Croce Rossa Italiana - Comitato di Pisa
 
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Fonte: quinewspisa
 
La “sconfitta vittoriosa” (1) di Curtatone e Montanara, la cui durata fu solo di poche ore, ha avuto sin dall’inizio un forte impatto nella popolazione, diventando di fatto un cardine della pedagogia patriottica toscana (2). Il 29 maggio, come ha messo in luce Costantino Cipolla, diventò una data emblematica della storia della formazione del paese, perché, in questo giorno.
 
Un esercito, potente, classico, strutturato, addestrato, solido, sempre in azione, si scontrò con un esercito composto per il 50% da volontari senza alcuna esperienza di guerra; perché un mondo di nobili si oppose o assalì un mondo già di borghesi; […] perché il divario fra i belligeranti fu enorme sul piano delle forze in campo; perché, come è facile provare, il battaglione universitario toscano, che andava a combattere con la sua spavalda gioventù e con la sua élite culturale contro lo straniero usurpatore è rimasto nella memoria collettiva della nazione; perché la battaglia, proprio forse per la presenza di tanti intellettuali, fu molto raccontata, descritta, testimoniata, interpretata; perché fu combattuta per conto terzi – i piemontesi-, pur non avendo da terzi alcun supporti; perché pur nella sconfitta, essa evitò agli austriaci di mettere in atto il loro piano di aggiramento dell’esercito sabaudo; […] perché il volontariato che qui si espresse fu puro, senza carismi trascinanti, extra-territoriale e coprì quasi tutto il centro e il sud (Cipolla 2004a, 18).
 
La battaglia di Curtatone e Montanara riassunse in sé una molteplicità di significati: attorno a questa data si concentrarono alcune “figure profonde” (3) – come il lutto, l’eroismo e il martirio –, che furono rielaborate in maniera originale grazie all’intreccio con il substrato mitico e simbolico che contraddistinse la battaglia stessa.
Il primo di questi “aggregati tematici” ruota attorno al concetto di epicità. Lo scontro tra i volontari toscani e le truppe austriache fu presentato già dai contemporanei come una battaglia epica, che trovava i suoi naturali riferimenti nel mondo classico e nel mondo cattolico. Ancora nel periodo giolittiano i riferimenti religiosi della giornata erano molto forti: il 29 maggio era festeggiato prevalentemente con una funzione a suffragio dei caduti e, sebbene non si trovassero più frequentemente i riferimenti alla “crociata di civiltà” (4), ancora si poteva leggere sul settimanale “Stella Cattolica” come il nome di Curtatone e Montanara rimandasse all’“amor di patria, alla pietà dei defunti, alla grandezza d’Italia, alla maestà del rito e alla santità di Dio” (5).

Pare invece che il riferimento all’epicità del mondo classico permanesse più saldamente fino all’inizio del XX secolo. La battaglia, che provocò un forte impatto emotivo nella popolazione fiorentina, fu da subito assimilata al sacrificio di Leonida e dei suoi trecento spartani al passo delle Termopili (6).
 
Curtatone e Montanara diveniva così l’emblema dell’avanguardia del rinnovamento in atto nel paese; non solo, tramite questo processo di assimilazione il 29 maggio diventava “un modello di lotta della civiltà contro la barbarie, della libertà contro il dispotismo, dei pochi contro i molti, e ancor più del sacrificio volontario, della gioventù offerta per il bene della patria” (De Laugier 1854, 131). La familiarità del mito fece sì che la battaglia continuasse a rappresentare, nel corso degli anni, un punto fondamentale della storia del Risorgimento e un motivo d’orgoglio per i cittadini di Firenze. Il riferimento all’epicità classica, con il conseguente portato di valori etici e morali, proseguì durante i decenni successivi a ulteriore riprova di quanto esso fosse stato assimilato dalla popolazione.

Così, sul “Nuovo Giornale” del 1907 Maffio Maffi celebrava i martiri di Curtatone e Montanara ricordando come la loro gloria, al pari di quella degli Spartani, rimanesse immutata di fronte ai grandi cambiamenti dell’epoca.
 
Attraverso le generazioni, gli anni, i mutamenti di idee, i grandi fatti eroici della nazione e della stirpe non si dimenticano. Muore la civiltà ellenica, dileguarsi tra le ombre del passato la Gloria dello Spirito Greco, ma vivono di vita eterna, oltre che nel canto di Simonide, anche nell’immaginazione e nel cuore dei popoli, i difensori del passo delle Termopili, dell’invasione della barbarie, della ferocia, della tirannide. Non morrà in Italia il ricordo dei difensori toscani che con animo non impari a quello del leggendario manipolo lacedemone, apposero i loro petti alle orde avanzanti tra Curtatone e montanara sui campi italiani a ripristinare il dominio del giogo feroce e della tirannide austriaca. Oggi, l’Italia, la Toscana e Firenze, in quella regione ideale del tempo, della storia e della gloria che il tempio di Santa Croce, innalzano a quel ricordo i pensieri più puri e dedicano a quella gloria il fiore delle loro speranze. Ma che la speranza non sia vana. E che i cuori, nella speranza, non siano fiacchi, ma vivi. L’Italia deve trovare negli eroismi del passato, non un pretesto soltanto a cerimonie ufficiali, bensì il coraggio, la dignità e la forza di non essere indegna di quelli né per il presente, né per l’avvenire (XXIX Maggio, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1907).

Il riferimento al mito del mondo classico fu riproposto in modo consistente anche nel 1908, anno del sessantesimo anniversario della battaglia. L’assimilazione tra Curtatone e le Termopili apparve in molti giornali e nei numeri unici editi per l’occasione, il che porterebbe a pensare ad un mito largamente condiviso e senza una particolare connotazione politica. Se “La Nazione” (Dopo sessant’anni, 29 maggio 1908), ricordando i morti in battaglia parlava di “spartano eroismo”, era ancora “Il Nuovo Giornale” a fare un largo uso della comparazione ideale. Il quotidiano, in un lungo editoriale, poneva le “Termopili toscane” come l’apice di un percorso storico in cui la saggezza, il coraggio e l’anelito alla libertà delle generazioni fiorentine precedenti trovavano finalmente piena attuazione.
 
Popol nostro che trai origine e rechi conforme geniale sottigliezza di spiriti della prima saggezza etrusca, feconda, durevole forza dalla solenne austera imperiosità romana, agil cortesia e santo ardore di libertà, dalla sonora, operosa primavera dell’Italico comune, della ricca e bellissima opulenza delle Repubbliche superbe – popol nostro, in alto le anime e i cuori, dalla votiva odierna cerimonia. […] Nella gioia selvaggia e deserta delle Termopili, là dove la schiera immortale condotta da Leonida si fece intera trucidare, prima di lasciar passo alle soverchianti forze straniere, alle ognor rinnovate falangi Persiane, sorse una stella effigiata da una rude figura di guerriero. E nella sua base, iscrizione degna delle gesta di chi l’aveva compiuta si leggevano sol queste poche, ma sublimi parole: O passeggero, tu di a Sparta, che noi qui siamo tutti morti per obbedire alle sue leggi”. Se una simile sorgesse sui campi di Curtatone e Montanara essa potrebbe con egual gloria, con più alto valore spirituale ammonire: “Noi qui morimmo non per altrui, e fosse pur cittadina legge; ma per adempiere il nostro proprio destino; perché più nobile e puro battesimo di sangue non potesse avere la sorte nuova della patria – la fortuna d’Italia!” (29 maggio 1948, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1908).

Sempre nel 1908 un gruppo di studenti fiorentini pubblicò un numero unico sulla battaglia di Curtatone e Montanara che vide la collaborazione di alcuni tra i più importanti intellettuali della città, come Pietro Barbéra, Vamba, Renato Fucini, Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana e Domenico Zanichelli (7). Nell’introduzione di Giuseppe Rondoni i riferimenti all’eroismo classico erano molteplici e non si fermavano solo all’accostamento con le Termopili. Nella prefazione al volume egli recuperava un altro esempio – quello della battaglia di Maratona – che pareva testimoniare quanto il mito del piccolo esercito di cittadini liberi, che combatte contro un esercito più numeroso, al soldo di un tiranno, per difendere la libertà, fosse stato largamente utilizzato. Nello spiegare le motivazioni della pubblicazione egli scriveva che
 
Quest’anno una schiera di giovani, che negli studi cercano non solo la cultura della mente, ma ispirazioni ed argomento ad ogni nobile intrapresa, vollero con questo libretto alla commemorazione augurare dare più valido impulso e significato, sia come pegno di gratitudine e di conforto alla schiera superstite, ahimè sempre più scarsa, dei nostri, emuli di Maratona, sia per eccitare e far palesi ad un tempo gli ideali donde traggono gli auspici per le battaglie ella vita, dell’avvenire e del progresso (Rondoni 1908, 5). 
 
Poche pagine oltre, Rondoni utilizzava anche il solito accostamento con il mito delle Termopili; tuttavia, nel farlo, apriva un interrogativo di fondo sulle differenze motivazionali tra i due eserciti:
 
La epica pugna di Curtatone e Montanara viene definita le toscane Termopili; ma il paragone solo in parte è giusto, dacché se gli Spartani caddero devoti alle patrie leggi, è pur vero che queste nel ferreo rigore dello antico stato riserbavano ai superstiti della sconfitta la schiavitù e la vergogna; una vita peggiore di mille morti. Onde il patriottismo, l’eroismo, era per quei guerrieri un dovere. Invece chi obbligava i nostri volontari ignari di milizia? […] Il desiderio della patria, che tendeva loro le braccia, l’invase coll’impeto del primo amore, e, senza calcoli di gretto utilitarismo si immolarono a lei, esultanti pel dovere compiuto fino al martirio, e perciò grandi e meritevoli quanto gli antichi eroi, che li avranno accolti riverenti ed ammirati nel fulgido coro (8)

 Gli eroi di cui si parla nel testo sono giovani che accanto alle virtù classiche e alle passioni romantiche hanno già delle caratteristiche moderne, come il volontarismo e l’impegno civico. Questo passaggio, oltre a mostrare un parziale cambiamento nella percezione del personaggio eroico, pare anche testimoniare il suo carattere polisemantico e sincretico (Mascilli Migliorini 1984) che lo rende “una figura eclettica e malleabile che, come un racconto, può essere sottoposto a numerosi aggiornamenti e adattamenti” (Riall 2008, 43).

Nello specifico, i patrioti che si ricordavano a Firenze nel 1908 avevano ancora alcune caratteristiche degli eroi omerici, ma erano già proiettati “nel quadro di una dimensione borghese, nella quale l’impostazione eroica si democratizza e slarga i suoi confini” (Tobia 2008, 47). Sebbene si celebrasse una battaglia corale, questa appariva composta da un coro di singole voci; non si commemorava più un generico battaglione, ma un insieme di giovani che volontariamente avevano deciso di combattere per la patria.

La libera decisione di partire per la guerra appariva quindi come una delle basi del secondo aggregato tematico collegato alla memoria storica di Curtatone e Montanara: l’esemplarità dei giovani combattenti. Il volontarismo, inteso come “una delle più significative esperienze del processo di unificazione nazionale italiano e una delle componenti del mito dell’esperienza di guerra” (9), offriva un nuovo modello di impegno civico ad un’ampia parte della borghesia italiana e contribuiva a formare un nuovo modello maschile per il popolo italiano che fu poi ampiamente diffuso tramite libri, memorie e commemorazioni.
Nel caso specifico delle onoranze ai caduti del 29 maggio, il volontarismo era assunto come un valore, come un “insegnamento di idealità interessata, di moralità portata all’estremo, di un impegno vocato al disinteresse per sé” (Cipolla 2004b, (12).

La partecipazione spontanea al conflitto, tuttavia, era solo uno dei motivi dell’esemplarità dei combattenti. Un’altra caratteristica che fu spesso enfatizzata nel ricordo dei caduti era l’ambito di provenienza di parte dei volontari. Tra le formazioni impegnate nella battaglia del 29 maggio, un ruolo simbolico molto importante fu assunto da quella “élite politico-socio-culturale costituita da alcuni grandi scienziati (Mossotti, Corticelli, Pilla ecc…) e da molti dei loro ‘scolari’” (Calzolari 2004, 9). Il battaglione universitario toscano acquisì nel tempo una grande fama in ambienti politici e militari al punto di ricevere, nel 1910, la medaglia d’argento al valor militare. Gli studenti e i professori delle università di Pisa e Siena che morirono a Curtatone e Montanara acquisirono un posto privilegiato nel ricordo dei fiorentini e dei toscani e il loro sacrificio assunse un significato del tutto speciale: la loro formazione militare, raccogliendo i più influenti docenti e la più colta, erudita ed influente gioventù toscana, divenne da subito il simbolo dell’alto tributo che la Regione aveva pagato per il compimento della rinascita nazionale. A Curtatone e Montanara, infatti, come hanno scritto Mirtide Gavelli e Otello Sangiorgi, “le virtù civili si erano finalmente ricongiunte con le tradizionali virtù poetico-letterarie, e questo era così significativo dato che gli eroi di Curtatone provenivano dalla Regione che da sempre è stata considerata la culla della civiltà italiana; anzi, si trattava di professori universitari, deputati, anche da un punto di vista professionale, a custodire la cultura patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132).

La Toscana, inoltre, sentiva di aver perso in quell’occasione un’intera futura classe dirigente, formata da quei giovani che per lungo tempo avrebbe elevato a simbolo di esemplarità; essi con il loro sacrificio rimasero a lungo una presenza forte del Risorgimento, poiché con la loro morte “incarnavano il mito del giovane colto che sacrifica il suo brillante avvenire e la sua stessa vita per il bene della patria” (Gavelli, Sangiorgi 2004, 132). Il connubio tra cultura e patriottismo, rappresentato dai caduti del 29 maggio, superò agevolmente il passare del tempo e fu riproposto più volte negli articoli, nelle poesie e nelle commemorazioni. Un esempio è offerto dal discorso che Eugenio Coselschi tenne alla Pro Cultura in occasione dell’anniversario del 1911 (10).
 
