa sia di sangue rossa (Rossi 1908, 5).
 

Assunta in questo contesto, anche la simbologia floreale assumeva una doppia valenza: da un lato, essa rappresentava la vita stroncata dal fuoco nemico, dall’altro sembrava essere usata come simbolo di rinascita della nazione e delle nuove generazioni.
Nel primo caso, i combattenti del battaglione universitario toscano erano raffigurati come germogli primaverili falcidiati dal fuoco nemico, oppure come fiori dai petali rossi. L’utilizzo della simbologia delle “rose purpuree” rimanda chiaramente al colore del sangue che era più volte menzionato negli articoli celebrativi e nelle poesie (12).
 
Nel secondo caso, la metafora appariva più articolata. I fiori non erano più rappresentati come stroncati, ma nel pieno del vigore primaverile; e anche il sangue versato non raffigurava più la morte, ma il sacrificio necessario affinché su quella stessa terra potessero “germogliare” le nuove generazioni. Il messaggio affidato alle immagini floreali pareva quindi portare un messaggio di speranza associando il cordoglio alla lezione patriottica. Lungo questa direttrice, si collocava il messaggio che Aurelio Favara, Console Generale della Corda Fratres (13), inviava agli studenti fiorentini. Egli, nell’evocare la “memoria dei compagni caduti per il santo ideale” scriveva che:

Aderendo alla glorificazione di cui coi siete promotori, i Corda Fratres nel 29 maggio colgono dalle zolle di Curtatone e Montanara i fiori vividi e belli, germogliati dalla terra che il sangue dei fratelli fecondava, e con l’argenteo ulivo nel intessono serti di gloria per tutti i martiri, per tutti gli eroi, nella fede che quelle vite, trasformatesi come tutte le cose e rinnovantisi nei secoli saranno bastevoli a compiere il più altro degli antichi prodigi (Favara 1908, 40).

Un simile sentimento si ritrova anche nell’articolo di Gian Battista Prunaj, intitolato Primavera Purpurea (29 maggio 1848). Ancora una volta, nel ricordare il sacrificio degli studenti toscani, si ricorreva alla metafora della primavera all’uso del colore rosso, il quale acquistava il duplice significato della morte e della rinascita:
 
Aderendo alla glorificazione di cui coi siete promotori, i Corda Fratres nel 29 maggio colgono dalle zolle di Curtatone e Montanara i fiori vividi e belli, germogliati dalla terra che il sangue dei fratelli fecondava, e con l’argenteo ulivo nel intessono serti di gloria per tutti i martiri, per tutti gli eroi, nella fede che quelle vite, trasformatesi come tutte le cose e rinnovantisi nei secoli saranno bastevoli a compiere il più altro degli antichi prodigi (Favara 1908, 40).

L’esemplarità dei giovani caduti a Curtatone e Montanara, oltre ad essere motivata dalla loro giovinezza, cultura e dall’alto senso della patria, era collegata dai fiorentini anche ad un’altra caratteristica: la toscanità. Il 29 maggio, infatti, era visto come una data profondamente legata alla storia regionale. Il Prunaj, ad esempio, nell’articolo citato sopra, continuava la sua commemorazione ricordando proprio il carattere toscano della battaglia:
Non v’è nella serie delle battaglie combattute per l’indipendenza della cara patria nostra niuno scontro, niuna campagna niuna giornata, che sia così intimamente e profondamente toscana, come la giornata di Curtatone e Montanara, come quell’estroso ed eroico 29 maggio 1848, inghirlandato dalle rose vermiglie di tanto e si gentil sangue speso, con lieto animo, per il fascino di un idea. Alle quali vermiglie rose, sacre ai non manchevoli auspici dei destini ben deve rispondere nel rito odierno della riconoscenza e della celebrazione il Rosso Giglio, onde Firenze nostra fiorisce (Prunaj 1909).

Il tema della toscanità fu espresso in vari modi nel corso degli anni. Se “Il Fieramosca” nel 1908 si limitava a evidenziare come “la Toscana nostra rispose all’appello con uno slancio che ha pochi riscontri nella storia” (14), Eugenio Coselschi, in un discorso pronunciato alla Pro-Cultura, dopo aver ricordato come “nella stagione dell’amore e dei fiori, in questo Maggio sereno e giocondo è opera di poesia e di giustizia celebrare la resurrezione della patria, la primavera della patria” sottolineava che “è altrettanto giusto ricordare la nostra Firenze”. La città, infatti, per Coselschi meritava la gloria eterna da parte dei cittadini, una “gloria eterna e indistruttibile, poiché quale capitale di questa nostra Toscana essa dette vita e ardimento ai guerrieri di Curtatone e Montanara, a quei giovani generosi, a quei fanciulli indomabili, agli eroi immortali che al termine di questo mese in cui sembra più bella e più serena la vita, caddero sacrificando il bene più desiato e il più caro e offrirono il petto gagliardo al piombo degli oppressori” (15).

L’importanza del carattere toscano della giornata del 29 maggio trovò probabilmente la sua massima espressione nelle celebrazioni ad essa dedicate. Nonostante si trattasse di una giornata commemorativa legata ad ricordo dell’anno rivoluzionario per eccellenza – il 1848 – e quindi potenzialmente sovversiva, la classe dirigente fiorentina capì fin da subito che “rinunciare alla memoria di Curtatone e Montanara era assolutamente impossibile, visto che quella journée costituiva il simbolo vivente del ‘tributo di sangue’ pagato dai toscani all’indipendenza nazionale, e si presentava quindi come la carta da visita più convincente per quel ruolo di primo piano nella definizione e nella guida del [futuro] Stato nazionale che si pretendeva fosse loro riconosciuto”. Il 29 maggio divenne immediatamente un simbolo dell’orgoglio toscano, tanto da venire commemorato anche negli anni dell’occupazione austriaca.
 
Già nel dicembre 1848 il gonfaloniere di Firenze Ubaldino Peruzzi deliberava di far istallare, a spese del Municipio, due tavole di bronzo con i nomi dei fiorentini caduti a Curtatone e Montanara nella chiesa di Santa Croce, inserendo così simbolicamente i giovani eroi toscani nel pantheon delle glorie della nazione. Le tavole di bronzo assunsero da subito un significato più ampio di quello commemorativo, divenendo un luogo di devozione e, contemporaneamente, un simbolo di resistenza politica per la città. Il ricordo dei caduti divenne una pietra fondante dell’identità cittadina non solo per la classe dirigente, ma per tutta la popolazione che, pur di omaggiare gli eroi di Curtatone e Montanara, sfidò in quegli anni la repressione della gendarmeria austriaca che, nel 1851, giunse a sparare sui fedeli che la mattina del 29 maggio, con il pretesto della messa per l’Ascensione, si era recata in Santa Croce a rendere un omaggio clandestino ai caduti. Proprio in seguito ai tafferugli di quella mattina, le tavole di bronzo, che prima erano state coperte, furono rimosse dalla chiesa e rinchiuse nella Fortezza da basso “per evitare che anno dopo anno esse diventassero un catalizzatore di memorie sgradite al potere” (Burzagli 2005, 283). Non stupisce quindi che nel 1859, come abbiamo ricordato, uno dei primi atti del governo provvisorio fu quello di ricollocare le tavole di bronzo in Santa Croce e di sancire ufficialmente la festa del 29 maggio. Il ricordo di Curtatone e Montanara cessava di essere un momento di resistenza e diventava il naturale trait d’union del 27 aprile nel processo risorgimentale.

Con il passare degli anni, la commemorazione dei morti di Curtatone e Montanara restò sempre un momento importante per l’orgoglio della Regione. In particolare, dopo l’unificazione del Regno e con la perdita dello status di capitale, il ricordo della giornata patriottica assunse anche una funzione anti piemontese. Con il 1861, infatti, la festa dello Statuto era divenuta ufficialmente la giornata commemorativa dell’Unità d’Italia, schiacciando di fatto le varie commemorazioni locali, tra cui quella fiorentina. La vicinanza tra le due date, infine, alimentava ulteriormente lo scontro tra la visione nazionale e quella locale sulla gestione della memoria risorgimentale.
Come ha scritto Claudia Burzagli, infatti:
 
in una Toscana che non amò mai molto la festa dello Statuto, mantenere viva l’attenzione su Curtatone e Montanara rifletteva, ancora una volta, la volontà della classe dirigente nobiliare toscana di intervenire sulla mitopoietica della nazione veicolando un’immagine di essa non totalmente “schiacciata” sull’egemonia piemontese, e rivendicando quindi una posizione di primo grado, se non addirittura paritaria, per la toscana e per quanti, rompendo gli induci, avevano saputo farne il perno della formazione del nuovo Stato nazionale (Burzagli 2005, 288).
 
Quanto evidenziato dalla Burzagli appare confermato anche per l’età giolittiana; se infatti si guardano le delibere della giunta comunale, è evidenziato il maggior peso dato dall’amministrazione di Palazzo Vecchio alla commemorazione del 29 maggio rispetto alla celebrazione della festa dello Statuto. Ad esempio, nel 1906, il Comune stanziava solo 500 lire per lo Statuto a fronte delle 1000 investite per la messa in Santa Croce e i sussidi ai reduci (16).
 
Se la commemorazione acquisì questo carattere conflittuale tra locale e nazionale, essa, soprattutto in età giolittiana, dette luogo a numerose contrapposizioni tra la stessa classe dirigente fiorentina.

Le celebrazioni in età giolittiana
Con l’avvento del nuovo secolo e l’emergere di nuovi soggetti nella scena politica e sociale, le celebrazioni del 29 maggio furono al centro di un forte scontro di gestione della memoria. La giornata, infatti, già nel periodo austriaco, e poi formalmente dal 1859, si svolgeva secondo in rituale prefissato. Nel corso degli anni, la classe dirigente toscana, e in particolare il suo nucleo fiorentino, aveva cercato di istituzionalizzare il più possibile la cerimonia e, lentamente, ne aveva epurato le parti più spontanee, come l’omaggio del corteo alle abitazioni dei sopravvissuti e dei caduti. Ad inizio secolo, dopo un percorso volto ad evitare che il 29 maggio divenisse un’occasione per evidenziare letture del processo di unificazione nazionale diverse da quelle volute dalla classe dirigente, la cerimonia ruotava quasi esclusivamente attorno alla funzione religiosa in Santa Croce. Essa era stata costretta in un rigido cerimoniale che prevedeva una netta separazione e gerarchizzazione dei posti all’interno del tempio, e che vietava l’ingresso delle bandiere dei reggimenti nella chiesa (17).
 
In età giolittiana, pur restando fissi i grandi aggregati tematici ricordati in precedenza, la commemorazione dei caduti di Curatone e Montanara fu al centro di un notevole dibattito, specchio delle polemiche e dei contrasti presenti in città. Gli scontri più aspri si ebbero nel triennio dell’amministrazione popolare.
Dal giugno 1907, infatti, Firenze era governata da una coalizione tra socialisti, demosociali e repubblicani che, in soli tre anni, dette un netto colpo all’impianto della tradizionale città conservatrice. Uno dei punti su cui l’amministrazione popolare insisté di più fu, insieme alla lotta per le “case popolari”, quello per la completa laicizzazione di Firenze. Le giunte Sangiorgi e Chiarugi operarono in più direzioni per portare a compimento tale proposito: tra l’estate e l’autunno 1907 dettero l’avvio ad un programma amministrativo che avrebbe portato all’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole (18); e alla laicizzazione degli ospedali. Soprattutto negli anni centrali del blocco, il 1908 e il 1909, la tensione tra l’amministrazione di sinistra e gli esponenti dell’opposizione conservatrice e liberale salì nettamente, coinvolgendo anche l’ambito della gestione della memoria. Se il 1908 fu il primo anno in cui le bandiere rosse entravano in Palazzo Vecchio, fu anche l’anno in cui per la prima volta venne cambiato il programma della commemorazione di Curtatone e Montanara.