Egli, parlando agli operai intervenuti, ricorda come:

In quel giorno di maggio nei piani di Lombardia tutti rigogliosi di messi, una più ricca messe di vita si disperdeva, se voi pensate che tra i caduti in quel giorno erano le più belle speranze della scienza e della patria, che tra i volontari pugnanti in quel memorabile sforzo, erano medici, avvocati, studenti, la più eletta parte, la più nobile figliolanza della Toscana, se nobiltà non può essere che altezza di ingegno, volontà di studio, potenza di sentimento; se voi pensate che nelle schiere che il brutale imperio soffocò erano le vivente espressioni delle scolari grandezze delle città nostre, della civiltà nostra, della nostra libertà popolana, muore sul labbro la parola del perdono, e rossa infrenabile, istintiva e possente dovrebbe sorgere invece la parola della maledizione (11).

Accanto al tema della cultura, l’estrema giovinezza dei patrioti, riportata anche a distanza di decenni da giornali e oratori, era un’ulteriore caratteristica che concorreva a incrementare il mito della straordinarietà dei combattenti. Con un età media inferiore ai vent’anni, gli studenti del battaglione universitario toscano erano elevati alla gloria come agnelli sacrificali (Banti 2011, 73). L’immagine più usata per ricordare i giovani patrioti toscani stroncati nel pieno della vita fu quella dei fiori, come a voler riallacciare simbolicamente la battaglia di Curtatone e Montanara alla metafora del movimento della “primavera dei popoli” del 1848. Così, nel 1908, “Il Nuovo Giornale” ricordando la “gloriosa sconfitta”, scriveva:
 
Che importa se fortuna di vittoria non arrise alle schiere di Curtatone e di Montanara? Ci sono sconfitte nelle quali assai più degno e memore e glorioso è il soccombere che il rimaner superiori. Le due campagne, i due fatti d’arme che la terra nostra celebra oggi di ricordevole e pietosa onoranza sono di tal numero. Ricordiamo pertanto il dilagar di alfieri entusiasmi, il lirico fiorir dei bellissimi eroismi il Maggio eterno e simbolico – il tuo Maggio, o sacra Primavera del ’48! (29 maggio 1948, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1908).

Sembra inoltre che l’immagine della primavera fosse utilizzata per instaurare un parallelismo tra la giovane età dei caduti – i morti in battaglia erano nel fiore degli anni – e il movimento di rinascita che stava attraversando la patria. L’affinità appariva anche grazie all’utilizzo di termini come “risorgimento” e “resurrezione”. Nella poesia pubblicata dagli studenti fiorentini nel loro numero unico appariva appieno questo voluto gioco di parole:
 
Quando toscana bella a primavera/ La sua ghirlanda nuzial prepara,/voi risorgete al sole in balda schiera,/Morti di Curtatone e Montanara./Ma riguardando della patria cara/ogni vetta, ogni piaggia, ogni riviera,/ Di lei che a voi parea così preclara/ Ritrovate l’imagine primiera?/ Morti, non so: ben vi ricorda ancora/ Italia madre, e prega in Santa Croce/Pace e l’anime vostre e a le vostre ossa./ E come a maggio il vento dell’aurora/ Reca mesta e augural la vostra voce,/Par ch’ogni rosa sia di sangue rossa (Rossi 1908, 5).
 

Assunta in questo contesto, anche la simbologia floreale assumeva una doppia valenza: da un lato, essa rappresentava la vita stroncata dal fuoco nemico, dall’altro sembrava essere usata come simbolo di rinascita della nazione e delle nuove generazioni.
Nel primo caso, i combattenti del battaglione universitario toscano erano raffigurati come germogli primaverili falcidiati dal fuoco nemico, oppure come fiori dai petali rossi. L’utilizzo della simbologia delle “rose purpuree” rimanda chiaramente al colore del sangue che era più volte menzionato negli articoli celebrativi e nelle poesie (12).
 
Nel secondo caso, la metafora appariva più articolata. I fiori non erano più rappresentati come stroncati, ma nel pieno del vigore primaverile; e anche il sangue versato non raffigurava più la morte, ma il sacrificio necessario affinché su quella stessa terra potessero “germogliare” le nuove generazioni. Il messaggio affidato alle immagini floreali pareva quindi portare un messaggio di speranza associando il cordoglio alla lezione patriottica. Lungo questa direttrice, si collocava il messaggio che Aurelio Favara, Console Generale della Corda Fratres (13), inviava agli studenti fiorentini. Egli, nell’evocare la “memoria dei compagni caduti per il santo ideale” scriveva che:

Aderendo alla glorificazione di cui coi siete promotori, i Corda Fratres nel 29 maggio colgono dalle zolle di Curtatone e Montanara i fiori vividi e belli, germogliati dalla terra che il sangue dei fratelli fecondava, e con l’argenteo ulivo nel intessono serti di gloria per tutti i martiri, per tutti gli eroi, nella fede che quelle vite, trasformatesi come tutte le cose e rinnovantisi nei secoli saranno bastevoli a compiere il più altro degli antichi prodigi (Favara 1908, 40).

Un simile sentimento si ritrova anche nell’articolo di Gian Battista Prunaj, intitolato Primavera Purpurea (29 maggio 1848). Ancora una volta, nel ricordare il sacrificio degli studenti toscani, si ricorreva alla metafora della primavera all’uso del colore rosso, il quale acquistava il duplice significato della morte e della rinascita:
 
Aderendo alla glorificazione di cui coi siete promotori, i Corda Fratres nel 29 maggio colgono dalle zolle di Curtatone e Montanara i fiori vividi e belli, germogliati dalla terra che il sangue dei fratelli fecondava, e con l’argenteo ulivo nel intessono serti di gloria per tutti i martiri, per tutti gli eroi, nella fede che quelle vite, trasformatesi come tutte le cose e rinnovantisi nei secoli saranno bastevoli a compiere il più altro degli antichi prodigi (Favara 1908, 40).

L’esemplarità dei giovani caduti a Curtatone e Montanara, oltre ad essere motivata dalla loro giovinezza, cultura e dall’alto senso della patria, era collegata dai fiorentini anche ad un’altra caratteristica: la toscanità. Il 29 maggio, infatti, era visto come una data profondamente legata alla storia regionale. Il Prunaj, ad esempio, nell’articolo citato sopra, continuava la sua commemorazione ricordando proprio il carattere toscano della battaglia:
Non v’è nella serie delle battaglie combattute per l’indipendenza della cara patria nostra niuno scontro, niuna campagna niuna giornata, che sia così intimamente e profondamente toscana, come la giornata di Curtatone e Montanara, come quell’estroso ed eroico 29 maggio 1848, inghirlandato dalle rose vermiglie di tanto e si gentil sangue speso, con lieto animo, per il fascino di un idea. Alle quali vermiglie rose, sacre ai non manchevoli auspici dei destini ben deve rispondere nel rito odierno della riconoscenza e della celebrazione il Rosso Giglio, onde Firenze nostra fiorisce (Prunaj 1909).

Il tema della toscanità fu espresso in vari modi nel corso degli anni. Se “Il Fieramosca” nel 1908 si limitava a evidenziare come “la Toscana nostra rispose all’appello con uno slancio che ha pochi riscontri nella storia” (14), Eugenio Coselschi, in un discorso pronunciato alla Pro-Cultura, dopo aver ricordato come “nella stagione dell’amore e dei fiori, in questo Maggio sereno e giocondo è opera di poesia e di giustizia celebrare la resurrezione della patria, la primavera della patria” sottolineava che “è altrettanto giusto ricordare la nostra Firenze”. La città, infatti, per Coselschi meritava la gloria eterna da parte dei cittadini, una “gloria eterna e indistruttibile, poiché quale capitale di questa nostra Toscana essa dette vita e ardimento ai guerrieri di Curtatone e Montanara, a quei giovani generosi, a quei fanciulli indomabili, agli eroi immortali che al termine di questo mese in cui sembra più bella e più serena la vita, caddero sacrificando il bene più desiato e il più caro e offrirono il petto gagliardo al piombo degli oppressori” (15).

L’importanza del carattere toscano della giornata del 29 maggio trovò probabilmente la sua massima espressione nelle celebrazioni ad essa dedicate. Nonostante si trattasse di una giornata commemorativa legata ad ricordo dell’anno rivoluzionario per eccellenza – il 1848 – e quindi potenzialmente sovversiva, la classe dirigente fiorentina capì fin da subito che “rinunciare alla memoria di Curtatone e Montanara era assolutamente impossibile, visto che quella journée costituiva il simbolo vivente del ‘tributo di sangue’ pagato dai toscani all’indipendenza nazionale, e si presentava quindi come la carta da visita più convincente per quel ruolo di primo piano nella definizione e nella guida del [futuro] Stato nazionale che si pretendeva fosse loro riconosciuto”. Il 29 maggio divenne immediatamente un simbolo dell’orgoglio toscano, tanto da venire commemorato anche negli anni dell’occupazione austriaca.
 
Già nel dicembre 1848 il gonfaloniere di Firenze Ubaldino Peruzzi deliberava di far istallare, a spese del Municipio, due tavole di bronzo con i nomi dei fiorentini caduti a Curtatone e Montanara nella chiesa di Santa Croce, inserendo così simbolicamente i giovani eroi toscani nel pantheon delle glorie della nazione. Le tavole di bronzo assunsero da subito un significato più ampio di quello commemorativo, divenendo un luogo di devozione e, contemporaneamente, un simbolo di resistenza politica per la città. Il ricordo dei caduti divenne una pietra fondante dell’identità cittadina non solo per la classe dirigente, ma per tutta la popolazione che, pur di omaggiare gli eroi di Curtatone e Montanara, sfidò in quegli anni la repressione della gendarmeria austriaca che, nel 1851, giunse a sparare sui fedeli che la mattina del 29 maggio, con il pretesto della messa per l’Ascensione, si era recata in Santa Croce a rendere un omaggio clandestino ai caduti. Proprio in seguito ai tafferugli di quella mattina, le tavole di bronzo, che prima erano state coperte, furono rimosse dalla chiesa e rinchiuse nella Fortezza da basso “per evitare che anno dopo anno esse diventassero un catalizzatore di memorie sgradite al potere” (Burzagli 2005, 283). Non stupisce quindi che nel 1859, come abbiamo ricordato, uno dei primi atti del governo provvisorio fu quello di ricollocare le tavole di bronzo in Santa Croce e di sancire ufficialmente la festa del 29 maggio. Il ricordo di Curtatone e Montanara cessava di essere un momento di resistenza e diventava il naturale trait d’union del 27 aprile nel processo risorgimentale.

Con il passare degli anni, la commemorazione dei morti di Curtatone e Montanara restò sempre un momento importante per l’orgoglio della Regione. In particolare, dopo l’unificazione del Regno e con la perdita dello status di capitale, il ricordo della giornata patriottica assunse anche una funzione anti piemontese. Con il 1861, infatti, la festa dello Statuto era divenuta ufficialmente la giornata commemorativa dell’Unità d’Italia, schiacciando di fatto le varie commemorazioni locali, tra cui quella fiorentina. La vicinanza tra le due date, infine, alimentava ulteriormente lo scontro tra la visione nazionale e quella locale sulla gestione della memoria risorgimentale.
Come ha scritto Claudia Burzagli, infatti:
 
in una Toscana che non amò mai molto la festa dello Statuto, mantenere viva l’attenzione su Curtatone e Montanara rifletteva, ancora una volta, la volontà della classe dirigente nobiliare toscana di intervenire sulla mitopoietica della nazione veicolando un’immagine di essa non totalmente “schiacciata” sull’egemonia piemontese, e rivendicando quindi una posizione di primo grado, se non addirittura paritaria, per la toscana e per quanti, rompendo gli induci, avevano saputo farne il perno della formazione del nuovo Stato nazionale (Burzagli 2005, 288).
 
Quanto evidenziato dalla Burzagli appare confermato anche per l’età giolittiana; se infatti si guardano le delibere della giunta comunale, è evidenziato il maggior peso dato dall’amministrazione di Palazzo Vecchio alla commemorazione del 29 maggio rispetto alla celebrazione della festa dello Statuto. Ad esempio, nel 1906, il Comune stanziava solo 500 lire per lo Statuto a fronte delle 1000 investite per la messa in Santa Croce e i sussidi ai reduci (16).
 
Se la commemorazione acquisì questo carattere conflittuale tra locale e nazionale, essa, soprattutto in età giolittiana, dette luogo a numerose contrapposizioni tra la stessa classe dirigente fiorentina.

Le celebrazioni in età giolittiana
Con l’avvento del nuovo secolo e l’emergere di nuovi soggetti nella scena politica e sociale, le celebrazioni del 29 maggio furono al centro di un forte scontro di gestione della memoria. La giornata, infatti, già nel periodo austriaco, e poi formalmente dal 1859, si svolgeva secondo in rituale prefissato. Nel corso degli anni, la classe dirigente toscana, e in particolare il suo nucleo fiorentino, aveva cercato di istituzionalizzare il più possibile la cerimonia e, lentamente, ne aveva epurato le parti più spontanee, come l’omaggio del corteo alle abitazioni dei sopravvissuti e dei caduti. Ad inizio secolo, dopo un percorso volto ad evitare che il 29 maggio divenisse un’occasione per evidenziare letture del processo di unificazione nazionale diverse da quelle volute dalla classe dirigente, la cerimonia ruotava quasi esclusivamente attorno alla funzione religiosa in Santa Croce. Essa era stata costretta in un rigido cerimoniale che prevedeva una netta separazione e gerarchizzazione dei posti all’interno del tempio, e che vietava l’ingresso delle bandiere dei reggimenti nella chiesa (17).
 
In età giolittiana, pur restando fissi i grandi aggregati tematici ricordati in precedenza, la commemorazione dei caduti di Curatone e Montanara fu al centro di un notevole dibattito, specchio delle polemiche e dei contrasti presenti in città. Gli scontri più aspri si ebbero nel triennio dell’amministrazione popolare.
Dal giugno 1907, infatti, Firenze era governata da una coalizione tra socialisti, demosociali e repubblicani che, in soli tre anni, dette un netto colpo all’impianto della tradizionale città conservatrice. Uno dei punti su cui l’amministrazione popolare insisté di più fu, insieme alla lotta per le “case popolari”, quello per la completa laicizzazione di Firenze. Le giunte Sangiorgi e Chiarugi operarono in più direzioni per portare a compimento tale proposito: tra l’estate e l’autunno 1907 dettero l’avvio ad un programma amministrativo che avrebbe portato all’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole (18); e alla laicizzazione degli ospedali. Soprattutto negli anni centrali del blocco, il 1908 e il 1909, la tensione tra l’amministrazione di sinistra e gli esponenti dell’opposizione conservatrice e liberale salì nettamente, coinvolgendo anche l’ambito della gestione della memoria. Se il 1908 fu il primo anno in cui le bandiere rosse entravano in Palazzo Vecchio, fu anche l’anno in cui per la prima volta venne cambiato il programma della commemorazione di Curtatone e Montanara.