Proprio per il 60° anniversario della battaglia, lo scontro si giocò tutto sulla contrapposizione tra laicità e religiosità della commemorazione.
Il primo passo in questo senso fu compiuto dall’amministrazione comunale che, per rispetto all’impronta laica che aveva dato al governo della città, trovò un escamotage per evitare di finanziare con i soldi del Comune una manifestazione di ordine prettamente religioso. Così, la giunta Sangiorgi, il 18 maggio, emetteva la seguente delibera:
 
La giunta, visto come nel bilancio preventivo sia inserita, all’art. 101, la somma di Lire Mille per la commemorazione dei morti in battaglia per l’indipendenza italiana. Vista la lettera in data 8 maggio corr. del presidente del Comitato Regionale Toscano dei Veterano 1849-1870. Ritenuto come sia alto dovere civile tenere sempre alto e vivo il ricordo dei morti per la patria e per la Libertà e venire in aiuto dei superstiti bisognosi. Su protesta dell’On. Sindaco delibera:
Che il 29 maggio corr. sia effettuata nel Salone dei Cinquecento una solenne commemorazione dei caduti per l’indipendenza nazionale.
Che siano deposte corone di fiori sulle lapidi che nel Tempio di Santa Croce ricordano i morti gloriosi per la libertà della patria.
Che la somma di lire mille inscritta in bilancio comunale all’articolo 101 sia rimessa al Benemerito Comitato Regionale Toscano dei Veterani del 1849-1870 lasciando ad esso la piena facoltà di erogazione si in onoranze ai defunti, sia in sussidi ai superstiti bisognosi (19).

La giunta, in questo modo, evitava di apparire tra gli organizzatori della funzione commemorativa religiosa, ma, al contempo, non impediva che la tradizionale messa di suffragio per i caduti in Santa Croce avesse luogo. Le polemiche sui giornali, soprattutto su quelli moderati e cattolici, divamparono già all’indomani della delibera.

La prima, ad indignarsi fu “La Nazione”. La testata moderata, già all’indomani del comunicato stampa con cui Palazzo Vecchio comunicava la decisione presa dalla giunta, pubblicava un articolo di fondo dove, con ovvio riferimento alla dominazione austriaca, appellava i consiglieri popolari con il nome di “Croati d’Italia”, ed esprimeva tutta la riprovazione per la decisione presa. Nel testo si legge:
 
La cerimonia religiosa del XXIX maggio deve aver lungamente turbato l’antica dell’attuale Amministrazione popolare e socialista, sulla quale la Messa in Santa Croce pesava come in grave incubo: e questo turbamento lo si desume dal contesto del comunicato del sindaco, il quale sapendo di non aver dalla sua la cittadinanza fiorentina nella redazione del bilancio di una somma destinata a commemorare i prodi di Montanara e Curtatone, nonostante gli incoraggiamenti del neofita assessore e professore Giulio Banti, ha preso un provvedimento alla Ponzio Pilato e ha mandato le 1000 lire – parte delle quali sono state fino ad ora spese in Santa Croce – al comitato regionale toscano dei Veterani 1848-1870. Se la cerimonia religiosa deve essere fatta, l’iniziativa – ha detto l’on. Sindaco di Firenze – la prendano i veterani, noi popolari, noi rappresentanti l’anima del popolo, noi che, come griderebbe l’on. Pescetti in un momento di entusiasmo retorico, di questa anima grande siamo, il profumo, non vogliamo piegarci alla tradizione mai interrotta e questa tradizione che nessuno, dal 1849 ad oggi, può mai toccare, noi la spezziamo. […]La deliberazione della giunta riguardante la commemorazione del XXIX maggio è uno piccato esempio d’opportunismo che, a nostro modi di vedere, rasenta il gesuitismo (20).
 
La polemica continuò anche nei giorni seguenti e lo stesso 29 maggio, nella prima pagina del giornale, insieme agli articoli commemorativi del giorno della battaglia, appariva, come spalla, un pezzo dal titolo Carducci e il XXIX maggio, dove si ricordava come anche Carducci fosse stato uno dei maggiori sostenitori della celebrazione per i caduti, e, grazie al suo intervento, la festa poteva essere celebrata anche nel 1867, anno in cui la giunta comunale aveva ventilato di sospendere la messa in suffragio dei caduti. Il giornalista chiudeva il pezzo scrivendo che, mentre nel 1867 la giunta tornò sui suoi passi:
 
Oggi non sarà cosi. Quelli stessi che, pettoruti d’orgoglio e d’ignoranza gonfiavano pur ieri le vesciche del loro vero retorico. Dividendosi di onorare in tal modo la memoria del poeta nelle loro file. Oggi si fanno un piedistallo nella loro ignoranza medesima per salutare, come l’alba di una più felice età. L’abolizione della cerimonia due volte sacra e doppiamente italiana. È vero che l’ignoranza fa perdonare molte cose; ma non a coloro i quali parlano in nome della verità positiva, della santità della scienza e del libero pensiero. A meno che la prerogativa predominante del libero pensiero non sia quella di far pensare liberamente soprattutto le sciocchezze. Quanto all’ostracismo che il consiglio comunale fiorentino a dato al tempio clericale di Santa Croce è forse opportuno osservare che di fronte al cumulo enorme di storia, di gloria, di grandezza, d’eternità, di eroismo e di genio che stanno là dentro idealmente racchiusi, sessanta consiglieri non deliberano per giudicare, ma per essere giudicati (21).
 
Aspre critiche arrivarono anche dai giornali cattolici nei quali l’indignazione per la decisione di non organizzare direttamente la cerimonia si legava alla condanna della politica laica dei nuovi “padroni” di Palazzo Vecchio.

Nella prima edizione del settimanale cattolico “Stella Cattolica” successiva alla delibera del 18 maggio, si trova un articolo di fondo scritto dal direttore dove è ricordato l’importanza della cerimonia e il suo “santo” significato. Egli prendendo come spunto i suoi ricordi di bambino ricorda “l’impressione infantile rimasta ancora nel cuore del cielo sereno, delle campane a festa, delle musiche militari, della folla multicolore invadente il tempio severo, […] dei bei soldati schierati davanti al tempo, delle campane allietanti ai martiri della patria, delle dolci fanfare che rallegravano lo spirito dei bambini vestiti a festa a Santa Croce e ricordavano come la chiesa prega e onora i morti della patria”. In contrapposizione con questi ricordi felici il direttore prosegue descrivendo il prossimo scenario “privo di senso” voluto dall’amministrazione comunale che, in offesa alla tradizione, ha optato per una funzione civile, dove, secondo l’autore, il patriottismo sarà solo un bieco pretesto per ribadire la linea anticlericale di Palazzo Vecchio. Egli infatti scrive:
 
Addio virtù della patria, addio!Addio bella funzione n Santa Croce! Ci voleva tutta la prosa atea e miscredente di un consiglio comunale popolare per stappare bruscamente dal mio cuore e da quello di ogni buon fiorentino la catena che ci legava ai nostri padri morti per la patria e ricordati dalla fede!ci volva tutta l’esosa d antipatica intolleranza di anticlericalismo da strapazzo per farci svegliare da un sogno tanto bello e tanto santo di ricordi giovanili, di amor patrio e di religione mirabilmente fusi in un unico ideale. […] Oggi i padroni di Firenze, i padroni di quel Palazzo che sul frontone porta la sigla di Cristo Re non ànno più lacrime né preghiere per i morti della patria. O meglio ànno le lacrime ufficiale di una commemorazione civile, priva di senso e di patriottismo. Anche Curtatone e Montanara sarà sfruttato a beneficio del sole dell’avvenire! Avremo quindi l’immancabile corteo di bandiere rosse e nere, avremo i circoli anticlericali che vi insulteranno, voi morti per la patria, con il lume della fede nel cuore! Avremo un oratore da strapazzo che vi commemorerà, un tribuno della plebe che vi insulterà, voi, povere anime dei nostri morti ribelli ad ogni tirannia anche scamiciata e popolare! E ne volete di più? Mentre gli altri anni le lacrime pie e le preci dei sacerdoti invocavano pace alle aride vostre ossa, quest’anno solo una commemorazione laica ricorderà la vostra memoria, o morti per la patria! (22).

Come si legge nell’articolo di “Stella Cattolica”, l’altro motivo per cui la giunta fu molto criticata fu quello di affiancare alla cerimonia religiosa quella civile. La doppia celebrazione comportò anche un problema di rappresentanza per il Comune. Credendo di trovare un correttivo nella commemorazione civile nel Salone dei Cinquecento e nell’invio di corone di fiori in Santa Croce, il sindaco non aveva preso in considerazione quanto questa scelta potesse rivelarsi “arma a doppio taglio”, perché, come sottolineava “La Nazione”:
 
i veterani avendo stabilito di continuare nella tradizione municipale e far celebrare la Messa in Santa Croce, diramando gli stessi inviti che diramava il Gabinetto del Sindaco e invitando conseguentemente il Sindaco e la giunta, metteranno l’on.avv. Sangiorgi nella condizione di declinare l’invito alla cerimonia religiosa in Santa Croce dove saranno già state deposte le corone di fiori del Municipio. Un circolo vizioso: e tanto più vizioso in quanto ché i Veterani saranno invitati a loro volta dal Sindaco per la commemorazione civile del XXIX maggio nel salone dei Cinquecento e i Veterani occupati nella tradizionale cerimonia religiosa in santa Croce dovranno a loro volta, declinare l’invito del sindaco che ha girato al Comitato il buono di 1000 lire (23).
 
L’atteggiamento del Comune fu ambiguo, perché proprio la persistenza della messa in suffragio dei caduti mise in seria difficoltà l’amministrazione Sangiorgi che si trovava così stretta tra il rispetto delle tradizioni e la coerenza con l’indirizzo laicista impresso al Comune. La situazione di impasse in cui erano caduta la giunta pare attestare proprio il complesso rapporto tra religiosità e laicità in materia di gestione delle politiche della memoria. Nelle carte conservate nell’archivio comunale, in particolare dai verbali delle sedute della giunta, si può leggere che, alla fine, il sindaco lasciò liberi i consiglieri di maggioranza e gli assessori di recarsi in forma privata alle celebrazioni, e stabilì che una rappresentanza della giunta, composta dagli assessori Lustig e Masini, dagli assessori supplenti Pieraccini, Banchi e Trinci, e dai segretari Paci, Lenzi e Romagnoli, avrebbe lasciato agli uscieri due corone di fiori da far appendere sulle targhe di bronzo all’interno del tempo. Il sindaco, inviando un telegramma ai veterani, si dichiarò indisposto e non presenziò né alla deposizione delle corone di fiori (24).

I giornali moderati e cattolici sottolinearono l’accaduto e “La Nazione” scrisse apertamente che la soluzione trovata dal sindaco rivelava quanto la maggioranza fosse spaccata proprio sul tema della laicità che aveva agitato tanto in campagna elettorale. Il giornale moderato, infatti, parlò di un “gesuitismo alla Ponzio Pilato”, di una soluzione che “salvava capra e cavoli” e che permetteva a Sangiorgi “di salvare la sua popolarità e di dare una soddisfazione all’amico anticlericale e massonico prof. Banti” (25).
 
“L’Unità cattolica”, ma anche “La Nazione”, tornarono spesso sul tema, e, soprattutto negli articoli successivi alla giornata del 29 maggio, sottolinearono più volte l’imponenza della cerimonia religiosa che, “nonostante il poco tempo di preavviso alla società dei reduci e l’ostruzionismo delle autorità municipali, era riuscita migliore degli anni passati”, testimoniando come “la cittadinanza ha dimostrato di non esser del parere del Sindaco, Avv. Sangiorgi e della giunta demo-sociale e socialista e ha riempito la navata di Santa Croce, dove, in incognito, tappati in carrozza, chiusi da non essere scorti dai compagni, gli onorevoli assessori avevano, nelle prime ore dell’alba, deposto corone di fiori sulle lapidi ricordanti i caduti di Curtatone e Montanara” (26).

Sull’ambiguità della giunta intervenne anche il settimanale cattolico “Il Popolo”, che era nato a Firenze solo pochi mesi prima e che faceva della sua appartenenza religiosa il proprio punto di riferimento. Il giornale, a differenza della “elitaria” “Civiltà Cattolica”, nasceva come un settimanale rivolto alle classi popolari, al fine di “di dimostrare con i fatti alla mano la speciosità apparente di certe teorie lusingatrici che con l’orpello esterno cercano di nascondere il marcio interiore; di toccar con mano la mendacità di certe promesse fatte da uomini ambiziose che della schiena dell’operaio si servono di sgabello per salire in alto; di mettere a nudo l’ipocrisia di certe dottrine e di certi programmi che la buona fede proletaria sfruttano e a individuale vantaggio”. Proprio per rispettare questo suo proposito di parlare al popolo, il settimanale fiorentino utilizzava un linguaggio semplice, ricorrendo spesso a scenette divertenti e alla trascrizione di improbabili conversazioni sentite per la strada che, il più delle volte, avevano come protagonista un socialista e un cattolico. Anche nel caso delle celebrazioni del 29 maggio, “Il Popolo” fece largo ricorso alla pungente ironia fiorentina per denunciare l’atteggiamento ambiguo. Già dall’inizio, la polemica politica era affidata a lettere immaginarie che la statua del Nettuno, posta di fronte a Palazzo Vecchio, inviava al sindaco per denunciare i comportamenti che vedeva dall’alto del suo piedistallo e che non condivideva. Il Biancone – nomignolo che i fiorentini avevano dato alla statua a causa della sua imponente mole di marmo bianco – anche per le celebrazioni di Curtatone e Montanara scrisse a Sangiorgi, questa volta per riportargli una lettera scritta da un altro guardiano di una piazza fiorentina: la statua di Dante in Santa Maria Novella. Il giornalista de “Il Popolo”, fingendo di parlare a nome della statua annotava cosa aveva visto quella mattina presto:
 
Eravamo adunque raccolti nella quiete e nella solennità del francescano tempio, io altissimo poeta, vicino a me Michel più che mortale angelo divino, di fronte stavami il gran Galileo e da un altro lato il Machiavelli, l’Alfieri, il Rossini e Gino Capponi ed altri, senza contare i cavalieri antichi e i cittadini che illustrarono e fecero grande la bella Fiorenza. Quand’ecco quasi usciti dal regno delle tenebre, penetrare nel tempio e passarci avanti alcuni uomini, che tali erano per natura, vestiti di nero, coi fiori in mano, e questi frettolosamente depositati, fuggire quasi ombre che si dileguano saettate da’ fulgori del sole. Seppi che erano ed il perché di que’ fiori deposti furtivamente. Seppi il perché parea che loro scottasse quel fuoco il sacro pavimento e non ardirono nel passarci davanti affissare i loro occhi sul nostro sembiante. […]
Mio desiderio sarebbe che nel palazzo degli antichi priori, il quale sulla porta maggiore, ha scolpito il nome di Cristo Dio, proclamato un di da’ miei concittadini re di Fiorenza, fossero quete mia parole di seria meditazione.
Da Santa Croce, il 29 maggio del 1908
Dante Alighieri
 
Nel congedarsi dal sindaco, anche “il Biancone” commentava così l’accaduto:
 
IL CORAGGIO DI NON AVERE OPINIONE: quello del Municipio, che presta omaggio in chiesta alle 8, e lo rifiuta alle 10! che manda un Segretario ad aspettare presso l’avello di Machiavelli…con quel che segue: vero che il segretario non si levò l’impermeabile; forse per mancanza di iniezioni. Il giornale Fieramosca, che si scandalizza della bandiera in Chiesa, col sarcasmo che “ le bandiere austriache vi furono accolte”; è vero: gli austriaci tiraron le fucilate a quelli che commemoravano in Santa Croce il 29 maggio: ma lo spregio era da parte di austriaci. E quello da parte del Comune? Come lo spiega il Fieramosca? La nostra opinione: che non bisogni pigliar sul serio tutta questa roba:
MASSONI di coraggio
Hanno alzato la voce
In odio a Santa Croce
Tanto perché era Maggio!
Suo aff.mo Nettuno
detto i’ Biancone (27).
 
Il proposito dei giornali moderati e clericali appariva abbastanza chiaro: comparare le due cerimonie in modo da far risaltare quella “vera”, sentita dal popolo e appartenente alla tradizione, rispetto a quella “inventata” e celebrata non per reale spirito di patriottismo, ma per esigenze di partito. L’insistente ricorso alle descrizioni della piazza gremita di gente, al calore popolare, ai momenti di commozione durante la funzione erano strumenti appositi per mettere in risalto questo contrasto (28).

La compresenza della doppia celebrazione, invece, fu ritenuta dai quotidiani vicini a Palazzo Vecchio come un’opportunità per celebrare al meglio i martiri per l’indipendenza, restituendo loro anche quella dimensione di patriottismo civile che era stata limitata dalla commemorazione religiosa. “Il Fieramosca”, ad esempio, all’indomani della celebrazione nel salone dei Cinquecento scriveva:
 
certe tradizioni fatte di sacrificio per il bene della patria non si estinguono col volgere degli anni, né per mutate condizioni di tempi e di volontà di uomini: ma si fortificano anzi col volgere degli anni ed ingigantiscono se è possibile quanto più gli avvenimenti si allontanano dall’epoca presente. […]e cos’ di anno in anno senza che un anelo della nobile tradizione sia stato infranto, siamo giunti fino al presente, nel quale la solenne funzione verrà celebrata a cura del benemerito Comitato dei Veterani ’48-49, al quale il Comune – come è noto ha inviata la somma di lire mille inscritta in bilancio, perché la eroghi come meglio crederà nella sua saggezza e nel suo patriottismo (29).
 
Il Comune, nei suoi anni di amministrazione popolare, puntò molto sulla valorizzazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio. Essa, nelle intenzioni degli organizzatori, era volta a ricostruire una memoria civile intorno ad una data fondativa della identità nazionale e, soprattutto, toscana. Le manifestazioni organizzate per gli anni 1908, 1909, 1910, furono cerimonie essenziali: il sindaco, con alcuni assessori e consiglieri, si recava a pranzo presso la Pia Casa del Lavoro e, poi, nel primo pomeriggio, officiava la distribuzione dei diplomi di merito alle alunne e agli alunni delle scuole comunali, e ai fiorentini distintisi nel corso dell’anno per atti di valor civile. Seppur apparentemente semplici nel loro svolgimento, le celebrazioni rimandavano ad una serie di significati ben precisi.
Il primo di questi era rappresentato dalla volontà di istituire un legame simbolico tra i giovani allievi delle scuole comunali e i reduci e i mutilati delle guerre patrie. Leggendo le minute dei discorsi conservate nell’archivio comunale e le descrizioni delle manifestazioni nelle cronache dei giornali, si nota come il legame tra le due generazione fosse costantemente rievocato. Così, nel 1908, sappiamo che i bambini delle elementari consegnarono al sindaco e ai veterani intervenuti dei mazzi di garofani rossi, fiore simbolo della nuova amministrazione, e che, l’anno successivo, i bambini allietarono la cerimonia con i cori dell’Inno di Garibaldi e dell’Italia risorta ((Cfr. La cerimonia nel Salone dei Cinquecento, in “La Nazione”, 30 maggio 1908, e La cerimonia d’oggi in Palazzo Vecchio, in “La Nazione”, 30 maggio 1909.)). L’esempio che però meglio illustra questo collegamento tra le due generazioni è dato dal discorso del sindaco Giulio Chiarugi in occasione della cerimonia del 1910. Egli, infatti, di fronte ad un salone dei Cinquecento gremito di bambini e di reduci, ricordava agli allievi delle scuole elementari:
 
Sia forte in voi il sentimento del dovere, lo spirito di sacrificio, amate il vostro paese e siate pronti fino da ora a difenderlo contro ogni sopraffazione e contro ogni offesa. L’Unità e la libertà della patria vi siano sacre. Quanti dolori, quanti sacrifici costarono ai nostri padri, quante eroiche vite si spensero per darci una patria. Ho voluto oh bambini che la vostra festa avesse luogo in questo giorno che ricorda una data gloriosa nella storia del nostro Risorgimento nazionale, ed io desiderato che in cerimonia fosse resa più solenne dalla presenza dei veterani delle nostre guerre di indipendenza. Essi hanno accolto l’invito e noi dobbiamo insieme ringraziarli. Plaudite a loro o bambini! Essi nel fiore degli anni hanno messo a repentaglio la vita per questa Italia che stava in cima ai loro pensieri: molti di loro subirono persecuzioni, molti tornarono dalla guerra ammalati o feriti, ma in tutti si mantenne viva la fede nei destini della patria. Sia ugualmente salda ed operosa in voi la fede dell’avvento dell’avvenire del nostro paese al cui progresso dedicherete le vostre maggiori attività (30).

L’insistenza sul legame tra i vecchi patrioti e i giovani, se da un lato pare strumentale alla funzione di propaganda per l’operato dell’amministrazione popolare in materia di scuole pubbliche (31), sembrerebbe anche voler veicolare un altro messaggio: quello dell’importanza del civismo. L’idea del coraggio e dello slancio volontaristico sembra essere accentuata dal nesso che si veniva a creare tra i premiati per il valor civile e i reduci presenti in sala.
Con la creazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio, pare che l’amministrazione popolare tentasse una trasposizione a livello istituzionale di quei valori del Risorgimento democratico che fino ad allora erano stati schiacciati dalla funzione religiosa che aveva come motivo prevalente quello del cordoglio dei caduti. Temi come il civismo, il volontarismo, lo spontaneismo, la libertà di partecipazione, che erano stati limati ed emarginati dalla classe dirigente liberale negli ultimi decenni dell’800, erano ora ripresi e amplificati dalla pubblicistica e dalle scelte dei partiti popolari. La scissione del modello dell’eroe, sottolineata, tra gli altri, da Maurizio Ridolfi e da Lucy Riall, per l’Italia degli anni immediatamente post unitari, parve riproporsi, e riprendere slancio, negli anni dell’età giolittiana. Questa rinegoziazione, compiuta in anni densi di celebrazioni risorgimentali, sembrò essere un indice della complessità e dell’incompletezza del processo di creazione di una memoria pubblica unitaria e condivisa attorno alla mitologia della liberazione della patria. Inoltre, in un periodo in cui i partiti popolari erano al potere in alcune delle città più importanti d’Italia, questo processo di ripensamento e di contrasto attorno alla figura dell’eroe assunse forme insolite e nuovi canali di espressione, portando a nuove declinazioni della frattura tra la visione democratica e quella monarchica-liberale.