Proprio per il 60° anniversario della battaglia, lo scontro si giocò tutto sulla contrapposizione tra laicità e religiosità della commemorazione.
Il primo passo in questo senso fu compiuto dall’amministrazione comunale che, per rispetto all’impronta laica che aveva dato al governo della città, trovò un escamotage per evitare di finanziare con i soldi del Comune una manifestazione di ordine prettamente religioso. Così, la giunta Sangiorgi, il 18 maggio, emetteva la seguente delibera:
 
La giunta, visto come nel bilancio preventivo sia inserita, all’art. 101, la somma di Lire Mille per la commemorazione dei morti in battaglia per l’indipendenza italiana. Vista la lettera in data 8 maggio corr. del presidente del Comitato Regionale Toscano dei Veterano 1849-1870. Ritenuto come sia alto dovere civile tenere sempre alto e vivo il ricordo dei morti per la patria e per la Libertà e venire in aiuto dei superstiti bisognosi. Su protesta dell’On. Sindaco delibera:
Che il 29 maggio corr. sia effettuata nel Salone dei Cinquecento una solenne commemorazione dei caduti per l’indipendenza nazionale.
Che siano deposte corone di fiori sulle lapidi che nel Tempio di Santa Croce ricordano i morti gloriosi per la libertà della patria.
Che la somma di lire mille inscritta in bilancio comunale all’articolo 101 sia rimessa al Benemerito Comitato Regionale Toscano dei Veterani del 1849-1870 lasciando ad esso la piena facoltà di erogazione si in onoranze ai defunti, sia in sussidi ai superstiti bisognosi (19).

La giunta, in questo modo, evitava di apparire tra gli organizzatori della funzione commemorativa religiosa, ma, al contempo, non impediva che la tradizionale messa di suffragio per i caduti in Santa Croce avesse luogo. Le polemiche sui giornali, soprattutto su quelli moderati e cattolici, divamparono già all’indomani della delibera.

La prima, ad indignarsi fu “La Nazione”. La testata moderata, già all’indomani del comunicato stampa con cui Palazzo Vecchio comunicava la decisione presa dalla giunta, pubblicava un articolo di fondo dove, con ovvio riferimento alla dominazione austriaca, appellava i consiglieri popolari con il nome di “Croati d’Italia”, ed esprimeva tutta la riprovazione per la decisione presa. Nel testo si legge:
 
La cerimonia religiosa del XXIX maggio deve aver lungamente turbato l’antica dell’attuale Amministrazione popolare e socialista, sulla quale la Messa in Santa Croce pesava come in grave incubo: e questo turbamento lo si desume dal contesto del comunicato del sindaco, il quale sapendo di non aver dalla sua la cittadinanza fiorentina nella redazione del bilancio di una somma destinata a commemorare i prodi di Montanara e Curtatone, nonostante gli incoraggiamenti del neofita assessore e professore Giulio Banti, ha preso un provvedimento alla Ponzio Pilato e ha mandato le 1000 lire – parte delle quali sono state fino ad ora spese in Santa Croce – al comitato regionale toscano dei Veterani 1848-1870. Se la cerimonia religiosa deve essere fatta, l’iniziativa – ha detto l’on. Sindaco di Firenze – la prendano i veterani, noi popolari, noi rappresentanti l’anima del popolo, noi che, come griderebbe l’on. Pescetti in un momento di entusiasmo retorico, di questa anima grande siamo, il profumo, non vogliamo piegarci alla tradizione mai interrotta e questa tradizione che nessuno, dal 1849 ad oggi, può mai toccare, noi la spezziamo. […]La deliberazione della giunta riguardante la commemorazione del XXIX maggio è uno piccato esempio d’opportunismo che, a nostro modi di vedere, rasenta il gesuitismo (20).
 
La polemica continuò anche nei giorni seguenti e lo stesso 29 maggio, nella prima pagina del giornale, insieme agli articoli commemorativi del giorno della battaglia, appariva, come spalla, un pezzo dal titolo Carducci e il XXIX maggio, dove si ricordava come anche Carducci fosse stato uno dei maggiori sostenitori della celebrazione per i caduti, e, grazie al suo intervento, la festa poteva essere celebrata anche nel 1867, anno in cui la giunta comunale aveva ventilato di sospendere la messa in suffragio dei caduti. Il giornalista chiudeva il pezzo scrivendo che, mentre nel 1867 la giunta tornò sui suoi passi:
 
Oggi non sarà cosi. Quelli stessi che, pettoruti d’orgoglio e d’ignoranza gonfiavano pur ieri le vesciche del loro vero retorico. Dividendosi di onorare in tal modo la memoria del poeta nelle loro file. Oggi si fanno un piedistallo nella loro ignoranza medesima per salutare, come l’alba di una più felice età. L’abolizione della cerimonia due volte sacra e doppiamente italiana. È vero che l’ignoranza fa perdonare molte cose; ma non a coloro i quali parlano in nome della verità positiva, della santità della scienza e del libero pensiero. A meno che la prerogativa predominante del libero pensiero non sia quella di far pensare liberamente soprattutto le sciocchezze. Quanto all’ostracismo che il consiglio comunale fiorentino a dato al tempio clericale di Santa Croce è forse opportuno osservare che di fronte al cumulo enorme di storia, di gloria, di grandezza, d’eternità, di eroismo e di genio che stanno là dentro idealmente racchiusi, sessanta consiglieri non deliberano per giudicare, ma per essere giudicati (21).
 
Aspre critiche arrivarono anche dai giornali cattolici nei quali l’indignazione per la decisione di non organizzare direttamente la cerimonia si legava alla condanna della politica laica dei nuovi “padroni” di Palazzo Vecchio.

Nella prima edizione del settimanale cattolico “Stella Cattolica” successiva alla delibera del 18 maggio, si trova un articolo di fondo scritto dal direttore dove è ricordato l’importanza della cerimonia e il suo “santo” significato. Egli prendendo come spunto i suoi ricordi di bambino ricorda “l’impressione infantile rimasta ancora nel cuore del cielo sereno, delle campane a festa, delle musiche militari, della folla multicolore invadente il tempio severo, […] dei bei soldati schierati davanti al tempo, delle campane allietanti ai martiri della patria, delle dolci fanfare che rallegravano lo spirito dei bambini vestiti a festa a Santa Croce e ricordavano come la chiesa prega e onora i morti della patria”. In contrapposizione con questi ricordi felici il direttore prosegue descrivendo il prossimo scenario “privo di senso” voluto dall’amministrazione comunale che, in offesa alla tradizione, ha optato per una funzione civile, dove, secondo l’autore, il patriottismo sarà solo un bieco pretesto per ribadire la linea anticlericale di Palazzo Vecchio. Egli infatti scrive:
 
Addio virtù della patria, addio!Addio bella funzione n Santa Croce! Ci voleva tutta la prosa atea e miscredente di un consiglio comunale popolare per stappare bruscamente dal mio cuore e da quello di ogni buon fiorentino la catena che ci legava ai nostri padri morti per la patria e ricordati dalla fede!ci volva tutta l’esosa d antipatica intolleranza di anticlericalismo da strapazzo per farci svegliare da un sogno tanto bello e tanto santo di ricordi giovanili, di amor patrio e di religione mirabilmente fusi in un unico ideale. […] Oggi i padroni di Firenze, i padroni di quel Palazzo che sul frontone porta la sigla di Cristo Re non ànno più lacrime né preghiere per i morti della patria. O meglio ànno le lacrime ufficiale di una commemorazione civile, priva di senso e di patriottismo. Anche Curtatone e Montanara sarà sfruttato a beneficio del sole dell’avvenire! Avremo quindi l’immancabile corteo di bandiere rosse e nere, avremo i circoli anticlericali che vi insulteranno, voi morti per la patria, con il lume della fede nel cuore! Avremo un oratore da strapazzo che vi commemorerà, un tribuno della plebe che vi insulterà, voi, povere anime dei nostri morti ribelli ad ogni tirannia anche scamiciata e popolare! E ne volete di più? Mentre gli altri anni le lacrime pie e le preci dei sacerdoti invocavano pace alle aride vostre ossa, quest’anno solo una commemorazione laica ricorderà la vostra memoria, o morti per la patria! (22).

Come si legge nell’articolo di “Stella Cattolica”, l’altro motivo per cui la giunta fu molto criticata fu quello di affiancare alla cerimonia religiosa quella civile. La doppia celebrazione comportò anche un problema di rappresentanza per il Comune. Credendo di trovare un correttivo nella commemorazione civile nel Salone dei Cinquecento e nell’invio di corone di fiori in Santa Croce, il sindaco non aveva preso in considerazione quanto questa scelta potesse rivelarsi “arma a doppio taglio”, perché, come sottolineava “La Nazione”:
 
i veterani avendo stabilito di continuare nella tradizione municipale e far celebrare la Messa in Santa Croce, diramando gli stessi inviti che diramava il Gabinetto del Sindaco e invitando conseguentemente il Sindaco e la giunta, metteranno l’on.avv. Sangiorgi nella condizione di declinare l’invito alla cerimonia religiosa in Santa Croce dove saranno già state deposte le corone di fiori del Municipio. Un circolo vizioso: e tanto più vizioso in quanto ché i Veterani saranno invitati a loro volta dal Sindaco per la commemorazione civile del XXIX maggio nel salone dei Cinquecento e i Veterani occupati nella tradizionale cerimonia religiosa in santa Croce dovranno a loro volta, declinare l’invito del sindaco che ha girato al Comitato il buono di 1000 lire (23).
 
L’atteggiamento del Comune fu ambiguo, perché proprio la persistenza della messa in suffragio dei caduti mise in seria difficoltà l’amministrazione Sangiorgi che si trovava così stretta tra il rispetto delle tradizioni e la coerenza con l’indirizzo laicista impresso al Comune. La situazione di impasse in cui erano caduta la giunta pare attestare proprio il complesso rapporto tra religiosità e laicità in materia di gestione delle politiche della memoria. Nelle carte conservate nell’archivio comunale, in particolare dai verbali delle sedute della giunta, si può leggere che, alla fine, il sindaco lasciò liberi i consiglieri di maggioranza e gli assessori di recarsi in forma privata alle celebrazioni, e stabilì che una rappresentanza della giunta, composta dagli assessori Lustig e Masini, dagli assessori supplenti Pieraccini, Banchi e Trinci, e dai segretari Paci, Lenzi e Romagnoli, avrebbe lasciato agli uscieri due corone di fiori da far appendere sulle targhe di bronzo all’interno del tempo. Il sindaco, inviando un telegramma ai veterani, si dichiarò indisposto e non presenziò né alla deposizione delle corone di fiori (24).

I giornali moderati e cattolici sottolinearono l’accaduto e “La Nazione” scrisse apertamente che la soluzione trovata dal sindaco rivelava quanto la maggioranza fosse spaccata proprio sul tema della laicità che aveva agitato tanto in campagna elettorale. Il giornale moderato, infatti, parlò di un “gesuitismo alla Ponzio Pilato”, di una soluzione che “salvava capra e cavoli” e che permetteva a Sangiorgi “di salvare la sua popolarità e di dare una soddisfazione all’amico anticlericale e massonico prof. Banti” (25).
 
“L’Unità cattolica”, ma anche “La Nazione”, tornarono spesso sul tema, e, soprattutto negli articoli successivi alla giornata del 29 maggio, sottolinearono più volte l’imponenza della cerimonia religiosa che, “nonostante il poco tempo di preavviso alla società dei reduci e l’ostruzionismo delle autorità municipali, era riuscita migliore degli anni passati”, testimoniando come “la cittadinanza ha dimostrato di non esser del parere del Sindaco, Avv. Sangiorgi e della giunta demo-sociale e socialista e ha riempito la navata di Santa Croce, dove, in incognito, tappati in carrozza, chiusi da non essere scorti dai compagni, gli onorevoli assessori avevano, nelle prime ore dell’alba, deposto corone di fiori sulle lapidi ricordanti i caduti di Curtatone e Montanara” (26).