 Fonti: storiaefuturo.eu. Annarita Gori, Le “Termopili toscane”. La memoria di Curtatone e Montanara in età giolittiana, in “Storia e Futuro”, n. 30, novembre 2012.
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti 
 
 

 
1. Il termine è mutuato dalla “gloriosa sventura” di Atto Vannucci (1848). Sul tema delle “gloriose disfatte” cfr. Isnenghi 1997.
2. “Una memoria collettiva – sia nazionale che di partito, o di chiesa, comunque di un grande gruppo sociale – nasce da eventi che hanno la forza di coinvolgere e rendersi memorabili; ma poi anche dalla capacità di dare forma organizzata e quindi durata temporale ai contenuti di una memoria che va aureolandosi di mito e intrecciando alla realtà documentabile le libertà della favola” (Isnenghi 2010, 12).
3. Per una trattazione più ampia del concetto di “figura profonda” cfr. Banti 2011, VII.; 2000, 3-56; 2005.
4. Il colonnello Cesare de Laugier, ricordando lo spirito religioso della battaglia, ordinò “ad ogni milite toscano, di qualunque corpo, di apporre dal lato sinistro del petto e segnatamente sul cuore, una croce dei colori nazionali, a distintivo della Santa Crociata, benedetta dal Sommo Pio IX, destinata alla difesa della Patria comune” (Nerucci 47, citato in. Burzagli 2005, 270).
5. Curtatone e Montanara, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908.
6. A contribuire al successo dell’identificazione tra la battaglia di Curtatone e Montanara e lo scontro del Passo delle Termopili sono stati gli stessi volontari. Nelle memorie del colonnello De Laugier si legge come egli nelle fasi iniziali della battaglia gridi ai soldati “Toscani!Son queste le vostre Termopili: o vincere o morire!” (De Laugier 1854, 28). Una citazione simile la si trova anche altre memorie e articoli di giornale a testimonianza della forza che ebbe il mito classico sulla ricostruzione degli avvenimenti storici. Cfr. Gavelli, Sangiorgi 2004.
7. I curatori del numero erano: Augusto Hermet, Giancarlo Batachi, Luigi Baccarini, Ugo Ottolenghi, Giovanni Ravagli, Enrico Poggi, Ferruccio Silvestri, Piperno e Vagaggini. Sulla composizione dell’opuscolo cfr. L’iniziativa degli studenti, in “La Nazione”, 29 maggio 1908.
8. Rondoni 1908, 7. Poco più oltre, nell’articolo di Jack La Bolina, per spiegare la gloriosità della battaglia di Curtatone e Montanara è ripreso un altro mito greco, quello della Gloria e della Vittoria: “Gli antichi scultori greci che raffigurarono alata la vittoria si apposero al vero. La dea spietata non si posa a vicenda ora in un campo ora in quello avversario? Non si libra incerta talora tra i due contendenti? Quando, alfine, muove i vanni vermigli verso la parte cui ha decretato la palma, manda alla contrada una minor sorella: la Gloria. Questa visitò la sera del 29 maggio i campi contrastati di Curtatone e Montanara e si assise compassionevole tra le salme dei difensori di quelle due umili borgate che per valore di toscani e di napoletani sono entrate nella storia” (La Bolina 1908, 14.).
9. Isastia 2008, 172. Sul punto cfr. tra gli altri Isastia 1990; Asor Rosa 2002. Per un approccio comparato cfr. Pécout 2008, 188-196.
10. La commemorazione appare interessante perché fu tenuta una prima volta ai soci fondatori e alle autorità intervenute e, pochi giorni dopo, fu riproposta ai soli operai, come a voler sottolineare loro lo stretto rapporto tra cultura e patriottismo, inserendosi in quel filone di manifestazioni di stampo pedagogico-paternalistico fortemente volute dalla classe dirigente moderata durante le celebrazioni del giubileo della Patria.
11. In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi alla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911.
12. “Quando fioriscono le rose la pia e gentile consuetudine fiorentina e toscana commemora i caduti di Curtatone e Montanara, rose purpuree di sangue dell’italico giardino” (Rondoni 1908, 5).
13. Il rapporto tra l’associazione studentesca Corda Fratres e la celebrazione delle battaglie risorgimentali del 1848 è molto stretto. L’associazione, infatti, fu fondata nel 1898, anno delle celebrazioni cinquantenarie di tali eventi patriottici, inoltre per dare avvio alla Corda Fratres, Efisio Giglio Tosi chiamò a raccolta i pochi sopravvissuti tra gli studenti universitari che nel 1848 avevano preso parte alle “patrie battaglie”. Sulla Corda Fratres cfr. tra gli altri Mola 1999.
14. Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908.
15. In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi allla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911.
16. ACF, CF 5020, Festa dello Statuto.
17. “Il Fieramosca” pubblica questa lettera il 28 maggio 1908: “All’On. Pres. Del Com. Reg. Toscano dei Veterani 1848-1870. Ringrazio sentitamente per l’invito fattomi da SV per intervenire alla Messa in Santa Croce e la prego di partecipare ai nostri veterani le considerazioni seguenti. È molto lodevole il proposito di commemorare con canonizzazioni solenni i caduti di Curtatone e Montanara, e a me sembra che sia giusto di commemorare degnamente gli eroi di quella giornata mediante una messa in suffragio per le anime dei morti nelle guerre di indipendenza. E il luogo della commemorazione, sia pure il Pantheon d’Italia non è adatto ai veterani italiani in quanto essi vi sono obbligati a lasciare fuori dalla porta la bandiera d’Italia in ossequio alle prescrizioni dell’autorità ecclesiastica; la quale dal 1849 al 1859 non fece impedimento alla bandiera d’Austria che portata dai soldati entrava in Santa Croce, e io lo vidi. Né le milizie austriache si ritenevano autorizzate a chiedere permesso alcuno. Perciò da molti anni io non vengo a tali onoranze. Con ossequio il veterano Tenente Generale Giovanni Cecconi”. La lettera di un veterano, in “Il Fieramosca”, 28 maggio 1908.
18. ACF, CF 4872, Affari Generali, f.18, Abolizione insegnamento Religioso nelle scuole.
19. Per il XXIX maggio. La deliberazione del consiglio comunale, “La Nazione” 19 maggio 1908.
20. Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908.
21. Carducci e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 29 maggio 1908.
22. Curtatone e Montanara!, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908.
23. Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908.
24. Cfr. Pel XXIX maggio, in “L’Unità Cattolica”, 30 maggio 1908.
25. XXIX maggio. Il gesuitismo di Ponzio Pilato,in “La Nazione”, 26 maggio 1908.
26. La cerimonia di ieri mattina in Santa Croce, in “La Nazione”, 30 maggio 1908.
27. Lettere del Biancone, in “Il Popolo”, 7 giugno 1908. L’articolo de “Il Fieramosca” a cui si riferisce “Il Popolo”, è la già citata La lettera di un veterano, riportata il 28 maggio 1908. Il giornale vicino all’amministrazione popolare commentava la successiva decisione delle autorità ecclesiastiche di far entrare la bandiera dei veterani solo dopo Sessant’anni dalla battaglia come un riconoscimento tardivo e sottolineava come, tra il 1849 e il 1855, le bandiere austriache erano sempre state beneaccette nel tempio (cfr. anche La commemorazione del XXIX maggio in Santa Croce, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908).
28. Commenti analoghi si leggono anche nel 1909 e nel 1910, gli altri due anni in cui la giunta popolare deciderà di sdoppiare le commemorazioni in laiche e civili. Cfr. “Il Fieramosca” 29-30 maggio 1909, “La Nazione”, 30 maggio 1909 “La Nazione”, 29 maggio 1910.
29. Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908.
30. La solenne cerimonia di Palazzo Vecchio, in “L’Opinione democratica”, 30 maggio 1910.
31. Il giornale moderato “La Nazione” si fece portatrice di una polemica circa la strumentalizzazione dei giovani da parte del Comune. Il 30 maggio 1910, si può leggere in un commento alle celebrazioni per i martiri di Curtatone e Montanara: “Ho potuto vedere nella Chiesa parecchia gioventù – più di quanta io ne prevedessi – e questo mi ha confortato l’animo. Se nelle scuole comunali, per ordine superiore, s’insegna soltanto a leggere, a scrivere, a bestemmiare Iddio e a cantare l’Inno dei lavoratori, nelle scuole governative si mantengono vivi i sentimenti patriottici, l’affetto, la venerazione per i non indegni padri che ci hanno preparato il benessere civile e morale e ce lo hanno lasciato in sacro retaggio con l’obbligo di mantenerlo e difenderlo da qualsiasi spregio, da qualsiasi attentato esterno e interno. E questo dovere sente la vera gioventù che studia, che pensa, che non si lascia traviare dal dottrinismo sovversivo, e che ama addestrarsi alle armi, raggruppandosi in battaglioni, ai comandi dei benemeriti ufficiali dell’esercito nazionale”. (La solenne cerimonia del XXIX maggio nel tempio di Santa Croce, in “La Nazione”, 29 maggio 1910).
 
Villani
Foto: Villani, rielaborazione di cartolina
Fonte: Istituto per la storia del Rinascimento Italiano
 
 
Giovanni Villani, nato a Firenze intorno al 1280 da famiglia popolana, si dedicò fin dalla giovinezza alla mercatura. Partecipò attivamente alla vita politica fiorentina dal 1316 fino al 1330: fu più volte priore e magistrato con diversi incarichi, di ambito soprattutto economico-finanziario. Dal 1331 la sua attività pubblica subì un declino; coinvolto nel fallimento della compagnia dei Buonaccorsi nel 1346, fu per qualche tempo incarcerato. Morì nell’epidemia di peste del 1348.
 
Secondo quanto dichiara, V. concepì il progetto di scrivere la sua Cronica(titolo con il quale l’opera è nota secondo la vulgata; ora Nuova cronica, nell’edizione critica a cura di G. Porta, 3 voll., 1990-1992, da cui si cita) a seguito di un viaggio a Roma per il giubileo del 1300. Sollecitato dalla vista degli antichi monumenti e dall’esempio degli autori che tramandano le memorabili gesta dei Romani, decise di intraprendere un’opera ancora intentata: scrivere la storia della propria patria, Firenze, che di Roma era – secondo una già consolidata tradizione – «figliuola e fattura» (IX xxxvi). Firenze è dunque, anche sul piano dell’ideazione, l’epicentro dell’opera, che mantiene a ogni modo, pur nella novità di intenti, l’impianto della cronaca universale. La narrazione ha infatti inizio dalla torre di Babele e tratta i fatti del mondo fino alla contemporaneità dell’autore, in 13 libri (12 secondo la vulgata), frammentati in autonomi capitoli di vario numero. I primi sette libri (circa un quarto dell’intera opera) procedono dalla torre di Babele al 1264 (chiamata di Carlo d’Angiò in Italia); dal 1265 l’andamento annalistico si fa invece sistematico e la narrazione muta di proporzioni, con maggiore ampiezza e analiticità. Dalla seconda metà del libro VIII la Cronicariguarda la storia a V. contemporanea, fino a giungere alla stringente attualità, in cui assume ulteriore significato la diretta testimonianza. 
La peculiare attenzione di V. agli aspetti economico-finanziari, statistico-demografici e amministrativi di Firenze (memorabili in particolare i capitoli xci-xciv del libro XII) conferisce alla Cronica– con le dovute cautele – un non trascurabile ruolo anche documentario. Per quanto riguarda i tempi della scrittura, l’operato di V. in rapporto alla precedente tradizione e la discussa questione redazionale, cfr. Green 1972 e Ragone 1998. 
 