Sull’ambiguità della giunta intervenne anche il settimanale cattolico “Il Popolo”, che era nato a Firenze solo pochi mesi prima e che faceva della sua appartenenza religiosa il proprio punto di riferimento. Il giornale, a differenza della “elitaria” “Civiltà Cattolica”, nasceva come un settimanale rivolto alle classi popolari, al fine di “di dimostrare con i fatti alla mano la speciosità apparente di certe teorie lusingatrici che con l’orpello esterno cercano di nascondere il marcio interiore; di toccar con mano la mendacità di certe promesse fatte da uomini ambiziose che della schiena dell’operaio si servono di sgabello per salire in alto; di mettere a nudo l’ipocrisia di certe dottrine e di certi programmi che la buona fede proletaria sfruttano e a individuale vantaggio”. Proprio per rispettare questo suo proposito di parlare al popolo, il settimanale fiorentino utilizzava un linguaggio semplice, ricorrendo spesso a scenette divertenti e alla trascrizione di improbabili conversazioni sentite per la strada che, il più delle volte, avevano come protagonista un socialista e un cattolico. Anche nel caso delle celebrazioni del 29 maggio, “Il Popolo” fece largo ricorso alla pungente ironia fiorentina per denunciare l’atteggiamento ambiguo. Già dall’inizio, la polemica politica era affidata a lettere immaginarie che la statua del Nettuno, posta di fronte a Palazzo Vecchio, inviava al sindaco per denunciare i comportamenti che vedeva dall’alto del suo piedistallo e che non condivideva. Il Biancone – nomignolo che i fiorentini avevano dato alla statua a causa della sua imponente mole di marmo bianco – anche per le celebrazioni di Curtatone e Montanara scrisse a Sangiorgi, questa volta per riportargli una lettera scritta da un altro guardiano di una piazza fiorentina: la statua di Dante in Santa Maria Novella. Il giornalista de “Il Popolo”, fingendo di parlare a nome della statua annotava cosa aveva visto quella mattina presto:
 
Eravamo adunque raccolti nella quiete e nella solennità del francescano tempio, io altissimo poeta, vicino a me Michel più che mortale angelo divino, di fronte stavami il gran Galileo e da un altro lato il Machiavelli, l’Alfieri, il Rossini e Gino Capponi ed altri, senza contare i cavalieri antichi e i cittadini che illustrarono e fecero grande la bella Fiorenza. Quand’ecco quasi usciti dal regno delle tenebre, penetrare nel tempio e passarci avanti alcuni uomini, che tali erano per natura, vestiti di nero, coi fiori in mano, e questi frettolosamente depositati, fuggire quasi ombre che si dileguano saettate da’ fulgori del sole. Seppi che erano ed il perché di que’ fiori deposti furtivamente. Seppi il perché parea che loro scottasse quel fuoco il sacro pavimento e non ardirono nel passarci davanti affissare i loro occhi sul nostro sembiante. […]
Mio desiderio sarebbe che nel palazzo degli antichi priori, il quale sulla porta maggiore, ha scolpito il nome di Cristo Dio, proclamato un di da’ miei concittadini re di Fiorenza, fossero quete mia parole di seria meditazione.
Da Santa Croce, il 29 maggio del 1908
Dante Alighieri
 
Nel congedarsi dal sindaco, anche “il Biancone” commentava così l’accaduto:
 
IL CORAGGIO DI NON AVERE OPINIONE: quello del Municipio, che presta omaggio in chiesta alle 8, e lo rifiuta alle 10! che manda un Segretario ad aspettare presso l’avello di Machiavelli…con quel che segue: vero che il segretario non si levò l’impermeabile; forse per mancanza di iniezioni. Il giornale Fieramosca, che si scandalizza della bandiera in Chiesa, col sarcasmo che “ le bandiere austriache vi furono accolte”; è vero: gli austriaci tiraron le fucilate a quelli che commemoravano in Santa Croce il 29 maggio: ma lo spregio era da parte di austriaci. E quello da parte del Comune? Come lo spiega il Fieramosca? La nostra opinione: che non bisogni pigliar sul serio tutta questa roba:
MASSONI di coraggio
Hanno alzato la voce
In odio a Santa Croce
Tanto perché era Maggio!
Suo aff.mo Nettuno
detto i’ Biancone (27).
 
Il proposito dei giornali moderati e clericali appariva abbastanza chiaro: comparare le due cerimonie in modo da far risaltare quella “vera”, sentita dal popolo e appartenente alla tradizione, rispetto a quella “inventata” e celebrata non per reale spirito di patriottismo, ma per esigenze di partito. L’insistente ricorso alle descrizioni della piazza gremita di gente, al calore popolare, ai momenti di commozione durante la funzione erano strumenti appositi per mettere in risalto questo contrasto (28).

La compresenza della doppia celebrazione, invece, fu ritenuta dai quotidiani vicini a Palazzo Vecchio come un’opportunità per celebrare al meglio i martiri per l’indipendenza, restituendo loro anche quella dimensione di patriottismo civile che era stata limitata dalla commemorazione religiosa. “Il Fieramosca”, ad esempio, all’indomani della celebrazione nel salone dei Cinquecento scriveva:
 
certe tradizioni fatte di sacrificio per il bene della patria non si estinguono col volgere degli anni, né per mutate condizioni di tempi e di volontà di uomini: ma si fortificano anzi col volgere degli anni ed ingigantiscono se è possibile quanto più gli avvenimenti si allontanano dall’epoca presente. […]e cos’ di anno in anno senza che un anelo della nobile tradizione sia stato infranto, siamo giunti fino al presente, nel quale la solenne funzione verrà celebrata a cura del benemerito Comitato dei Veterani ’48-49, al quale il Comune – come è noto ha inviata la somma di lire mille inscritta in bilancio, perché la eroghi come meglio crederà nella sua saggezza e nel suo patriottismo (29).
 
Il Comune, nei suoi anni di amministrazione popolare, puntò molto sulla valorizzazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio. Essa, nelle intenzioni degli organizzatori, era volta a ricostruire una memoria civile intorno ad una data fondativa della identità nazionale e, soprattutto, toscana. Le manifestazioni organizzate per gli anni 1908, 1909, 1910, furono cerimonie essenziali: il sindaco, con alcuni assessori e consiglieri, si recava a pranzo presso la Pia Casa del Lavoro e, poi, nel primo pomeriggio, officiava la distribuzione dei diplomi di merito alle alunne e agli alunni delle scuole comunali, e ai fiorentini distintisi nel corso dell’anno per atti di valor civile. Seppur apparentemente semplici nel loro svolgimento, le celebrazioni rimandavano ad una serie di significati ben precisi.
Il primo di questi era rappresentato dalla volontà di istituire un legame simbolico tra i giovani allievi delle scuole comunali e i reduci e i mutilati delle guerre patrie. Leggendo le minute dei discorsi conservate nell’archivio comunale e le descrizioni delle manifestazioni nelle cronache dei giornali, si nota come il legame tra le due generazione fosse costantemente rievocato. Così, nel 1908, sappiamo che i bambini delle elementari consegnarono al sindaco e ai veterani intervenuti dei mazzi di garofani rossi, fiore simbolo della nuova amministrazione, e che, l’anno successivo, i bambini allietarono la cerimonia con i cori dell’Inno di Garibaldi e dell’Italia risorta ((Cfr. La cerimonia nel Salone dei Cinquecento, in “La Nazione”, 30 maggio 1908, e La cerimonia d’oggi in Palazzo Vecchio, in “La Nazione”, 30 maggio 1909.)). L’esempio che però meglio illustra questo collegamento tra le due generazioni è dato dal discorso del sindaco Giulio Chiarugi in occasione della cerimonia del 1910. Egli, infatti, di fronte ad un salone dei Cinquecento gremito di bambini e di reduci, ricordava agli allievi delle scuole elementari:
 
Sia forte in voi il sentimento del dovere, lo spirito di sacrificio, amate il vostro paese e siate pronti fino da ora a difenderlo contro ogni sopraffazione e contro ogni offesa. L’Unità e la libertà della patria vi siano sacre. Quanti dolori, quanti sacrifici costarono ai nostri padri, quante eroiche vite si spensero per darci una patria. Ho voluto oh bambini che la vostra festa avesse luogo in questo giorno che ricorda una data gloriosa nella storia del nostro Risorgimento nazionale, ed io desiderato che in cerimonia fosse resa più solenne dalla presenza dei veterani delle nostre guerre di indipendenza. Essi hanno accolto l’invito e noi dobbiamo insieme ringraziarli. Plaudite a loro o bambini! Essi nel fiore degli anni hanno messo a repentaglio la vita per questa Italia che stava in cima ai loro pensieri: molti di loro subirono persecuzioni, molti tornarono dalla guerra ammalati o feriti, ma in tutti si mantenne viva la fede nei destini della patria. Sia ugualmente salda ed operosa in voi la fede dell’avvento dell’avvenire del nostro paese al cui progresso dedicherete le vostre maggiori attività (30).

L’insistenza sul legame tra i vecchi patrioti e i giovani, se da un lato pare strumentale alla funzione di propaganda per l’operato dell’amministrazione popolare in materia di scuole pubbliche (31), sembrerebbe anche voler veicolare un altro messaggio: quello dell’importanza del civismo. L’idea del coraggio e dello slancio volontaristico sembra essere accentuata dal nesso che si veniva a creare tra i premiati per il valor civile e i reduci presenti in sala.
Con la creazione della cerimonia civile in Palazzo Vecchio, pare che l’amministrazione popolare tentasse una trasposizione a livello istituzionale di quei valori del Risorgimento democratico che fino ad allora erano stati schiacciati dalla funzione religiosa che aveva come motivo prevalente quello del cordoglio dei caduti. Temi come il civismo, il volontarismo, lo spontaneismo, la libertà di partecipazione, che erano stati limati ed emarginati dalla classe dirigente liberale negli ultimi decenni dell’800, erano ora ripresi e amplificati dalla pubblicistica e dalle scelte dei partiti popolari. La scissione del modello dell’eroe, sottolineata, tra gli altri, da Maurizio Ridolfi e da Lucy Riall, per l’Italia degli anni immediatamente post unitari, parve riproporsi, e riprendere slancio, negli anni dell’età giolittiana. Questa rinegoziazione, compiuta in anni densi di celebrazioni risorgimentali, sembrò essere un indice della complessità e dell’incompletezza del processo di creazione di una memoria pubblica unitaria e condivisa attorno alla mitologia della liberazione della patria. Inoltre, in un periodo in cui i partiti popolari erano al potere in alcune delle città più importanti d’Italia, questo processo di ripensamento e di contrasto attorno alla figura dell’eroe assunse forme insolite e nuovi canali di espressione, portando a nuove declinazioni della frattura tra la visione democratica e quella monarchica-liberale.

 Fonti: storiaefuturo.eu. Annarita Gori, Le “Termopili toscane”. La memoria di Curtatone e Montanara in età giolittiana, in “Storia e Futuro”, n. 30, novembre 2012.
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti 
 
 

 
1. Il termine è mutuato dalla “gloriosa sventura” di Atto Vannucci (1848). Sul tema delle “gloriose disfatte” cfr. Isnenghi 1997.
2. “Una memoria collettiva – sia nazionale che di partito, o di chiesa, comunque di un grande gruppo sociale – nasce da eventi che hanno la forza di coinvolgere e rendersi memorabili; ma poi anche dalla capacità di dare forma organizzata e quindi durata temporale ai contenuti di una memoria che va aureolandosi di mito e intrecciando alla realtà documentabile le libertà della favola” (Isnenghi 2010, 12).
3. Per una trattazione più ampia del concetto di “figura profonda” cfr. Banti 2011, VII.; 2000, 3-56; 2005.
4. Il colonnello Cesare de Laugier, ricordando lo spirito religioso della battaglia, ordinò “ad ogni milite toscano, di qualunque corpo, di apporre dal lato sinistro del petto e segnatamente sul cuore, una croce dei colori nazionali, a distintivo della Santa Crociata, benedetta dal Sommo Pio IX, destinata alla difesa della Patria comune” (Nerucci 47, citato in. Burzagli 2005, 270).
5. Curtatone e Montanara, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908.
6. A contribuire al successo dell’identificazione tra la battaglia di Curtatone e Montanara e lo scontro del Passo delle Termopili sono stati gli stessi volontari. Nelle memorie del colonnello De Laugier si legge come egli nelle fasi iniziali della battaglia gridi ai soldati “Toscani!Son queste le vostre Termopili: o vincere o morire!” (De Laugier 1854, 28). Una citazione simile la si trova anche altre memorie e articoli di giornale a testimonianza della forza che ebbe il mito classico sulla ricostruzione degli avvenimenti storici. Cfr. Gavelli, Sangiorgi 2004.
7. I curatori del numero erano: Augusto Hermet, Giancarlo Batachi, Luigi Baccarini, Ugo Ottolenghi, Giovanni Ravagli, Enrico Poggi, Ferruccio Silvestri, Piperno e Vagaggini. Sulla composizione dell’opuscolo cfr. L’iniziativa degli studenti, in “La Nazione”, 29 maggio 1908.
8. Rondoni 1908, 7. Poco più oltre, nell’articolo di Jack La Bolina, per spiegare la gloriosità della battaglia di Curtatone e Montanara è ripreso un altro mito greco, quello della Gloria e della Vittoria: “Gli antichi scultori greci che raffigurarono alata la vittoria si apposero al vero. La dea spietata non si posa a vicenda ora in un campo ora in quello avversario? Non si libra incerta talora tra i due contendenti? Quando, alfine, muove i vanni vermigli verso la parte cui ha decretato la palma, manda alla contrada una minor sorella: la Gloria. Questa visitò la sera del 29 maggio i campi contrastati di Curtatone e Montanara e si assise compassionevole tra le salme dei difensori di quelle due umili borgate che per valore di toscani e di napoletani sono entrate nella storia” (La Bolina 1908, 14.).
9. Isastia 2008, 172. Sul punto cfr. tra gli altri Isastia 1990; Asor Rosa 2002. Per un approccio comparato cfr. Pécout 2008, 188-196.
10. La commemorazione appare interessante perché fu tenuta una prima volta ai soci fondatori e alle autorità intervenute e, pochi giorni dopo, fu riproposta ai soli operai, come a voler sottolineare loro lo stretto rapporto tra cultura e patriottismo, inserendosi in quel filone di manifestazioni di stampo pedagogico-paternalistico fortemente volute dalla classe dirigente moderata durante le celebrazioni del giubileo della Patria.
11. In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi alla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911.
12. “Quando fioriscono le rose la pia e gentile consuetudine fiorentina e toscana commemora i caduti di Curtatone e Montanara, rose purpuree di sangue dell’italico giardino” (Rondoni 1908, 5).
13. Il rapporto tra l’associazione studentesca Corda Fratres e la celebrazione delle battaglie risorgimentali del 1848 è molto stretto. L’associazione, infatti, fu fondata nel 1898, anno delle celebrazioni cinquantenarie di tali eventi patriottici, inoltre per dare avvio alla Corda Fratres, Efisio Giglio Tosi chiamò a raccolta i pochi sopravvissuti tra gli studenti universitari che nel 1848 avevano preso parte alle “patrie battaglie”. Sulla Corda Fratres cfr. tra gli altri Mola 1999.
14. Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908.
15. In memoria del 29 maggio 1948. Dal recente discorso di Eugenio Coselschi allla Pro-Cultura per la celebrazione degli Eroi Toscani, in “Il Nuovo Giornale”, 29 maggio 1911.
16. ACF, CF 5020, Festa dello Statuto.
17. “Il Fieramosca” pubblica questa lettera il 28 maggio 1908: “All’On. Pres. Del Com. Reg. Toscano dei Veterani 1848-1870. Ringrazio sentitamente per l’invito fattomi da SV per intervenire alla Messa in Santa Croce e la prego di partecipare ai nostri veterani le considerazioni seguenti. È molto lodevole il proposito di commemorare con canonizzazioni solenni i caduti di Curtatone e Montanara, e a me sembra che sia giusto di commemorare degnamente gli eroi di quella giornata mediante una messa in suffragio per le anime dei morti nelle guerre di indipendenza. E il luogo della commemorazione, sia pure il Pantheon d’Italia non è adatto ai veterani italiani in quanto essi vi sono obbligati a lasciare fuori dalla porta la bandiera d’Italia in ossequio alle prescrizioni dell’autorità ecclesiastica; la quale dal 1849 al 1859 non fece impedimento alla bandiera d’Austria che portata dai soldati entrava in Santa Croce, e io lo vidi. Né le milizie austriache si ritenevano autorizzate a chiedere permesso alcuno. Perciò da molti anni io non vengo a tali onoranze. Con ossequio il veterano Tenente Generale Giovanni Cecconi”. La lettera di un veterano, in “Il Fieramosca”, 28 maggio 1908.
18. ACF, CF 4872, Affari Generali, f.18, Abolizione insegnamento Religioso nelle scuole.
19. Per il XXIX maggio. La deliberazione del consiglio comunale, “La Nazione” 19 maggio 1908.
20. Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908.
21. Carducci e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 29 maggio 1908.
22. Curtatone e Montanara!, in “Stella Cattolica”, 23 maggio 1908.
23. Il Municipio e il XXIX maggio, in “La Nazione”, 20 maggio 1908.
24. Cfr. Pel XXIX maggio, in “L’Unità Cattolica”, 30 maggio 1908.
25. XXIX maggio. Il gesuitismo di Ponzio Pilato,in “La Nazione”, 26 maggio 1908.
26. La cerimonia di ieri mattina in Santa Croce, in “La Nazione”, 30 maggio 1908.
27. Lettere del Biancone, in “Il Popolo”, 7 giugno 1908. L’articolo de “Il Fieramosca” a cui si riferisce “Il Popolo”, è la già citata La lettera di un veterano, riportata il 28 maggio 1908. Il giornale vicino all’amministrazione popolare commentava la successiva decisione delle autorità ecclesiastiche di far entrare la bandiera dei veterani solo dopo Sessant’anni dalla battaglia come un riconoscimento tardivo e sottolineava come, tra il 1849 e il 1855, le bandiere austriache erano sempre state beneaccette nel tempio (cfr. anche La commemorazione del XXIX maggio in Santa Croce, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908).
28. Commenti analoghi si leggono anche nel 1909 e nel 1910, gli altri due anni in cui la giunta popolare deciderà di sdoppiare le commemorazioni in laiche e civili. Cfr. “Il Fieramosca” 29-30 maggio 1909, “La Nazione”, 30 maggio 1909 “La Nazione”, 29 maggio 1910.
29. Firenze d’ora e di allora: Sessant’anni fa! Curtatone e Montanara, in “Il Fieramosca”, 29-30 maggio 1908.
30. La solenne cerimonia di Palazzo Vecchio, in “L’Opinione democratica”, 30 maggio 1910.
31. Il giornale moderato “La Nazione” si fece portatrice di una polemica circa la strumentalizzazione dei giovani da parte del Comune. Il 30 maggio 1910, si può leggere in un commento alle celebrazioni per i martiri di Curtatone e Montanara: “Ho potuto vedere nella Chiesa parecchia gioventù – più di quanta io ne prevedessi – e questo mi ha confortato l’animo. Se nelle scuole comunali, per ordine superiore, s’insegna soltanto a leggere, a scrivere, a bestemmiare Iddio e a cantare l’Inno dei lavoratori, nelle scuole governative si mantengono vivi i sentimenti patriottici, l’affetto, la venerazione per i non indegni padri che ci hanno preparato il benessere civile e morale e ce lo hanno lasciato in sacro retaggio con l’obbligo di mantenerlo e difenderlo da qualsiasi spregio, da qualsiasi attentato esterno e interno. E questo dovere sente la vera gioventù che studia, che pensa, che non si lascia traviare dal dottrinismo sovversivo, e che ama addestrarsi alle armi, raggruppandosi in battaglioni, ai comandi dei benemeriti ufficiali dell’esercito nazionale”. (La solenne cerimonia del XXIX maggio nel tempio di Santa Croce, in “La Nazione”, 29 maggio 1910).
 