Come è detto nel prologo, la scrittura dell’opera in «piano volgare» intende arrecare «frutto» e «diletto» al pubblico dei non letterati, sia mediante il fare «memoria» delle cose notevoli di Firenze, di cui si esalta la nobiltà e la grandezza a partire dalle origini – in modo che non se ne perdano le testimonianze e l’impresa venga poi continuata dai successori , sia tramite il dare «esemplo»: in chiave etico-morale e politico-civile, centrando la riflessione sul tema delle «mutazioni averse e filici». Causa di queste, con esiti diversi nel corso degli eventi, risultano le ripetute divisioni tra i cittadini, da V. legate in primo luogo allo stesso mito delle origini, nella duplice e antitetica matrice romana e fiesolana, e ai peccati degli uomini fomentati dall’intervento diabolico, cui – secondo la logica provvidenzialistica e tradizionalmente religiosa di V. – fanno seguito i «flagelli» mandati in punizione da Dio. Pur nella frammentazione del racconto cronachistico, V. fa emergere il progressivo costituirsi dell’assetto istituzionale che trasforma la fisionomia politico-civile e militare dell’antico Comune e ne pone il nuovo baricentro nel ‘popolo grasso’ e nelle Arti. Socialmente e politicamente legato ai «buoni uomini di Firenze», «mercatanti e artefici», V. esprime negli ultimi libri un crescente disagio e fastidio, con toni polemici, per i reggenti e il loro operato, anche a causa dell’aumentato potere dei popolani minuti nelle istituzioni.
 
Il successo e la diffusione della Cronicafurono molto rilevanti, come attesta l’imponente tradizione manoscritta del testo. La monumentale opera di V. assunse un carattere quasi ufficiale, e divenne il caposaldo e il punto di partenza e confronto obbligato della successiva cronachistica e storiografia fiorentina. Sulla strada da lui indicata si pose subito il fratello Matteo (1285?-1363), la cui Cronica, pur non priva di un’autonoma diffusione, fu recepita, e poi utilizzata, come una continuazione di quella di Giovanni. Di intenti e prospettive in larga misura diverse, in cui prevalgono il tema della «novità» e un fine moralistico sostenuto da una visione cupa e sfiduciata, l’opera di Matteo è composta da undici libri, nei quali sono distesamente narrati gli avvenimenti dal 1348 al 1363. Il racconto relativo alla guerra dei fiorentini contro i pisani, rimasto interrotto a causa della morte dell’autore, fu concluso dal figlio Filippo (1325-1405), fino alla pace stipulata nel 1364. 
 
Dell’opera di Matteo e Filippo non si riscontra alcuna presenza in Machiavelli. Molte e significative sono invece le tracce della Cronicadi Giovanni nel secondo libro delle Istorie fiorentine, dove il nome è citato (insieme con quello di Dante) nel cap. ii in relazione a Fiesole, all’inizio delle considerazioni sulla fondazione di Firenze: segno esplicito della volontà di M. di non ignorare la tradizione cronachistica fiorentina messa in mora negli Historiarum Florentini populi libriXII di Leonardo Bruni (lo stesso avviene per la distruzione a opera di Totila, re degli Ostrogoti, e per il mito della riedificazione carolingia). A partire dal racconto della «prima divisione» del 1215, da cui la storia della città assume nella narrazione di M. significato autonomo e degno di memoria, la funzione della Cronicadi V. – come di quella di Marchionne di Coppo Stefani, che è però meno rilevante nel II libro – è quella di offrire a M. viva materia per sostanziare «particularmente», e con i nomi dei protagonisti, la narrazione della vita politica cittadina e soprattutto delle divisioni e civili discordie. Nella complessa rielaborazione e nell’intarsio di fonti del II libro, tra la narrazione bruniana e i cronisti (per un esame analitico cfr. Cabrini 1985, anche per la pregressa bibliografia), tra i passi in cui è particolarmente significativo l’apporto di V. si segnalano la vendetta contro Buondelmonte Buondelmonti, l’istituzione del priorato (xi), l’entrata di Corso Donati in Firenze nel 1301, la sua sconfitta e morte nel 1308 (xxiii), la condotta di Ramondo di Cardona (xxix), la congiura dei Bardi e dei Frescobaldi, l’operato di Gualtieri di Brienne duca d’Atene in Firenze (xxxiv-xxxvii), con lo Stefani, in alcune parti prevalente); il tentativo di Andrea Strozzi (xl, sempre con Stefani, mentre l’episodio è del tutto ignorato da Bruni). Interessa anche rilevare, nella narrazione riguardante Castruccio Castracani, la presenza di passi della Cronica, da M. presumibilmente già considerati in relazione alla stesura della Vita del condottiero e signore lucchese. 
 
Bibliografia: L.F. Green, Chronicle into history. An essay on the interpretation of history in Florentine fourteenth-century chronicles, Cambridge 1972; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; F. Ragone, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998; A.M. Cabrini, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma 2001. 
 
Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

Guerrazzi Francesco Domenico
Foto: rielaborazione dall'originale
Fonte: galileumautografi

 

Scrittore e uomo politico (Livorno 1804 - Cecina, Livorno, 1873). Si laureò in giurisprudenza a Pisa nel 1824, ma appena un anno più tardi esordì nella carriera letteraria con le Stanze alla memoria di Lord Byron(1825), un’esaltazione del poeta inglese conosciuto a Pisa poco tempo prima, la cui influenza sulla sua produzione fu sempre molto forte. Nel 1827 uscirono, sempre a Livorno, i quattro volumi di una delle sue opere maggiori, La battaglia di Benevento, un romanzo storico in cui già si rivelavano le qualità che restarono pressoché costanti nello scrittore: un vivacissimo e sfrenato patriottismo; la ricercatezza linguistica; uno stile convulso, baroccheggiante, pur con venature classicistiche; una predilezione per le tinte cupe e macabre che lo avvicinarono al romanzo nero inglese. Acceso democratico, fondò nel 1829 il giornale «Indicatore livornese» e si impegnò nei moti risorgimentali, subendo a più riprese arresti e condanne: durante i mesi di prigionia a Portoferraio scrisse le Note autobiografiche(pubblicate postume, 1899) e portò quasi a termine l’Assedio di Firenze, uno dei suoi romanzi storici di maggiore successo. A questo periodo della sua vita risale anche La serpicina, una riuscita satira della giustizia umana e della vita forense che fu pubblicata tra gli Scritti(1847). Nel 1848-49 fu tra i protagonisti della rivoluzione in Toscana: nel febbraio 1849, fuggito Leopoldo II, costituì un governo provvisorio con Giuseppe Montanelli e Giuseppe Mazzoni e il mese successivo fu eletto capo del potere esecutivo, esercitando di fatto una dittatura personale. Al ritorno del granduca fu processato e condannato a 15 anni di prigionia e, durante la sua detenzione nel carcere delle Murate a Firenze, scrisse Apologia della vita politica di F.D.G. scritta da lui medesimo(1851), una lunga autodifesa fortemente polemica verso i moderati e il sistema giudiziario toscano. La pena gli fu successivamente commutata nell’esilio in Corsica, da dove fuggì nel 1859 per raggiungere Genova. Qui soggiornò fino al 1862. Fu eletto nel 1860 deputato nel primo Parlamento nazionale, dove sedette per circa dieci anni, sempre schierato tra i banchi dell’opposizione contro le forze moderate. Nell’ultimo periodo della sua vita, mentre si distaccava dal dibattito politico, Guerrazzi mantenne intensa la sua produzione letteraria con il romanzo Il buco nel muro(1862), la sua opera artisticamente più notevole, L’assedio di Roma(1863-65) e Il secolo che muore(pubblicato postumo per intero nel 1885), continuazione poco riuscita del romanzo del 1862. Tra i suoi romanzi storici, per i quali divenne popolare tra i contemporanei, si ricordano anche Veronica CyboIsabella Orsini, entrambi compresi nella citata raccolta degli ScrittiBeatrice Cenci(1853) e Pasquale Paoli(1860), dedicato a Garibaldi.

Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 

La guerra italo-turca, iniziata con la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Turchia (29 settembre 1911), si concluse con la pace di Losanna sottoscritta il 18 ottobre 1912.

Cause della guerra. - Superata la crisi morale provocata dall'insuccesso dell'impresa di Abissinia, l'Italia, ammaestrata dalla dura esperienza dei passati errori, aveva iniziato una politica oculata per tutelare i suoi interessi nel Mediterraneo, il cui equilibrio politico era continuamente minacciato dall'incombente sfacelo dell'Impero Ottomano. Così essa partecipò con le altre potenze interessate all'occupazione di Creta e pose gli occhi sulla Libia e sul Marocco, i soli territorî rimasti esenti da influenze dirette europee nell'Africa Mediterranea. La Libia, principalmente, per la sua situazione geografica, era indispensabile all'Italia per la sua stessa sicurezza e per il suo avvenire di potenza mediterranea.

Tripoli attendamento Croce Rossa Italiana
Fonte: web

 

Tra il 1902 e il 1905 ebbero luogo fra Italia, Francia e Inghilterra accordi per la sistemazione delle rispettive aspirazioni coloniali e furono stabiliti i limiti delle zone d'influenza di ciascuna: la Francia ottenne libertà d'azione al Marocco e promise il suo disinteressamento qualora l'Italia avesse dovuto sostituire la Turchia in Libia. Germania e Austria non si opposero da principio alle aspirazioni della loro alleata Italia, ma, ritardando questa l'attuazione dei suoi disegni, fra il 1909 e il 1911 la Germania aveva pensato d'insediarvisi essa stessa o comunque esercitarvi la propria influenza diretta per mezzo dell'amica Turchia; ciò in relazione al progetto di una ferrovia transahariana che doveva collegare il Mediterraneo col futuro impero centro-africano che la Germania si riprometteva di formare collegando i suoi possedimenti del Camerun, dell'Africa Sud-occidentale e dell'Africa Orientale attraverso i territori coloniali della Francia, dell'Inghilterra, del Belgio e del Portogallo.

Il ritardo frapposto nell'attuazione del progetto era dipeso dal fatto che, sul principio, l'opinione pubblica italiana, per i dolorosi ricordi della campagna del 1895-96, rifuggiva da ogni politica di espansione. Ma poi, con l'aumentare del benessere e della tranquillità del paese, col formarsi in Italia di una coscienza coloniale, la questione libica cominciò ad appassionare l'opinione pubblica, specie quando, col risorgere della questione marocchina e con la definizione di questa, ancora una volta modificante a nostro svantaggio l'equilibrio mediterraneo, la parte illuminata della nazione (auspice l'Associazione nazionalista) comprese come non potesse rimanere allo stato di semplice aspirazione il diritto dell'Italia di avere assicurata in Libia una sfera d'influenza politica adeguata ai suoi interessi. Il pericolo, poi, vero o supposto, di un'occupazione tedesca della Libia, non fece che affrettare la decisione. La Turchia, già da tempo messa in sospetto dall'interessamento dell'Italia per la Libia, si era data a perseguitare i sudditi e le iniziative italiane nei suoi territori, offrendo più volte l'occasione di un intervento. Un ultimo incidente, nel settembre 1911, diede luogo alla dichiarazione di guerra (29 settembre). L'azione dell'Italia provocò il malumore di molte potenze rimaste deluse nelle loro speranze, malumore di cui si fece eco la stampa internazionale, senza riuscire peraltro a impedire all'Italia l'attuazione dell'impresa.