Villani
Foto: Villani, rielaborazione di cartolina
Fonte: Istituto per la storia del Rinascimento Italiano
 
 
Giovanni Villani, nato a Firenze intorno al 1280 da famiglia popolana, si dedicò fin dalla giovinezza alla mercatura. Partecipò attivamente alla vita politica fiorentina dal 1316 fino al 1330: fu più volte priore e magistrato con diversi incarichi, di ambito soprattutto economico-finanziario. Dal 1331 la sua attività pubblica subì un declino; coinvolto nel fallimento della compagnia dei Buonaccorsi nel 1346, fu per qualche tempo incarcerato. Morì nell’epidemia di peste del 1348.
 
Secondo quanto dichiara, V. concepì il progetto di scrivere la sua Cronica(titolo con il quale l’opera è nota secondo la vulgata; ora Nuova cronica, nell’edizione critica a cura di G. Porta, 3 voll., 1990-1992, da cui si cita) a seguito di un viaggio a Roma per il giubileo del 1300. Sollecitato dalla vista degli antichi monumenti e dall’esempio degli autori che tramandano le memorabili gesta dei Romani, decise di intraprendere un’opera ancora intentata: scrivere la storia della propria patria, Firenze, che di Roma era – secondo una già consolidata tradizione – «figliuola e fattura» (IX xxxvi). Firenze è dunque, anche sul piano dell’ideazione, l’epicentro dell’opera, che mantiene a ogni modo, pur nella novità di intenti, l’impianto della cronaca universale. La narrazione ha infatti inizio dalla torre di Babele e tratta i fatti del mondo fino alla contemporaneità dell’autore, in 13 libri (12 secondo la vulgata), frammentati in autonomi capitoli di vario numero. I primi sette libri (circa un quarto dell’intera opera) procedono dalla torre di Babele al 1264 (chiamata di Carlo d’Angiò in Italia); dal 1265 l’andamento annalistico si fa invece sistematico e la narrazione muta di proporzioni, con maggiore ampiezza e analiticità. Dalla seconda metà del libro VIII la Cronicariguarda la storia a V. contemporanea, fino a giungere alla stringente attualità, in cui assume ulteriore significato la diretta testimonianza. 
La peculiare attenzione di V. agli aspetti economico-finanziari, statistico-demografici e amministrativi di Firenze (memorabili in particolare i capitoli xci-xciv del libro XII) conferisce alla Cronica– con le dovute cautele – un non trascurabile ruolo anche documentario. Per quanto riguarda i tempi della scrittura, l’operato di V. in rapporto alla precedente tradizione e la discussa questione redazionale, cfr. Green 1972 e Ragone 1998. 
 
Come è detto nel prologo, la scrittura dell’opera in «piano volgare» intende arrecare «frutto» e «diletto» al pubblico dei non letterati, sia mediante il fare «memoria» delle cose notevoli di Firenze, di cui si esalta la nobiltà e la grandezza a partire dalle origini – in modo che non se ne perdano le testimonianze e l’impresa venga poi continuata dai successori , sia tramite il dare «esemplo»: in chiave etico-morale e politico-civile, centrando la riflessione sul tema delle «mutazioni averse e filici». Causa di queste, con esiti diversi nel corso degli eventi, risultano le ripetute divisioni tra i cittadini, da V. legate in primo luogo allo stesso mito delle origini, nella duplice e antitetica matrice romana e fiesolana, e ai peccati degli uomini fomentati dall’intervento diabolico, cui – secondo la logica provvidenzialistica e tradizionalmente religiosa di V. – fanno seguito i «flagelli» mandati in punizione da Dio. Pur nella frammentazione del racconto cronachistico, V. fa emergere il progressivo costituirsi dell’assetto istituzionale che trasforma la fisionomia politico-civile e militare dell’antico Comune e ne pone il nuovo baricentro nel ‘popolo grasso’ e nelle Arti. Socialmente e politicamente legato ai «buoni uomini di Firenze», «mercatanti e artefici», V. esprime negli ultimi libri un crescente disagio e fastidio, con toni polemici, per i reggenti e il loro operato, anche a causa dell’aumentato potere dei popolani minuti nelle istituzioni.
 
Il successo e la diffusione della Cronicafurono molto rilevanti, come attesta l’imponente tradizione manoscritta del testo. La monumentale opera di V. assunse un carattere quasi ufficiale, e divenne il caposaldo e il punto di partenza e confronto obbligato della successiva cronachistica e storiografia fiorentina. Sulla strada da lui indicata si pose subito il fratello Matteo (1285?-1363), la cui Cronica, pur non priva di un’autonoma diffusione, fu recepita, e poi utilizzata, come una continuazione di quella di Giovanni. Di intenti e prospettive in larga misura diverse, in cui prevalgono il tema della «novità» e un fine moralistico sostenuto da una visione cupa e sfiduciata, l’opera di Matteo è composta da undici libri, nei quali sono distesamente narrati gli avvenimenti dal 1348 al 1363. Il racconto relativo alla guerra dei fiorentini contro i pisani, rimasto interrotto a causa della morte dell’autore, fu concluso dal figlio Filippo (1325-1405), fino alla pace stipulata nel 1364. 
 
Dell’opera di Matteo e Filippo non si riscontra alcuna presenza in Machiavelli. Molte e significative sono invece le tracce della Cronicadi Giovanni nel secondo libro delle Istorie fiorentine, dove il nome è citato (insieme con quello di Dante) nel cap. ii in relazione a Fiesole, all’inizio delle considerazioni sulla fondazione di Firenze: segno esplicito della volontà di M. di non ignorare la tradizione cronachistica fiorentina messa in mora negli Historiarum Florentini populi libriXII di Leonardo Bruni (lo stesso avviene per la distruzione a opera di Totila, re degli Ostrogoti, e per il mito della riedificazione carolingia). A partire dal racconto della «prima divisione» del 1215, da cui la storia della città assume nella narrazione di M. significato autonomo e degno di memoria, la funzione della Cronicadi V. – come di quella di Marchionne di Coppo Stefani, che è però meno rilevante nel II libro – è quella di offrire a M. viva materia per sostanziare «particularmente», e con i nomi dei protagonisti, la narrazione della vita politica cittadina e soprattutto delle divisioni e civili discordie. Nella complessa rielaborazione e nell’intarsio di fonti del II libro, tra la narrazione bruniana e i cronisti (per un esame analitico cfr. Cabrini 1985, anche per la pregressa bibliografia), tra i passi in cui è particolarmente significativo l’apporto di V. si segnalano la vendetta contro Buondelmonte Buondelmonti, l’istituzione del priorato (xi), l’entrata di Corso Donati in Firenze nel 1301, la sua sconfitta e morte nel 1308 (xxiii), la condotta di Ramondo di Cardona (xxix), la congiura dei Bardi e dei Frescobaldi, l’operato di Gualtieri di Brienne duca d’Atene in Firenze (xxxiv-xxxvii), con lo Stefani, in alcune parti prevalente); il tentativo di Andrea Strozzi (xl, sempre con Stefani, mentre l’episodio è del tutto ignorato da Bruni). Interessa anche rilevare, nella narrazione riguardante Castruccio Castracani, la presenza di passi della Cronica, da M. presumibilmente già considerati in relazione alla stesura della Vita del condottiero e signore lucchese. 
 
Bibliografia: L.F. Green, Chronicle into history. An essay on the interpretation of history in Florentine fourteenth-century chronicles, Cambridge 1972; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; F. Ragone, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998; A.M. Cabrini, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma 2001. 
 
Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

Guerrazzi Francesco Domenico
Foto: rielaborazione dall'originale
Fonte: galileumautografi

 

Scrittore e uomo politico (Livorno 1804 - Cecina, Livorno, 1873). Si laureò in giurisprudenza a Pisa nel 1824, ma appena un anno più tardi esordì nella carriera letteraria con le Stanze alla memoria di Lord Byron(1825), un’esaltazione del poeta inglese conosciuto a Pisa poco tempo prima, la cui influenza sulla sua produzione fu sempre molto forte. Nel 1827 uscirono, sempre a Livorno, i quattro volumi di una delle sue opere maggiori, La battaglia di Benevento, un romanzo storico in cui già si rivelavano le qualità che restarono pressoché costanti nello scrittore: un vivacissimo e sfrenato patriottismo; la ricercatezza linguistica; uno stile convulso, baroccheggiante, pur con venature classicistiche; una predilezione per le tinte cupe e macabre che lo avvicinarono al romanzo nero inglese. Acceso democratico, fondò nel 1829 il giornale «Indicatore livornese» e si impegnò nei moti risorgimentali, subendo a più riprese arresti e condanne: durante i mesi di prigionia a Portoferraio scrisse le Note autobiografiche(pubblicate postume, 1899) e portò quasi a termine l’Assedio di Firenze, uno dei suoi romanzi storici di maggiore successo. A questo periodo della sua vita risale anche La serpicina, una riuscita satira della giustizia umana e della vita forense che fu pubblicata tra gli Scritti(1847). Nel 1848-49 fu tra i protagonisti della rivoluzione in Toscana: nel febbraio 1849, fuggito Leopoldo II, costituì un governo provvisorio con Giuseppe Montanelli e Giuseppe Mazzoni e il mese successivo fu eletto capo del potere esecutivo, esercitando di fatto una dittatura personale. Al ritorno del granduca fu processato e condannato a 15 anni di prigionia e, durante la sua detenzione nel carcere delle Murate a Firenze, scrisse Apologia della vita politica di F.D.G. scritta da lui medesimo(1851), una lunga autodifesa fortemente polemica verso i moderati e il sistema giudiziario toscano. La pena gli fu successivamente commutata nell’esilio in Corsica, da dove fuggì nel 1859 per raggiungere Genova. Qui soggiornò fino al 1862. Fu eletto nel 1860 deputato nel primo Parlamento nazionale, dove sedette per circa dieci anni, sempre schierato tra i banchi dell’opposizione contro le forze moderate. Nell’ultimo periodo della sua vita, mentre si distaccava dal dibattito politico, Guerrazzi mantenne intensa la sua produzione letteraria con il romanzo Il buco nel muro(1862), la sua opera artisticamente più notevole, L’assedio di Roma(1863-65) e Il secolo che muore(pubblicato postumo per intero nel 1885), continuazione poco riuscita del romanzo del 1862. Tra i suoi romanzi storici, per i quali divenne popolare tra i contemporanei, si ricordano anche Veronica CyboIsabella Orsini, entrambi compresi nella citata raccolta degli ScrittiBeatrice Cenci(1853) e Pasquale Paoli(1860), dedicato a Garibaldi.

Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 

La guerra italo-turca, iniziata con la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Turchia (29 settembre 1911), si concluse con la pace di Losanna sottoscritta il 18 ottobre 1912.

Cause della guerra. - Superata la crisi morale provocata dall'insuccesso dell'impresa di Abissinia, l'Italia, ammaestrata dalla dura esperienza dei passati errori, aveva iniziato una politica oculata per tutelare i suoi interessi nel Mediterraneo, il cui equilibrio politico era continuamente minacciato dall'incombente sfacelo dell'Impero Ottomano. Così essa partecipò con le altre potenze interessate all'occupazione di Creta e pose gli occhi sulla Libia e sul Marocco, i soli territorî rimasti esenti da influenze dirette europee nell'Africa Mediterranea. La Libia, principalmente, per la sua situazione geografica, era indispensabile all'Italia per la sua stessa sicurezza e per il suo avvenire di potenza mediterranea.

Tripoli attendamento Croce Rossa Italiana
Fonte: web

 

Tra il 1902 e il 1905 ebbero luogo fra Italia, Francia e Inghilterra accordi per la sistemazione delle rispettive aspirazioni coloniali e furono stabiliti i limiti delle zone d'influenza di ciascuna: la Francia ottenne libertà d'azione al Marocco e promise il suo disinteressamento qualora l'Italia avesse dovuto sostituire la Turchia in Libia. Germania e Austria non si opposero da principio alle aspirazioni della loro alleata Italia, ma, ritardando questa l'attuazione dei suoi disegni, fra il 1909 e il 1911 la Germania aveva pensato d'insediarvisi essa stessa o comunque esercitarvi la propria influenza diretta per mezzo dell'amica Turchia; ciò in relazione al progetto di una ferrovia transahariana che doveva collegare il Mediterraneo col futuro impero centro-africano che la Germania si riprometteva di formare collegando i suoi possedimenti del Camerun, dell'Africa Sud-occidentale e dell'Africa Orientale attraverso i territori coloniali della Francia, dell'Inghilterra, del Belgio e del Portogallo.

Il ritardo frapposto nell'attuazione del progetto era dipeso dal fatto che, sul principio, l'opinione pubblica italiana, per i dolorosi ricordi della campagna del 1895-96, rifuggiva da ogni politica di espansione. Ma poi, con l'aumentare del benessere e della tranquillità del paese, col formarsi in Italia di una coscienza coloniale, la questione libica cominciò ad appassionare l'opinione pubblica, specie quando, col risorgere della questione marocchina e con la definizione di questa, ancora una volta modificante a nostro svantaggio l'equilibrio mediterraneo, la parte illuminata della nazione (auspice l'Associazione nazionalista) comprese come non potesse rimanere allo stato di semplice aspirazione il diritto dell'Italia di avere assicurata in Libia una sfera d'influenza politica adeguata ai suoi interessi. Il pericolo, poi, vero o supposto, di un'occupazione tedesca della Libia, non fece che affrettare la decisione. La Turchia, già da tempo messa in sospetto dall'interessamento dell'Italia per la Libia, si era data a perseguitare i sudditi e le iniziative italiane nei suoi territori, offrendo più volte l'occasione di un intervento. Un ultimo incidente, nel settembre 1911, diede luogo alla dichiarazione di guerra (29 settembre). L'azione dell'Italia provocò il malumore di molte potenze rimaste deluse nelle loro speranze, malumore di cui si fece eco la stampa internazionale, senza riuscire peraltro a impedire all'Italia l'attuazione dell'impresa.

Fonte: treccani.it

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

“Il 28 dicembre 1908, il terremoto di Messina (M. 7.1) ha provocato più di 80.000 morti. Il terremoto di Messina del 1908 è il più distruttivo del XX e XXI secolo in Europa, ma la geometria e la cinematica della faglia che si è rotta sono ancora motivo di dibattito. È stato uno dei primi terremoti in Europa nel periodo strumentale, trasformando lo studio della sismologia, avviando l’interesse nei fattori ambientali dei terremoti in tutto il mondo, che ora sappiamo essere fondamentali per comprendere la geometria e la cinematica di una fonte sismica”, scrivono gli autori di un nuovo studio, tra cui A. M. Michetti (Università degli Studi dell’Insubria, Como) sul devastante sisma che ha colpito Messina e Reggio Calabria nel lontano 1908.

Terremoto di Messina
Fonte: Focus
 

“L’epicentro è stato localizzato nel Graben dello Stretto di Messina, d’accordo con gli effetti ambientali mappati”, scrivono gli autori dello studio, pubblicato su Nature, il cui obiettivo è stato quello di confinare la posizione, l’immersione e lo slittamento della faglia che si è rotta nel 1908, utilizzando le misure di livellazione dal 1907 al 1909. “È noto che le faglie capaci ben mappate intorno allo Stretto di Messina, localizzate sia sulla terraferma che al largo, coincidano con le compensazioni della stratigrafia del terreno. Queste compensazioni si saranno sviluppate a causa della ripetuta fagliazione che bilancia la superficie nel corso del tempo, quindi il fatto che non siano state modellizzate in dettaglio è una chiara omissione nello studio di questo grande terremoto”, sostengono gli autori.

“Diversi modelli precedenti hanno tentato di risolvere il dibattito di lunga data su quale sorgente sismogenetica potesse aver prodotto il terremoto di Messina del 1908. Noi dimostriamo per la prima volta che la qui chiamata Faglia Messina-Taormina è probabilmente la sorgente per il terremoto più distruttivo registrato in Europa nel XX e XXI secolo. Il riesame dei dati di livellazione dal 1907 al 1909 svela lo slittamento sulla faglia capace con un’immersione ad est di 70° e una profondità dip-slip di 5 metri, con lo slittamento che si è propagato alla superficie del fondale marino, con la rottura superficiale localizzata al largo sulla Faglia Messina-Taormina”, scrivono gli autori.

Per quanto riguarda un’altra questione molto dibattuta su questo grande terremoto, ossia il devastante tsunami generato, gli autori dello studio riportando che “non vi è accordo sulla causa dello tsunami; alcuni autori propongono un’importante frana sottomarina come causa del maremoto, mentre altri la escludono. Un’ipotesi alternativa suggerisce una causa composita, con uno spostamento cosismico del fondale marino insieme ad una notevole frana sottomarina all’interno dello Stretto di Messina”.

Il terremoto e il conseguente tsunami del 1908 hanno danneggiato gravemente le città di Messina e Reggio Calabria, provocando un tragico bilancio umano. Il boato del sisma fece tremare lo Stretto di Messina alle 05:20 del 28 dicembre e onde di altezza comprese tra 6 e 13 metri spazzarono via le coste siciliane e calabresi che si affacciavano sullo Stretto, compresi tutti gli abitanti che su quelle coste si erano rifugiati per tentare di sfuggire ai crolli. Metà della popolazione di Messina e un terzo di quella di Reggio Calabria persero la vita in quella che è considerata la più grave catastrofe naturale in Europa per numero di vittime e il più grande disastro naturale a colpire l’Italia in tempi storici.

Fonte: strettoweb

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

Nell'Ottocento, l'Italia fu devastata da un'esplosione di colera, una malattia che trovò terreno fertile nelle cattive condizioni igienico-sanitarie del tempo. Un'indagine parlamentare svolta tra il 1885 e il 1886 rivelò uno scenario allarmante, caratterizzato da mancanza di fognature, carenza di latrine e smaltimento inadeguato dei rifiuti. Questo contesto, combinato con la mancanza di acqua potabile e la generale sfiducia nella medicina ufficiale, contribuì a rendere l'epidemia di colera particolarmente letale.


Condizioni Igienico-Sanitarie Precarie:
L'indagine parlamentare evidenziò che la maggior parte dei comuni nel Regno d'Italia era priva di sistemi fognari, mentre meno della metà possedeva latrine. In alcune aree, gli escrementi venivano addirittura depositati negli spazi pubblici, amplificando il rischio di diffusione delle malattie. La carenza di acqua potabile aggravava ulteriormente la situazione, creando un ambiente ideale per la proliferazione del colera.


Problemi nello Smaltimento dei Rifiuti:
Lo smaltimento dei rifiuti rappresentava un grave problema, specialmente nelle periferie e nei paesi sprovvisti di servizi di nettezza urbana. La mancanza di un sistema efficiente portava all'accumulo di rifiuti per strada, aumentando il rischio di contaminazione e facilitando la diffusione del colera.


Arretratezza delle Conoscenze Mediche e Sfiducia nella Medicina Ufficiale:
Nell'Ottocento, le conoscenze mediche erano ancora limitate, e la popolazione aveva scarsa fiducia nella medicina ufficiale. Questa sfiducia complicò gli sforzi per contenere l'epidemia, poiché molte persone preferivano rimanere fedeli a rimedi tradizionali o addirittura evitare il coinvolgimento delle autorità sanitarie.


Misure Adottate e Fallimenti:
Per cercare di arginare l'epidemia, furono implementate misure come i cordoni sanitari marittimi e i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da zone infette. Tuttavia, tali provvedimenti si rivelarono inefficaci nel fermare la diffusione del colera, soprattutto nelle città più colpite come Napoli, dove l'epidemia si manifestò con particolare ferocia.


Conclusioni:
L'esplosione del colera nell'Italia dell'Ottocento rappresentò un drammatico risultato delle condizioni igienico-sanitarie precarie, dell'arretratezza delle conoscenze mediche e della sfiducia nella medicina ufficiale. Questo capitolo oscuro della storia italiana sottolinea l'importanza dell'igiene pubblica e delle politiche sanitarie nella prevenzione delle epidemie, fornendo lezioni preziose per il futuro.

Fonte: ambimed-group

 

 

Il colera a Pisa da il Corriere dell Arno 12 ottobre 1884

 

 

Il colera a Pisa Corriere dell Arno 12 10 1884

 

 

 Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

Fratellanza Militare logo

 

La Fratellanza Militare dei Combattenti: Un Legame Solido Tra Veterani e Soccorso Pubblico

Nel lontano 1872, prendeva vita in Italia un'associazione destinata a scrivere un capitolo significativo nella storia del supporto ai veterani militari. La Fratellanza Militare, o "Fratellanza Militare dei Combattenti", nacque con l'intento nobile di riunire coloro che avevano indossato l'uniforme e di promuovere il loro benessere, alimentando nel contempo il spirito di solidarietà tra i compagni d'armi.

Le origini della Fratellanza Militare erano intrise di un profondo senso di mutuo soccorso, poiché i veterani condividevano il peso delle esperienze belliche e cercavano un rifugio comune nella fratellanza che solo chi ha condiviso le stesse sfide può comprendere appieno. Tuttavia, fu solo nel 1878 che l'organizzazione ampliò la sua missione, dando vita alla "Compagnia Volontaria di Pubblica Assistenza".

Questa audace iniziativa, interna alla Fratellanza Militare, vide la luce con l'obiettivo di estendere una mano solidale non solo ai veterani, ma anche agli emarginati e agli infortunati della società. La "Compagnia Volontaria di Pubblica Assistenza" divenne il baluardo dell'umanità organizzata militarmente, impegnandosi nella missione nobile di portare aiuto concreto a coloro che si trovavano in situazioni di disagio.

I Militi Volontari, con il loro impegno, non solo offrivano assistenza agli ammalati, ma si dedicavano anche al soccorso in situazioni di emergenza. Le esercitazioni periodiche, precursori di ciò che oggi chiameremmo Protezione Civile, evidenziavano la preparazione di questa compagnia a rispondere con prontezza a qualsiasi evenienza, confermando il loro ruolo imprescindibile nella tutela della comunità.

Da allora, la Fratellanza Militare ha tessuto una trama di solidarietà e servizio, offrendo sostegno ai veterani delle forze armate italiane, specialmente nei delicati periodi che seguirono la guerra d'indipendenza e l'unificazione del Paese. Oggi, la loro eredità continua a vivere attraverso un impegno costante a promuovere il bene comune e a mantenere vivo il legame tra chi ha servito la patria.

Roberto Marchetti

 

 

Fonte: fratellanzamilitare.com

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giosafatte Baroni: Una Vita Di Passione e Impegno Politico

Nato a Pisa il 21 ottobre 1827*, Giosafatte Baldassarre Marchionne Baroni è stato una figura di spicco nel panorama politico e patriottico dell'Italia del XIX secolo. La sua vita è stata segnata da una fervente partecipazione ai movimenti per l'indipendenza e la ricostruzione del Gran Ducato di Toscana.

Già in giovane età, Baroni si unì ai movimenti cospiratori contro il governo lorenese, venendo costretto ad emigrare in Corsica. Nel 1848, all'età di ventuno anni, si unì al Corpo di Spedizione Toscano, combattendo valorosamente a Curtatone e Montanara nelle file del Battaglione Civico pisano-senese inquadrato nel IV Reggimento dei Cacciatori degli Appennini. 

Ferito e catturato dagli austriaci, fu imprigionato ma successivamente rilasciato, tornando a combattere l'anno successivo nella Battaglia di Novara.

La sua vita politica fu segnata da continue tensioni con le autorità, venendo ammonito più volte dalla polizia per le sue presunte connessioni con associazioni sovversive. Nel 1854 partecipò al fallito moto mazziniano a Pisa e nel 1859 si unì come cacciatore volontario al 1° Reggimento Cacciatori delle Alpi guidato da Garibaldi nella "Seconda guerra d'indipendenza".

Baroni, un fervente seguace dei principi mazziniani, ricoprì importanti incarichi, tra cui la presidenza dell'Associazione dei Reduci delle Patrie Battaglie e la fondazione della sezione pisana dell'AIL (Associazione Internazionale dei Lavoratori).

La sua partecipazione alla "Terza guerra di indipendenza" nel 1866 e alla sfortunata Battaglia di Mentana nel 1867 al fianco di Garibaldi ne fecero un eroe nazionale. Nel 1871, divenne membro del Consiglio direttivo della Società democratica internazionale, rappresentando la componente garibaldina.

Nel corso degli anni, Baroni continuò il suo impegno politico e sociale, assumendo la presidenza dell'Associazione di Mutuo Soccorso fra i volontari superstiti delle patrie battaglie nel 1872. Tuttavia, dopo il 1875, si allontanò gradualmente dal movimento internazionalista.