Fonte: treccani.it

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

“Il 28 dicembre 1908, il terremoto di Messina (M. 7.1) ha provocato più di 80.000 morti. Il terremoto di Messina del 1908 è il più distruttivo del XX e XXI secolo in Europa, ma la geometria e la cinematica della faglia che si è rotta sono ancora motivo di dibattito. È stato uno dei primi terremoti in Europa nel periodo strumentale, trasformando lo studio della sismologia, avviando l’interesse nei fattori ambientali dei terremoti in tutto il mondo, che ora sappiamo essere fondamentali per comprendere la geometria e la cinematica di una fonte sismica”, scrivono gli autori di un nuovo studio, tra cui A. M. Michetti (Università degli Studi dell’Insubria, Como) sul devastante sisma che ha colpito Messina e Reggio Calabria nel lontano 1908.

Terremoto di Messina
Fonte: Focus
 

“L’epicentro è stato localizzato nel Graben dello Stretto di Messina, d’accordo con gli effetti ambientali mappati”, scrivono gli autori dello studio, pubblicato su Nature, il cui obiettivo è stato quello di confinare la posizione, l’immersione e lo slittamento della faglia che si è rotta nel 1908, utilizzando le misure di livellazione dal 1907 al 1909. “È noto che le faglie capaci ben mappate intorno allo Stretto di Messina, localizzate sia sulla terraferma che al largo, coincidano con le compensazioni della stratigrafia del terreno. Queste compensazioni si saranno sviluppate a causa della ripetuta fagliazione che bilancia la superficie nel corso del tempo, quindi il fatto che non siano state modellizzate in dettaglio è una chiara omissione nello studio di questo grande terremoto”, sostengono gli autori.

“Diversi modelli precedenti hanno tentato di risolvere il dibattito di lunga data su quale sorgente sismogenetica potesse aver prodotto il terremoto di Messina del 1908. Noi dimostriamo per la prima volta che la qui chiamata Faglia Messina-Taormina è probabilmente la sorgente per il terremoto più distruttivo registrato in Europa nel XX e XXI secolo. Il riesame dei dati di livellazione dal 1907 al 1909 svela lo slittamento sulla faglia capace con un’immersione ad est di 70° e una profondità dip-slip di 5 metri, con lo slittamento che si è propagato alla superficie del fondale marino, con la rottura superficiale localizzata al largo sulla Faglia Messina-Taormina”, scrivono gli autori.

Per quanto riguarda un’altra questione molto dibattuta su questo grande terremoto, ossia il devastante tsunami generato, gli autori dello studio riportando che “non vi è accordo sulla causa dello tsunami; alcuni autori propongono un’importante frana sottomarina come causa del maremoto, mentre altri la escludono. Un’ipotesi alternativa suggerisce una causa composita, con uno spostamento cosismico del fondale marino insieme ad una notevole frana sottomarina all’interno dello Stretto di Messina”.

Il terremoto e il conseguente tsunami del 1908 hanno danneggiato gravemente le città di Messina e Reggio Calabria, provocando un tragico bilancio umano. Il boato del sisma fece tremare lo Stretto di Messina alle 05:20 del 28 dicembre e onde di altezza comprese tra 6 e 13 metri spazzarono via le coste siciliane e calabresi che si affacciavano sullo Stretto, compresi tutti gli abitanti che su quelle coste si erano rifugiati per tentare di sfuggire ai crolli. Metà della popolazione di Messina e un terzo di quella di Reggio Calabria persero la vita in quella che è considerata la più grave catastrofe naturale in Europa per numero di vittime e il più grande disastro naturale a colpire l’Italia in tempi storici.

Fonte: strettoweb

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

Nell'Ottocento, l'Italia fu devastata da un'esplosione di colera, una malattia che trovò terreno fertile nelle cattive condizioni igienico-sanitarie del tempo. Un'indagine parlamentare svolta tra il 1885 e il 1886 rivelò uno scenario allarmante, caratterizzato da mancanza di fognature, carenza di latrine e smaltimento inadeguato dei rifiuti. Questo contesto, combinato con la mancanza di acqua potabile e la generale sfiducia nella medicina ufficiale, contribuì a rendere l'epidemia di colera particolarmente letale.


Condizioni Igienico-Sanitarie Precarie:
L'indagine parlamentare evidenziò che la maggior parte dei comuni nel Regno d'Italia era priva di sistemi fognari, mentre meno della metà possedeva latrine. In alcune aree, gli escrementi venivano addirittura depositati negli spazi pubblici, amplificando il rischio di diffusione delle malattie. La carenza di acqua potabile aggravava ulteriormente la situazione, creando un ambiente ideale per la proliferazione del colera.


Problemi nello Smaltimento dei Rifiuti:
Lo smaltimento dei rifiuti rappresentava un grave problema, specialmente nelle periferie e nei paesi sprovvisti di servizi di nettezza urbana. La mancanza di un sistema efficiente portava all'accumulo di rifiuti per strada, aumentando il rischio di contaminazione e facilitando la diffusione del colera.


Arretratezza delle Conoscenze Mediche e Sfiducia nella Medicina Ufficiale:
Nell'Ottocento, le conoscenze mediche erano ancora limitate, e la popolazione aveva scarsa fiducia nella medicina ufficiale. Questa sfiducia complicò gli sforzi per contenere l'epidemia, poiché molte persone preferivano rimanere fedeli a rimedi tradizionali o addirittura evitare il coinvolgimento delle autorità sanitarie.


Misure Adottate e Fallimenti:
Per cercare di arginare l'epidemia, furono implementate misure come i cordoni sanitari marittimi e i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da zone infette. Tuttavia, tali provvedimenti si rivelarono inefficaci nel fermare la diffusione del colera, soprattutto nelle città più colpite come Napoli, dove l'epidemia si manifestò con particolare ferocia.


Conclusioni:
L'esplosione del colera nell'Italia dell'Ottocento rappresentò un drammatico risultato delle condizioni igienico-sanitarie precarie, dell'arretratezza delle conoscenze mediche e della sfiducia nella medicina ufficiale. Questo capitolo oscuro della storia italiana sottolinea l'importanza dell'igiene pubblica e delle politiche sanitarie nella prevenzione delle epidemie, fornendo lezioni preziose per il futuro.

Fonte: ambimed-group

 

 

Il colera a Pisa da il Corriere dell Arno 12 ottobre 1884

 

 

Il colera a Pisa Corriere dell Arno 12 10 1884

 

 

 Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

Fratellanza Militare logo

 

La Fratellanza Militare dei Combattenti: Un Legame Solido Tra Veterani e Soccorso Pubblico

Nel lontano 1872, prendeva vita in Italia un'associazione destinata a scrivere un capitolo significativo nella storia del supporto ai veterani militari. La Fratellanza Militare, o "Fratellanza Militare dei Combattenti", nacque con l'intento nobile di riunire coloro che avevano indossato l'uniforme e di promuovere il loro benessere, alimentando nel contempo il spirito di solidarietà tra i compagni d'armi.

Le origini della Fratellanza Militare erano intrise di un profondo senso di mutuo soccorso, poiché i veterani condividevano il peso delle esperienze belliche e cercavano un rifugio comune nella fratellanza che solo chi ha condiviso le stesse sfide può comprendere appieno. Tuttavia, fu solo nel 1878 che l'organizzazione ampliò la sua missione, dando vita alla "Compagnia Volontaria di Pubblica Assistenza".

Questa audace iniziativa, interna alla Fratellanza Militare, vide la luce con l'obiettivo di estendere una mano solidale non solo ai veterani, ma anche agli emarginati e agli infortunati della società. La "Compagnia Volontaria di Pubblica Assistenza" divenne il baluardo dell'umanità organizzata militarmente, impegnandosi nella missione nobile di portare aiuto concreto a coloro che si trovavano in situazioni di disagio.

I Militi Volontari, con il loro impegno, non solo offrivano assistenza agli ammalati, ma si dedicavano anche al soccorso in situazioni di emergenza. Le esercitazioni periodiche, precursori di ciò che oggi chiameremmo Protezione Civile, evidenziavano la preparazione di questa compagnia a rispondere con prontezza a qualsiasi evenienza, confermando il loro ruolo imprescindibile nella tutela della comunità.

Da allora, la Fratellanza Militare ha tessuto una trama di solidarietà e servizio, offrendo sostegno ai veterani delle forze armate italiane, specialmente nei delicati periodi che seguirono la guerra d'indipendenza e l'unificazione del Paese. Oggi, la loro eredità continua a vivere attraverso un impegno costante a promuovere il bene comune e a mantenere vivo il legame tra chi ha servito la patria.

Roberto Marchetti

 

 

Fonte: fratellanzamilitare.com

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giosafatte Baroni: Una Vita Di Passione e Impegno Politico

Nato a Pisa il 21 ottobre 1827*, Giosafatte Baldassarre Marchionne Baroni è stato una figura di spicco nel panorama politico e patriottico dell'Italia del XIX secolo. La sua vita è stata segnata da una fervente partecipazione ai movimenti per l'indipendenza e la ricostruzione del Gran Ducato di Toscana.

Già in giovane età, Baroni si unì ai movimenti cospiratori contro il governo lorenese, venendo costretto ad emigrare in Corsica. Nel 1848, all'età di ventuno anni, si unì al Corpo di Spedizione Toscano, combattendo valorosamente a Curtatone e Montanara nelle file del Battaglione Civico pisano-senese inquadrato nel IV Reggimento dei Cacciatori degli Appennini. 

Ferito e catturato dagli austriaci, fu imprigionato ma successivamente rilasciato, tornando a combattere l'anno successivo nella Battaglia di Novara.

La sua vita politica fu segnata da continue tensioni con le autorità, venendo ammonito più volte dalla polizia per le sue presunte connessioni con associazioni sovversive. Nel 1854 partecipò al fallito moto mazziniano a Pisa e nel 1859 si unì come cacciatore volontario al 1° Reggimento Cacciatori delle Alpi guidato da Garibaldi nella "Seconda guerra d'indipendenza".

Baroni, un fervente seguace dei principi mazziniani, ricoprì importanti incarichi, tra cui la presidenza dell'Associazione dei Reduci delle Patrie Battaglie e la fondazione della sezione pisana dell'AIL (Associazione Internazionale dei Lavoratori).

La sua partecipazione alla "Terza guerra di indipendenza" nel 1866 e alla sfortunata Battaglia di Mentana nel 1867 al fianco di Garibaldi ne fecero un eroe nazionale. Nel 1871, divenne membro del Consiglio direttivo della Società democratica internazionale, rappresentando la componente garibaldina.

Nel corso degli anni, Baroni continuò il suo impegno politico e sociale, assumendo la presidenza dell'Associazione di Mutuo Soccorso fra i volontari superstiti delle patrie battaglie nel 1872. Tuttavia, dopo il 1875, si allontanò gradualmente dal movimento internazionalista.

Nel 1884, a Pisa, fu fondatore e Comandante della Croce Rossa, una Compagnia di mutua assistenza.

Giosafatte Baroni si spense il 5 maggio 1899 a Pisa, lasciando dietro di sé una ricca eredità di impegno politico e sociale nella storia dell'Italia unita.

 
 
*Come da documento di Battesimo Opera Primaziale del 14 giugno 1850.
Fonti: siusa.archivi.beniculturali, bfscollezionidigitali.org, Centro archivistico della Scuala Normale Superiore
 
Bibliografia:
R. Romiti Bernardi, "Gli internazionalisti a Pisa dal 1864 al 1875", in "La Toscana nell'Italia unita. Aspetti e momenti di storia toscana 1861-1945", Firenze, Unione Regionale delle Provincie Toscane, 1962.
F. Bertolucci, "Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla nascita dell'Internazionale alla Camera del Lavoro", Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1988.
E. Capannelli e E. Insabato, "Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra '800 e '900. L'area pisana". Olschki, 2000
Ippolito Spadafora "Pisa e la Massoneria" Edizioni ETS, 2010
Alla memoria di giosaffatte Baroni, nel 1 anniversario della sua morte, gli amici, I compagni di pensiero ed azione consacrano, 5 Maggio 1900 Pisa : Tip. Ferdinando Simoncini, 1900 monografia
 
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

I magazzini della Croce Rossa erano ubicati presso l'Istituto Tecnico Antonio Pacinotti, situato nei locali di Palazzo Lanfranchi.