Nel 1884, a Pisa, fu fondatore e Comandante della Croce Rossa, una Compagnia di mutua assistenza.

Giosafatte Baroni si spense il 5 maggio 1899 a Pisa, lasciando dietro di sé una ricca eredità di impegno politico e sociale nella storia dell'Italia unita.

 
 
*Come da documento di Battesimo Opera Primaziale del 14 giugno 1850.
Fonti: siusa.archivi.beniculturali, bfscollezionidigitali.org, Centro archivistico della Scuala Normale Superiore
 
Bibliografia:
R. Romiti Bernardi, "Gli internazionalisti a Pisa dal 1864 al 1875", in "La Toscana nell'Italia unita. Aspetti e momenti di storia toscana 1861-1945", Firenze, Unione Regionale delle Provincie Toscane, 1962.
F. Bertolucci, "Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla nascita dell'Internazionale alla Camera del Lavoro", Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1988.
E. Capannelli e E. Insabato, "Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra '800 e '900. L'area pisana". Olschki, 2000
Ippolito Spadafora "Pisa e la Massoneria" Edizioni ETS, 2010
Alla memoria di giosaffatte Baroni, nel 1 anniversario della sua morte, gli amici, I compagni di pensiero ed azione consacrano, 5 Maggio 1900 Pisa : Tip. Ferdinando Simoncini, 1900 monografia
 
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

I magazzini della Croce Rossa erano ubicati presso l'Istituto Tecnico Antonio Pacinotti, situato nei locali di Palazzo Lanfranchi.

Questo istituto, dedicato alla memoria di Antonio Pacinotti, fungeva da sede ospitante per i depositi della Croce Rossa.

Il Palazzo Lanfranchi, a sua volta, costituiva l'ambiente fisico che accoglieva e forniva spazio per gli sforzi logistici e umanitari dell'organizzazione. In tale contesto, l'Istituto Tecnico svolgeva un ruolo cruciale nel supportare le attività della Croce Rossa, offrendo le strutture necessarie per gestire e distribuire le risorse destinate all'assistenza e al soccorso in situazioni di emergenza o necessità.

Roberto Marchetti

 

 Scuole tecniche
Foto: tratta dal web e rielaborata

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Non si hanno notizie certe che si tratti proprio di questo ex Convento in quanto ci sono altri ex conventi con lo stesso nominativo.
Nota del curatore del testo
 

Era una storia pressoché dimenticata.

Il 24 febbraio 1919 il capo missione della CR ungherese in Svizzera, Ernst Ludwig, dopo che una richiesta del 12 gennaio precedente era rimasta inascoltata, inoltrava al Cicr. una lettera nella quale esprimeva tutta la sua preoccupazione per una serie di reclami che aveva ricevuto dalla CR di Budapest sulla situazione dei prigionieri ungheresi in Italia. Prima di tutto i rilievi riguardavano il ritardo del rimpatrio dei prigionieri invalidi che avveniva 3-4 mesi dopo gli esami medici. In Italia ermo stati organizzati due campi di concentramento per Invalidi, uno a Calci (Pisa) e l'altro a Como. A Calci i prigionieri vivevano in condizioni primitive senza il bagno e nelle baracche il riscaldamento era del tutto insufficiente. Gli invalidi erano costretti a trascorrere molto tempo all'aria aperta così che, sosteneva la denuncia, le loro gambe e mani gelate dovevano essere amputati.

La Certosa ha svolto un ruolo importante durante la prima guerra mondiale. Da gennaio a marzo 1915 fu caserma del 32 ° Reggimento Artiglieria dell'Esercito Italiano, prima di diventare ospedale per soldati italiani dall'ottobre 1915 a dicembre 1916. Tra gennaio 1917 e dicembre 1919 fu trasformato in ospedale di transito per austro-ungarici Prigionieri di guerra, sottoposti a visita e spesso mesi di osservazione per distinguere i feriti e gli ammalati in buona fede da quelli autoinflitti, in vista del loro scambio con le controparti italiane. Accanto a questa funzione, nel 1918 la Certosa accolse alcuni profughi italiani da quelle parti del Paese che erano state sotto l'occupazione nemica. Fu solo nel 1920 che fu finalmente riportato alla sua funzione originaria.

Furono necessari numerosi rimaneggiamenti per trasformare la Certosa in prima caserma, poi ospedale militare e successivamente ospedale sicuro per i prigionieri di guerra nemici. Quest'ultimo prevedeva la costruzione di una garitta all'ingresso e l'erezione di muri e sbarre per impedire la fuga dei detenuti e l'ingresso in alcune aree di importanza artistica o storica. Gli ufficiali austro-ungarici erano alloggiati in stanze in varie parti del complesso, ma i prigionieri di grado inferiore molto probabilmente occupavano e ricevevano cure mediche negli edifici dell'ex granaio, magazzini e stalle che si estendono per oltre 4.000 metri quadrati. I prigionieri affetti da malattie infettive, che originariamente occupavano un certo numero di stanze di isolamento all'interno del monastero, furono trasferiti nel 1918 in tende nel parco contro il muro di fondo del complesso, ben lontano dagli edifici principali, probabilmente in risposta alle pressioni locali.

Dopo l'Armistizio, l'afflusso del numero degli infermi divenne ingente tanto che "con il passare dei mesi gli arrivi dei prigionieri aumentarono al punto che nel febbraio 1919 ne risultano 1.000, molti dei quali sistemati alla meglio per terra sulla paglia". 

La Certosa di San Giovanni Evangelista in Calci, comunemente nota come Certosa di Pisa o Certosa di Calci, è un complesso monastico, situato alle pendici del Monte Pisano, nel comune di Calci (Pisa), che ospitò un monastero certosino, attualmente sede del Museo Nazionale della Certosa Monumentale di Calci e del Museo di Storia Naturale dell'Università di Pisa (ala occidentale). 

 

Stalla magazzini granai alloggi dei soldati

Stalle, magazzini e granai adibiti ad alloggi dei soldati 

 

 malati certosa 1

Soldati nel chiostro grande

 

malati certosa 2

malati certosa

Soldati italiani nel cortile d'onore 

 

Carriages

 32°Reggimento artiglieria 

 

Fonte: 
josefkolbe-prisoner-of-war-calci (traduzione Roberto Marchetti)
Nessuno è rimasto ozioso: La prigionia in Italia durante la Grande Guerra Di Sonia Residori edizioni Franco Angeli
La Certosa di Calci nella Grande Guerra. Riuso e tutela tra Pisa e l' Italia, a c. di Gioli A., Edifir Edizioni Firenze 2015, p.72 
 
Foto: josefkolbe-prisoner-of-war-calci (traduzione Roberto Marchetti)
 
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

Le ambulanze da montagna, completamente someggiate su quadrupedi, durante il conflitto avevano assunto una vasta gamma di ruoli che superavano le loro funzioni originali.

Operavano sia in prima che in seconda linea, svolgendo compiti diversificati come infermerie presidiali, ospedaletti chirurgici, locali d'isolamento, depositi per casi sospetti e istituti di riposo.

La loro versatilità consentiva loro di adattarsi alle mutevoli esigenze del fronte, fungendo da punti cruciali per la gestione e il trattamento di feriti e malati in diverse situazioni operative durante il conflitto.

 

 
Autoambulanza della grande guerrra
Foto: sanitagrandeguerra.it 
  
ambulanza 3 carnia 1917
L'ambulanza n. 3 in Carnia (Tribuna Illustrata n. 36 del 1917) 

 

Queste piccole formazioni sanitarie, in numero di 32, avevano assunto una numerazione non progressiva: 3, da 7 a 10, 15, 20, 22, 24, da 29 a 33, 37, 40, 45, da 48 a 50, 59, 60, 67, 73, 75, 77, 82, 83, 85, 87, 88.

Ambulanza da montagna 30 
Accampamento dell'Ambulanza da montagna attendata n. 30 alla Cantoniera della Presolana. Fonto: lombardiabeniculturali.it
 
 

Fonte: sanitagrandeguerra.it

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 
Clarice Pierini Borella di Pisa, chiamata a prestare per tre mesi il generoso servizio di assistenza ai militari italiani feriti, che sarebbero stati trasportati dalla Libia in patria. La dama pisana precedette di poco la partenza di un contingente maschile, il tenente medico Luigi Bertini e i militi Cesare Angiolini, Cesare Bruschi, Raimondo Ferrigni, Aurelio Gianni, Oreste Liporatti e Antonio Scarpellini.

Salita sulla nave ospedale Menfi con il secondo turno e rimasta anche nel terzo, su precisa richiesta della marchesa Guiccioli, Clarice Pierini Borella tenne un diario dei suoi tre mesi di missione che costituì una preziosa testimonianza non solo della capacità professionale delle infermiere, ma anche della sensibilità umana sua personale e di quella delle sorelle, ma in particolare la loro rappresentante pisana, espressero verso quei disgraziati che venivano sottoposte alle loro cure.
 
Il 10 gennaio del 1912, rientrarono i militi pisani della Croce Rossa da Tripoli con il treno da Firenze, accolti da una folla i cittadini, dal loro presidente Bocciardo e dal segretario Vaccaneo, dall’onorevole Queirolo e da rappresentanze della Fratellanza militare e dei reduci d’Africa, dalla Banda dei Minori corrigendi, prima che si formasse un corteo, diretto dalla Barriera Vittorio Emanuele alla piazza Garibaldi.

Clarice Pierini Borella, che poteva fregiarsi ormai del distintivo che lo Stato Maggiore della Regia Marina aveva deciso di assegnare al personale imbarcato per servire sulle Navi Ospedale, fu poi invitata dal Comitato di Volterra, ormai tra i più attivi della provincia e non solo, a tenere una conferenza, corredata da un filmato, sulla guerra di Libia, presso il Teatro Flacco della città etrusca, in occasione della Festa del fiore che doveva servire anche a rilanciare il sostegno economico alla Croce Rossa. Per parte loro, le Dame pisane organizzavano nei giorni del natale, in sintonia con quanto facevano le sorelle di altre città, una vendita di distintivi patriottici, il “trifoglio” d’Italia, in metallo smaltato con foglioline dei tre colori nazionali. Alla raccolta di fondi contribuirono anche gli studenti con le rappresentazioni teatrali.
 
Dal 26 maggio 1915 al 1925 ha assunto l'ncarico di Ispettrice provinciale delle II.VV.
 
Onorificenze e decorazioni
1912 Medaglia d'argento concessa dal Ministro della Regia Marina.
1919 Attestato di nenemerenza da parte del Corpo D'Armata di Firenze.
Medaglia d'argento al Merito C.R.I.
Attestato al Merito della C.R.I.
 
 
Bibliografia
Clarice Pierini Borella, Tre mesi come infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana sulla nave “Melfi”. Diario di bordo, Pisa, Mariotti, 1912
Cfr. Alberto Galazzetti-Filippo Lombardi, La Croce Rossa Italiana nella guerra di Libia, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 753
Barbara Baccarini, La strutturazione dei soci e le componenti femminili della Croce Rossa Italiana, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 435.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 14 gennaio 1912.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 24-31 dicembre 1911. 55
 

Fonte: Storia della Croce Rossa in Toscana dalla nascita al 1914 I studi

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 


Logo CRI Comitato di Pisa

 
 
 
Un popolo che non conosce la storia è circoscritto al momento presente della generazione contemporanea
Arthur Schopenhauer

 

La Croce Rossa Italiana a Pisa

Prima parte dal 1883 al 1915 

Il 21 ottobre del 1883, a Pisa, veniva presentato il programma per la costituzione del Consolato operaio delle Associazioni liberali della provincia di Pisa, ovvero l’associazione provinciale di tutte le società che si richiamavano ai valori condivisi del Risorgimento.

Per lo più legate all’area radicale e massonica, si trattava di organizzazioni laiche, aperte a vari orientamenti coerentemente con la complessità ideologica garibaldino-mazziniana. Il programma si riprometteva il «miglioramento intellettuale, economico e politico della grande famiglia dei lavoratori», lo sviluppo dell’istruzione affinché gli operai potessero meglio attendere ai loro doveri e aspirare ai loro diritti, lo sviluppo del mutuo soccorso, della cooperazione e della partecipazione agli utili di impresa, il conseguimento del suffragio universale. L’elenco di società aderenti comprendeva ben 22 soggetti, fra cui la Fratellanza Militare di Mutuo soccorso di Pisa; è in questo ambito di associazionismo popolare che compare quindi il primo segnale di un’idea di Croce Rossa a Pisa.

Un anno dopo, con un manifesto del 31 ottobre 1884 a firma del “comandante” Giosafatte Baroni, che agiva a nome del Comitato promotore, veniva annunciata la costituzione in Pisa della compagnia di mutuo soccorso e di assistenza “La Croce Rossa”, militarmente ordinata, avente come scopo «il mutuo soccorso e l’assistenza di ogni ordine di cittadini in caso di pubbliche calamità o di parziali ma gravi disgrazie», prestando l’opera sua esclusivamente umanitaria, o per propria iniziativa o per mandato affidatole dall’autorità provinciale o comunale. Il nome di Baroni riconduceva alla massoneria e al mondo risorgimentale, in quanto quel personaggio, assai noto nel territorio, aveva un ricco passato di partecipazione agli eventi del movimento garibaldino e post-garibaldino; era stato anche un convinto internazionalista, legato ai gruppi più radicali nei primi anni settanta dell’800.

Le circostanze in cui nasceva quel primo tentativo di Comitato della Croce Rossa pisana erano comunque drammatiche e contingenti, perché legate allo scoppio dell’epidemia di colera che non aveva risparmiato neppure la “salubre” Pisa. Si deve dunque pensare a un’iniziativa del mondo laico, che così intendeva differenziarsi dalla Misericordia, ma che dal punto di vista delle modalità di allora non corrispondeva agli scopi ufficiali della organizzazione, che a quel tempo andava strutturandosi a livello nazionale e regionale. L’esperienza di questo primo comitato, che a Pisa si era intitolato Croce Rossa, ebbe quindi una vita abbastanza breve, anche per ragioni politiche.