Questo istituto, dedicato alla memoria di Antonio Pacinotti, fungeva da sede ospitante per i depositi della Croce Rossa.

Il Palazzo Lanfranchi, a sua volta, costituiva l'ambiente fisico che accoglieva e forniva spazio per gli sforzi logistici e umanitari dell'organizzazione. In tale contesto, l'Istituto Tecnico svolgeva un ruolo cruciale nel supportare le attività della Croce Rossa, offrendo le strutture necessarie per gestire e distribuire le risorse destinate all'assistenza e al soccorso in situazioni di emergenza o necessità.

Roberto Marchetti

 

 Scuole tecniche
Foto: tratta dal web e rielaborata

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Non si hanno notizie certe che si tratti proprio di questo ex Convento in quanto ci sono altri ex conventi con lo stesso nominativo.
Nota del curatore del testo
 

Era una storia pressoché dimenticata.

Il 24 febbraio 1919 il capo missione della CR ungherese in Svizzera, Ernst Ludwig, dopo che una richiesta del 12 gennaio precedente era rimasta inascoltata, inoltrava al Cicr. una lettera nella quale esprimeva tutta la sua preoccupazione per una serie di reclami che aveva ricevuto dalla CR di Budapest sulla situazione dei prigionieri ungheresi in Italia. Prima di tutto i rilievi riguardavano il ritardo del rimpatrio dei prigionieri invalidi che avveniva 3-4 mesi dopo gli esami medici. In Italia ermo stati organizzati due campi di concentramento per Invalidi, uno a Calci (Pisa) e l'altro a Como. A Calci i prigionieri vivevano in condizioni primitive senza il bagno e nelle baracche il riscaldamento era del tutto insufficiente. Gli invalidi erano costretti a trascorrere molto tempo all'aria aperta così che, sosteneva la denuncia, le loro gambe e mani gelate dovevano essere amputati.

La Certosa ha svolto un ruolo importante durante la prima guerra mondiale. Da gennaio a marzo 1915 fu caserma del 32 ° Reggimento Artiglieria dell'Esercito Italiano, prima di diventare ospedale per soldati italiani dall'ottobre 1915 a dicembre 1916. Tra gennaio 1917 e dicembre 1919 fu trasformato in ospedale di transito per austro-ungarici Prigionieri di guerra, sottoposti a visita e spesso mesi di osservazione per distinguere i feriti e gli ammalati in buona fede da quelli autoinflitti, in vista del loro scambio con le controparti italiane. Accanto a questa funzione, nel 1918 la Certosa accolse alcuni profughi italiani da quelle parti del Paese che erano state sotto l'occupazione nemica. Fu solo nel 1920 che fu finalmente riportato alla sua funzione originaria.

Furono necessari numerosi rimaneggiamenti per trasformare la Certosa in prima caserma, poi ospedale militare e successivamente ospedale sicuro per i prigionieri di guerra nemici. Quest'ultimo prevedeva la costruzione di una garitta all'ingresso e l'erezione di muri e sbarre per impedire la fuga dei detenuti e l'ingresso in alcune aree di importanza artistica o storica. Gli ufficiali austro-ungarici erano alloggiati in stanze in varie parti del complesso, ma i prigionieri di grado inferiore molto probabilmente occupavano e ricevevano cure mediche negli edifici dell'ex granaio, magazzini e stalle che si estendono per oltre 4.000 metri quadrati. I prigionieri affetti da malattie infettive, che originariamente occupavano un certo numero di stanze di isolamento all'interno del monastero, furono trasferiti nel 1918 in tende nel parco contro il muro di fondo del complesso, ben lontano dagli edifici principali, probabilmente in risposta alle pressioni locali.

Dopo l'Armistizio, l'afflusso del numero degli infermi divenne ingente tanto che "con il passare dei mesi gli arrivi dei prigionieri aumentarono al punto che nel febbraio 1919 ne risultano 1.000, molti dei quali sistemati alla meglio per terra sulla paglia". 

La Certosa di San Giovanni Evangelista in Calci, comunemente nota come Certosa di Pisa o Certosa di Calci, è un complesso monastico, situato alle pendici del Monte Pisano, nel comune di Calci (Pisa), che ospitò un monastero certosino, attualmente sede del Museo Nazionale della Certosa Monumentale di Calci e del Museo di Storia Naturale dell'Università di Pisa (ala occidentale). 

 

Stalla magazzini granai alloggi dei soldati

Stalle, magazzini e granai adibiti ad alloggi dei soldati 

 

 malati certosa 1

Soldati nel chiostro grande

 

malati certosa 2

malati certosa

Soldati italiani nel cortile d'onore 

 

Carriages

 32°Reggimento artiglieria 

 

Fonte: 
josefkolbe-prisoner-of-war-calci (traduzione Roberto Marchetti)
Nessuno è rimasto ozioso: La prigionia in Italia durante la Grande Guerra Di Sonia Residori edizioni Franco Angeli
La Certosa di Calci nella Grande Guerra. Riuso e tutela tra Pisa e l' Italia, a c. di Gioli A., Edifir Edizioni Firenze 2015, p.72 
 
Foto: josefkolbe-prisoner-of-war-calci (traduzione Roberto Marchetti)
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

Le ambulanze da montagna, completamente someggiate su quadrupedi, durante il conflitto avevano assunto una vasta gamma di ruoli che superavano le loro funzioni originali.

Operavano sia in prima che in seconda linea, svolgendo compiti diversificati come infermerie presidiali, ospedaletti chirurgici, locali d'isolamento, depositi per casi sospetti e istituti di riposo.

La loro versatilità consentiva loro di adattarsi alle mutevoli esigenze del fronte, fungendo da punti cruciali per la gestione e il trattamento di feriti e malati in diverse situazioni operative durante il conflitto.

 

 
Autoambulanza della grande guerrra
Foto: sanitagrandeguerra.it 
  
ambulanza 3 carnia 1917
L'ambulanza n. 3 in Carnia (Tribuna Illustrata n. 36 del 1917) 

 

Queste piccole formazioni sanitarie, in numero di 32, avevano assunto una numerazione non progressiva: 3, da 7 a 10, 15, 20, 22, 24, da 29 a 33, 37, 40, 45, da 48 a 50, 59, 60, 67, 73, 75, 77, 82, 83, 85, 87, 88.

Ambulanza da montagna 30 
Accampamento dell'Ambulanza da montagna attendata n. 30 alla Cantoniera della Presolana. Fonto: lombardiabeniculturali.it
 
 

Fonte: sanitagrandeguerra.it

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 
Clarice Pierini Borella di Pisa, chiamata a prestare per tre mesi il generoso servizio di assistenza ai militari italiani feriti, che sarebbero stati trasportati dalla Libia in patria. La dama pisana precedette di poco la partenza di un contingente maschile, il tenente medico Luigi Bertini e i militi Cesare Angiolini, Cesare Bruschi, Raimondo Ferrigni, Aurelio Gianni, Oreste Liporatti e Antonio Scarpellini.

Salita sulla nave ospedale Menfi con il secondo turno e rimasta anche nel terzo, su precisa richiesta della marchesa Guiccioli, Clarice Pierini Borella tenne un diario dei suoi tre mesi di missione che costituì una preziosa testimonianza non solo della capacità professionale delle infermiere, ma anche della sensibilità umana sua personale e di quella delle sorelle, ma in particolare la loro rappresentante pisana, espressero verso quei disgraziati che venivano sottoposte alle loro cure.
 
Il 10 gennaio del 1912, rientrarono i militi pisani della Croce Rossa da Tripoli con il treno da Firenze, accolti da una folla i cittadini, dal loro presidente Bocciardo e dal segretario Vaccaneo, dall’onorevole Queirolo e da rappresentanze della Fratellanza militare e dei reduci d’Africa, dalla Banda dei Minori corrigendi, prima che si formasse un corteo, diretto dalla Barriera Vittorio Emanuele alla piazza Garibaldi.

Clarice Pierini Borella, che poteva fregiarsi ormai del distintivo che lo Stato Maggiore della Regia Marina aveva deciso di assegnare al personale imbarcato per servire sulle Navi Ospedale, fu poi invitata dal Comitato di Volterra, ormai tra i più attivi della provincia e non solo, a tenere una conferenza, corredata da un filmato, sulla guerra di Libia, presso il Teatro Flacco della città etrusca, in occasione della Festa del fiore che doveva servire anche a rilanciare il sostegno economico alla Croce Rossa. Per parte loro, le Dame pisane organizzavano nei giorni del natale, in sintonia con quanto facevano le sorelle di altre città, una vendita di distintivi patriottici, il “trifoglio” d’Italia, in metallo smaltato con foglioline dei tre colori nazionali. Alla raccolta di fondi contribuirono anche gli studenti con le rappresentazioni teatrali.
 
Dal 26 maggio 1915 al 1925 ha assunto l'ncarico di Ispettrice provinciale delle II.VV.
 
Onorificenze e decorazioni
1912 Medaglia d'argento concessa dal Ministro della Regia Marina.
1919 Attestato di nenemerenza da parte del Corpo D'Armata di Firenze.
Medaglia d'argento al Merito C.R.I.
Attestato al Merito della C.R.I.
 
 
Bibliografia
Clarice Pierini Borella, Tre mesi come infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana sulla nave “Melfi”. Diario di bordo, Pisa, Mariotti, 1912
Cfr. Alberto Galazzetti-Filippo Lombardi, La Croce Rossa Italiana nella guerra di Libia, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 753
Barbara Baccarini, La strutturazione dei soci e le componenti femminili della Croce Rossa Italiana, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 435.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 14 gennaio 1912.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 24-31 dicembre 1911. 55
 

Fonte: Storia della Croce Rossa in Toscana dalla nascita al 1914 I studi

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 


Logo CRI Comitato di Pisa

 
 
 
Un popolo che non conosce la storia è circoscritto al momento presente della generazione contemporanea
Arthur Schopenhauer

 

La Croce Rossa Italiana a Pisa

Prima parte dal 1883 al 1915 

Il 21 ottobre del 1883, a Pisa, veniva presentato il programma per la costituzione del Consolato operaio delle Associazioni liberali della provincia di Pisa, ovvero l’associazione provinciale di tutte le società che si richiamavano ai valori condivisi del Risorgimento.

Per lo più legate all’area radicale e massonica, si trattava di organizzazioni laiche, aperte a vari orientamenti coerentemente con la complessità ideologica garibaldino-mazziniana. Il programma si riprometteva il «miglioramento intellettuale, economico e politico della grande famiglia dei lavoratori», lo sviluppo dell’istruzione affinché gli operai potessero meglio attendere ai loro doveri e aspirare ai loro diritti, lo sviluppo del mutuo soccorso, della cooperazione e della partecipazione agli utili di impresa, il conseguimento del suffragio universale. L’elenco di società aderenti comprendeva ben 22 soggetti, fra cui la Fratellanza Militare di Mutuo soccorso di Pisa; è in questo ambito di associazionismo popolare che compare quindi il primo segnale di un’idea di Croce Rossa a Pisa.

Un anno dopo, con un manifesto del 31 ottobre 1884 a firma del “comandante” Giosafatte Baroni, che agiva a nome del Comitato promotore, veniva annunciata la costituzione in Pisa della compagnia di mutuo soccorso e di assistenza “La Croce Rossa”, militarmente ordinata, avente come scopo «il mutuo soccorso e l’assistenza di ogni ordine di cittadini in caso di pubbliche calamità o di parziali ma gravi disgrazie», prestando l’opera sua esclusivamente umanitaria, o per propria iniziativa o per mandato affidatole dall’autorità provinciale o comunale. Il nome di Baroni riconduceva alla massoneria e al mondo risorgimentale, in quanto quel personaggio, assai noto nel territorio, aveva un ricco passato di partecipazione agli eventi del movimento garibaldino e post-garibaldino; era stato anche un convinto internazionalista, legato ai gruppi più radicali nei primi anni settanta dell’800.

Le circostanze in cui nasceva quel primo tentativo di Comitato della Croce Rossa pisana erano comunque drammatiche e contingenti, perché legate allo scoppio dell’epidemia di colera che non aveva risparmiato neppure la “salubre” Pisa. Si deve dunque pensare a un’iniziativa del mondo laico, che così intendeva differenziarsi dalla Misericordia, ma che dal punto di vista delle modalità di allora non corrispondeva agli scopi ufficiali della organizzazione, che a quel tempo andava strutturandosi a livello nazionale e regionale. L’esperienza di questo primo comitato, che a Pisa si era intitolato Croce Rossa, ebbe quindi una vita abbastanza breve, anche per ragioni politiche.

Fu così che nacque nel 1888 un nuovo Sotto Comitato della Croce Rossa Italiana di Pisa, formalizzato a seguito di un’assemblea di cittadini e di autorevoli rappresentanti del notabilato, tenutasi il 25 agosto di quell’anno nella sala del Consiglio comunale. L’elemento propulsore di questa operazione era l’avvocato e giurista Emilio Bianchi, professore, civilista e politico di orientamento monarchico-costituzionale, il che faceva comprendere come la nuova Croce Rossa a Pisa nascesse in un contesto decisamente alternativo a quello in cui si era formato il primo sodalizio recante quel nome.

Il Sottocomitato di Pisa, che già all’inizio contava 111 iscritti, cominciò la sua attività sotto la presidenza del Tenete Generale Francesco Villani, con vicepresidenti lo stesso professor Bianchi e il cavalier Giuseppe Calvagna. Gli uffici furono situati presso la Regia Prefettura di Pisa ed il magazzino materiali, situato in locali presso le Scuole Tecniche, rimase lì fino alla smobilitazione del 1919.

La nomina di Villani come presidente dovette avere un carattere contingente e di urgenza; già l’anno successivo gli subentrò infatti il prof. Domenico Barduzzi, che sarebbe rimasto in carica fino al 1893. Barduzzi era un prestigioso medico e professore universitario, nonché direttore delle Terme di San Giuliano; il suo era un ruolo più che altro rappresentativo, essendo svolte tutte le principali funzioni operative dal vicepresidente Bianchi, vero ispiratore del sodalizio e personaggio di assoluto rilievo nel panorama politico cittadino, esponente attivo anche nel campo della propaganda liberale-monarchica.

Pisa intanto veniva considerata sempre più strategica in prospettiva militare; nel 1892 la Croce Rossa Italiana di Pisa venne incaricata di predisporre un Ospedale Territoriale da 120 posti letto presso l’ ex Convento di San Giovannino, attività pensata soprattutto in funzione del crescente impegno coloniale. Nel 1893 la presidenza del Comitato venne affidata di nuovo a un medico, il maggiore Emilio Bartalini che aveva fatto parte del consiglio fin dagli esordi.

Negli stessi anni si registrava la crisi della locale Misericordia, colpita da una scissione che dava luogo a un altro ente, la Croce Bianca, di ispirazione più laica e massonica.
Nel 1899 le grandi manovre dell’VIII Armata, che prevedevano l’impiego della Croce Rossa, impegnarono anche Pisa che contribuì al funzionamento di un ospedale da campo n. 21, operante tra il Mugello e l’Aretino. In funzione di questo impegno, fu acquistata una tenda di medicazione, un’ambulanza da montagna completa di dotazioni e fu predisposto un corso d’istruzione per il personale volontario presso l’Ospedale Civile.

Il Comitato di Pisa cominciava ad avere un peso patrimoniale e finanziario non trascurabile. Come altrove, svolgevano un ruolo importante anche le Dame della Croce Rossa che, nel 1907, come sezione femminile, furono protagoniste delle attività di finanziamento, organizzando con un certo successo diverse feste di beneficenza. Per il terremoto di Messina del 1908, la Croce Rossa pisana si mobilitò allestendo nella stazione ferroviaria di Pisa San Rossore un “Posto di Pronto Soccorso”, garantito da un Ufficiale e tre militi della C.R.I., e con le dame di Croce Rossa che prestavano assistenza come infermiere durante il passaggio di convogli con feriti e profughi sfollati dalle zone terremotate. Il lavoro svolto in quell’occasione portò al Comitato di Pisa tre onorificenze, tra cui una medaglia di bronzo.

Non ci fu dunque difficoltà ad organizzare anche a Pisa, come già veniva fatto altrove, un primo corso per Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, istituito nel maggio del 1909, con le prime diplomate effettive dal luglio del 1910.

Nel 1909, intanto, era stato chiamato alla presidenza il prof. Dario Bocciardo, esperto di radiologia medica, che dovette gestire un periodo delicato di riorganizzazione del sistema pisano della assistenza sociale (è di quegli anni la fusione di Pubblica Assistenza e Croce Bianca in un unico organismo). Bocciardo, uomo di idee innovative, era un convinto fautore di una decisa accelerazione nei metodi e nella organizzazione della C.R.I., che implicava una presenza assai più attiva nella società civile.

Nel 1910 la Croce Rossa di Pisa subentrò alla Società di Mutuo Soccorso Croce Bianca del Piano di Pisa (che aveva sede a San Frediano a Settimo), assumendone la quota di lavoro e ampliando così il proprio ambito territoriale. Tutto questo imponeva una continua ricerca di fondi, che specialmente le dame seppero perseguire con grande alacrità, raggiungendo l’apice con il grande avvenimento del ballo per la Croce Rossa organizzato a Pisa il 18 febbraio 1911.

Gli avvenimenti politici, però, fecero sì che si imponesse di nuovo ben presto la fisionomia originaria dell’impegno sui campi di battaglia. Allo scoppio della guerra italo-turca per la Libia, l’infermiera volontaria Clarice Pierini Borella di Pisa fu chiamata a Tripoli a prestare servizio di assistenza ai militari italiani feriti. La dama pisana precedette di poco la partenza di un contingente maschile, guidato dal tenente medico Luigi Bertini. Il 10 gennaio del 1912, al loro rientro da Tripoli, i militi pisani della Croce Rossa furono accolti da una folla di cittadini, che li accompagnò in corteo dalla stazione fino in piazza Garibaldi.

Nello stesso anno 1912 il Comitato di Pisa passò sotto la presidenza del professor Giuseppe Tusini, clinico universitario, direttore dell'Istituto di Patologia Chirurgica. Dal 1914 la C.R.I. di Pisa si dedicò soprattutto al potenziamento delle risorse, alimentando la raccolta di fondi da investire nell’acquisto di strumenti e di materiali, oltre che nell’organizzazione di corsi di addestramento di diverso tipo.

Tra le altre cose, dall’inizio del 1915 Pisa lavorò alla fondazione, nella sua zona, della Croce Rossa Italiana Giovanile, organizzazione creata per gli ambienti scolastici, rivelatasi particolarmente efficace sul territorio. Il successo tra gli studenti doveva riferirsi anche alla propensione che molti giovani manifestavano per l’intervento in guerra, verso il quale i dirigenti locali della Croce Rossa di Pisa non si mostrarono ostili. Incombevano però anche le questioni “civili”.

Alla fine di febbraio dello stesso anno, la Croce Rossa Italiana di Pisa si mobilitò infatti per il terremoto della Marsica che aveva fatto circa 30.000 vittime. In breve tempo fu disposto l’invio di coperte, vestiario e viveri e si organizzarono squadre di soccorso per contribuire allo slancio nazionale. Meno di tre mesi dopo, il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarava la guerra all’Austria – Ungheria.

A cura di: Alessandra Pollina

 

Bibliografia:
Emilio Avv. Prof.  Bianchi, La Croce Rossa Italiana. Il suo Passato e il suo Avvenire, Conferenza pubblica tenuta nel R. Teatro Ernesto Rossi il 16 giugno 1889, Pisa, Tipografia T. Nistri e C,  s.d.,
Vasco Galardi, La storia cronologica della CRI nella provincia di Pisa; dal 12 maggio 1820 all 23 dicembre 2000, Casciana Terme, Tipografia Fracassi, 2001. 
Ministero per i Beni e le Attività culturali Biblioteca Universitaria di Pisa, Un secolo di associazionismo nel territorio pisano (1850-1950), Pisa, Edizioni ETS,  2000.
Ippolito Spadafora, Pisa e la Massoneria, Pisa, Edizioni ETS, 2010.
Sandra Cerrai, Pubblica Assistenza SR Pisa Un lungo cammino assieme, 134 anni di solidarismo e mutualità (1886-2019), Pisa, Il Campano, 2021.
Maurizio Vaglini, L'Ospizio Marino di Boccadarno nella storia di Marina di Pisa, edizioni Phasar, 2012.
Gianluca Fulvetti e Stefano Gallo edizioni, Antifascismo, guerra e resistenza a San Giuliano Terme, Pisa, Edizioni ETS, 2014.
Alberto Zampieri, Pisa negli anni della Grande Guerra, Pisa, Pacini editore, 2015.
Massimo VitalePerò mi fò molto coraggio, Edizioni ETS, Pisa, 2016.
Antonio Cerrai e Giuseppe A. Cacciatore, Storia del Comitato di Pisa di , nella raccolta “Storia della Croce Rossa in Toscana dalla nascita al 1914. I. Studi” a cura di Fabio Bertini Costantino Cipolla Paolo Vanni, Milano, Edizioni Franco Angeli, 2023.
 
 
 
 
Seconda parte dal 1915 al 1928  

in costruzione

 

 

 

 


Ricerca storica: Giuseppe Cacciatore e  Roberto Marchetti 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siluet uomo Siluet uomo a Emilio Bianchi  Barduzzi Domenico 1 Siluet    
Giosafatte Baroni  On. Gen. Francesco Villani  On. prof. avv. Emilio Bianchi Prof. Cav. Barduzzi Domenico  Sorella Clarice Pierini Borella    
             
             
             
             
Antonio Cesaris Demel c  Giuseppe Tusini 3  merelli livio Pardi Francesco 1 Livia Gereschi Marassini Alberto 1   
Prof. Dott. Antonio Cesaris-Demel   Gr. Uff. Prof. Tusini Giuseppe  Dott. Livio Merelli Prof. Pardi Francesco  Sorella Livia Gereschi  Prof. Marrassini Alberto  
             
Rossi Vincenzo 1 Letizia Da Cascina           
 Prof. Rossi Vincenzo  Sorella Letizia da Cascina              
             

 

 " Nessuno muore sulla terra finchè vive nel cuore di chi resta"

 

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gr.Uff. Dr. Paolo Padoin

 

 Franco Mosca

 

Cav. Gran Croce Dr. Rodolfo Bernardini

Gr.Uff. Dr. Paolo Padoin Comm. Prof. Franco Mosca Cav. Gran Croce Dr. Rodolfo Bernardini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sottocategorie