Fu così che nacque nel 1888 un nuovo Sotto Comitato della Croce Rossa Italiana di Pisa, formalizzato a seguito di un’assemblea di cittadini e di autorevoli rappresentanti del notabilato, tenutasi il 25 agosto di quell’anno nella sala del Consiglio comunale. L’elemento propulsore di questa operazione era l’avvocato e giurista Emilio Bianchi, professore, civilista e politico di orientamento monarchico-costituzionale, il che faceva comprendere come la nuova Croce Rossa a Pisa nascesse in un contesto decisamente alternativo a quello in cui si era formato il primo sodalizio recante quel nome.

Il Sottocomitato di Pisa, che già all’inizio contava 111 iscritti, cominciò la sua attività sotto la presidenza del Tenete Generale Francesco Villani, con vicepresidenti lo stesso professor Bianchi e il cavalier Giuseppe Calvagna. Gli uffici furono situati presso la Regia Prefettura di Pisa ed il magazzino materiali, situato in locali presso le Scuole Tecniche, rimase lì fino alla smobilitazione del 1919.

La nomina di Villani come presidente dovette avere un carattere contingente e di urgenza; già l’anno successivo gli subentrò infatti il prof. Domenico Barduzzi, che sarebbe rimasto in carica fino al 1893. Barduzzi era un prestigioso medico e professore universitario, nonché direttore delle Terme di San Giuliano; il suo era un ruolo più che altro rappresentativo, essendo svolte tutte le principali funzioni operative dal vicepresidente Bianchi, vero ispiratore del sodalizio e personaggio di assoluto rilievo nel panorama politico cittadino, esponente attivo anche nel campo della propaganda liberale-monarchica.

Pisa intanto veniva considerata sempre più strategica in prospettiva militare; nel 1892 la Croce Rossa Italiana di Pisa venne incaricata di predisporre un Ospedale Territoriale da 120 posti letto presso l’ ex Convento di San Giovannino, attività pensata soprattutto in funzione del crescente impegno coloniale. Nel 1893 la presidenza del Comitato venne affidata di nuovo a un medico, il maggiore Emilio Bartalini che aveva fatto parte del consiglio fin dagli esordi.

Negli stessi anni si registrava la crisi della locale Misericordia, colpita da una scissione che dava luogo a un altro ente, la Croce Bianca, di ispirazione più laica e massonica.
Nel 1899 le grandi manovre dell’VIII Armata, che prevedevano l’impiego della Croce Rossa, impegnarono anche Pisa che contribuì al funzionamento di un ospedale da campo n. 21, operante tra il Mugello e l’Aretino. In funzione di questo impegno, fu acquistata una tenda di medicazione, un’ambulanza da montagna completa di dotazioni e fu predisposto un corso d’istruzione per il personale volontario presso l’Ospedale Civile.

Il Comitato di Pisa cominciava ad avere un peso patrimoniale e finanziario non trascurabile. Come altrove, svolgevano un ruolo importante anche le Dame della Croce Rossa che, nel 1907, come sezione femminile, furono protagoniste delle attività di finanziamento, organizzando con un certo successo diverse feste di beneficenza. Per il terremoto di Messina del 1908, la Croce Rossa pisana si mobilitò allestendo nella stazione ferroviaria di Pisa San Rossore un “Posto di Pronto Soccorso”, garantito da un Ufficiale e tre militi della C.R.I., e con le dame di Croce Rossa che prestavano assistenza come infermiere durante il passaggio di convogli con feriti e profughi sfollati dalle zone terremotate. Il lavoro svolto in quell’occasione portò al Comitato di Pisa tre onorificenze, tra cui una medaglia di bronzo.

Non ci fu dunque difficoltà ad organizzare anche a Pisa, come già veniva fatto altrove, un primo corso per Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, istituito nel maggio del 1909, con le prime diplomate effettive dal luglio del 1910.

Nel 1909, intanto, era stato chiamato alla presidenza il prof. Dario Bocciardo, esperto di radiologia medica, che dovette gestire un periodo delicato di riorganizzazione del sistema pisano della assistenza sociale (è di quegli anni la fusione di Pubblica Assistenza e Croce Bianca in un unico organismo). Bocciardo, uomo di idee innovative, era un convinto fautore di una decisa accelerazione nei metodi e nella organizzazione della C.R.I., che implicava una presenza assai più attiva nella società civile.

Nel 1910 la Croce Rossa di Pisa subentrò alla Società di Mutuo Soccorso Croce Bianca del Piano di Pisa (che aveva sede a San Frediano a Settimo), assumendone la quota di lavoro e ampliando così il proprio ambito territoriale. Tutto questo imponeva una continua ricerca di fondi, che specialmente le dame seppero perseguire con grande alacrità, raggiungendo l’apice con il grande avvenimento del ballo per la Croce Rossa organizzato a Pisa il 18 febbraio 1911.

Gli avvenimenti politici, però, fecero sì che si imponesse di nuovo ben presto la fisionomia originaria dell’impegno sui campi di battaglia. Allo scoppio della guerra italo-turca per la Libia, l’infermiera volontaria Clarice Pierini Borella di Pisa fu chiamata a Tripoli a prestare servizio di assistenza ai militari italiani feriti. La dama pisana precedette di poco la partenza di un contingente maschile, guidato dal tenente medico Luigi Bertini. Il 10 gennaio del 1912, al loro rientro da Tripoli, i militi pisani della Croce Rossa furono accolti da una folla di cittadini, che li accompagnò in corteo dalla stazione fino in piazza Garibaldi.

Nello stesso anno 1912 il Comitato di Pisa passò sotto la presidenza del professor Giuseppe Tusini, clinico universitario, direttore dell'Istituto di Patologia Chirurgica. Dal 1914 la C.R.I. di Pisa si dedicò soprattutto al potenziamento delle risorse, alimentando la raccolta di fondi da investire nell’acquisto di strumenti e di materiali, oltre che nell’organizzazione di corsi di addestramento di diverso tipo.

Tra le altre cose, dall’inizio del 1915 Pisa lavorò alla fondazione, nella sua zona, della Croce Rossa Italiana Giovanile, organizzazione creata per gli ambienti scolastici, rivelatasi particolarmente efficace sul territorio. Il successo tra gli studenti doveva riferirsi anche alla propensione che molti giovani manifestavano per l’intervento in guerra, verso il quale i dirigenti locali della Croce Rossa di Pisa non si mostrarono ostili. Incombevano però anche le questioni “civili”.

Alla fine di febbraio dello stesso anno, la Croce Rossa Italiana di Pisa si mobilitò infatti per il terremoto della Marsica che aveva fatto circa 30.000 vittime. In breve tempo fu disposto l’invio di coperte, vestiario e viveri e si organizzarono squadre di soccorso per contribuire allo slancio nazionale. Meno di tre mesi dopo, il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarava la guerra all’Austria – Ungheria.

A cura di: Alessandra Pollina

 

Bibliografia:
Emilio Avv. Prof.  Bianchi, La Croce Rossa Italiana. Il suo Passato e il suo Avvenire, Conferenza pubblica tenuta nel R. Teatro Ernesto Rossi il 16 giugno 1889, Pisa, Tipografia T. Nistri e C,  s.d.,
Vasco Galardi, La storia cronologica della CRI nella provincia di Pisa; dal 12 maggio 1820 all 23 dicembre 2000, Casciana Terme, Tipografia Fracassi, 2001. 
Ministero per i Beni e le Attività culturali Biblioteca Universitaria di Pisa, Un secolo di associazionismo nel territorio pisano (1850-1950), Pisa, Edizioni ETS,  2000.
Ippolito Spadafora, Pisa e la Massoneria, Pisa, Edizioni ETS, 2010.
Sandra Cerrai, Pubblica Assistenza SR Pisa Un lungo cammino assieme, 134 anni di solidarismo e mutualità (1886-2019), Pisa, Il Campano, 2021.
Maurizio Vaglini, L'Ospizio Marino di Boccadarno nella storia di Marina di Pisa, edizioni Phasar, 2012.
Gianluca Fulvetti e Stefano Gallo edizioni, Antifascismo, guerra e resistenza a San Giuliano Terme, Pisa, Edizioni ETS, 2014.
Alberto Zampieri, Pisa negli anni della Grande Guerra, Pisa, Pacini editore, 2015.
Massimo VitalePerò mi fò molto coraggio, Edizioni ETS, Pisa, 2016.
Antonio Cerrai e Giuseppe A. Cacciatore, Storia del Comitato di Pisa di , nella raccolta “Storia della Croce Rossa in Toscana dalla nascita al 1914. I. Studi” a cura di Fabio Bertini Costantino Cipolla Paolo Vanni, Milano, Edizioni Franco Angeli, 2023.
 
 
 
 
Seconda parte dal 1915 al 1928  

in costruzione

 

 

 

 


Ricerca storica: Giuseppe Cacciatore e  Roberto Marchetti 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siluet uomo Siluet uomo a Emilio Bianchi  Barduzzi Domenico 1 Siluet    
Giosafatte Baroni  On. Gen. Francesco Villani  On. prof. avv. Emilio Bianchi Prof. Cav. Barduzzi Domenico  Sorella Clarice Pierini Borella    
             
             
             
             
Antonio Cesaris Demel c  Giuseppe Tusini 3  merelli livio Pardi Francesco 1 Livia Gereschi Marassini Alberto 1   
Prof. Dott. Antonio Cesaris-Demel   Gr. Uff. Prof. Tusini Giuseppe  Dott. Livio Merelli Prof. Pardi Francesco  Sorella Livia Gereschi  Prof. Marrassini Alberto  
             
Rossi Vincenzo 1 Letizia Da Cascina           
 Prof. Rossi Vincenzo  Sorella Letizia da Cascina              
             

 

 " Nessuno muore sulla terra finchè vive nel cuore di chi resta"

 

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gr.Uff. Dr. Paolo Padoin

 

 Franco Mosca

 

Cav. Gran Croce Dr. Rodolfo Bernardini

Gr.Uff. Dr. Paolo Padoin Comm. Prof. Franco Mosca Cav. Gran Croce Dr. Rodolfo Bernardini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questi sono solo alcuni dei mezzi storici avuti in dotazione dalla Croce Rossa Italiana Comitao di Pisa.

La pagina è in costruzione, verranno aggiunti altri mezzi nel corso della ricerca.

 

 Fiat 515 1  Fiat 1100 Fiat 2300 1 
Fiat 515  Fiat 1100  Fiat 2300 

 

 

 Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

Nella mattina di sabato scorso, 25 agosto 1888, i membri del sotto comitato per la Croce Rossa si sono riuniti nella solenne sala del consiglio comunale. L'atmosfera era carica di impegno e determinazione, pronti a continuare la nobile tradizione di servizio e soccorso che caratterizza l'istituzione.

Il momento clou dell'incontro è stato il breve ma eloquente discorso del Prof. Cav. Avvocato Emilio Bianchi, il quale ha ripercorso la storia illustre di questa istituzione dedicata al soccorso umanitario. Dopo il toccante intervento, si è proceduto con l'importante passo dell'elezione dei membri chiave che avrebbero guidato il sotto comitato.

Al prestigioso ruolo di presidente è stato eletto il Generale On. Francesco Villani, già deputato al parlamento. La scelta di un uomo con una vasta esperienza politica ed umanitaria promette di portare leadership e dedizione alla causa.

Tra i consiglieri, figure di spicco sono emerse: il dottor Bartolini Emilio, il Prof. Cav. Avv. Emilio Bianchi, il Dottor Vittorio Casaretti, l'avvocato Luigi Curini, il Barone Giuseppe Galvagna, il dottor Riccardo Gattai, l'avvocato Alberto Guarducci, il dottor Lando Landi, il dottor Amerigo Leeci e il dottor Amerigo Poggesi.

In un prossimo incontro, i membri del consiglio dovranno eleggere due vice presidenti, un segretario, un responsabile contabile per la cassa, un responsabile contabile per il magazzino e un delegato presso il Comitato regionale di Firenze. Questi incarichi cruciali saranno fondamentali per garantire il corretto funzionamento e la gestione efficace delle risorse a disposizione.

La Croce Rossa, con la sua lunga storia di altruismo e dedizione, può sicuramente contare su questo nuovo sotto comitato per continuare a svolgere il suo nobile compito di soccorso e supporto alle comunità in momenti di necessità.

Roberto Marchetti  

 

Costituzione della CRI a Pisa

La Provincia di Pisa anno XXIV n. 35 del 30 agosto 1888

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Costituzione della CRI a Pisa r  La Regina Elena e la CRI di Pisa   Posti di ristoro
 Costituzione della CRI a Pisa  La Regina Elena a Pisa  
     

 

 

 

Fascicoli

 

CRI nellaprovincia di Pisa dalle origini al 1914 dimensioni medie   
   

 

 

 

 

 

 

 

 

Fiat 2300 

Fiat 2300 1

Nella seconda metà degli anni cinquanta la casa torinese avviò lo studio di una nuova vettura di grandi dimensioni che potesse prendere il posto delle FIAT 1400 e 1900, sul mercato dal 1950. Visto il perdurare della moda, anche per la nuova ammiraglia venne scelta una carrozzeria d'impronta americaneggiante. Bandite però le rotondità del modello precedente, la nuova carrozzeria sfoggiava linee tese, grosse pinne e abbondanza di cromature.

 

Una 1800 berlina al Concorso d'eleganza a Cortina d'Ampezzo nell'estate del 1959
Dal punto di vista tecnico, invece, le novità maggiori arrivavano dai motori (tutti a 6 cilindri in linea con albero a camme laterale) e dalla sospensione anteriore a ruote indipendenti con barre di torsione. Per il resto la vettura conservava la trazione posteriore, il retrotreno ad assale rigido con balestre longitudinali, i freni a tamburo sulle 4 ruote ed il cambio manuale a 4 marce con leva al volante.

Pochi mesi dopo la presentazione della berlina a 4 porte (Salone dell'automobile di Ginevra del 1959), nelle versioni 1800 (1795cm³, 75cv) e 2100 (2054 cm³, 82 CV), la gamma s'arricchì della variante familiare, con carrozzeria giardinetta. La Fiat, prima casa in Europa (ma la moda era già diffusa negli Stati Uniti), tentò di affrancare questo tipo di carrozzeria dalla poco lusinghiera fama di veicolo da lavoro, introducendo il concetto di station wagon di lusso per il tempo libero. Gianni Agnelli, qualche anno dopo, utilizzava una 2300 Lusso Familiare, evoluzione della 2100 Familiare, per andare a giocare a golf.

Alla fine del '59 la Sezione Carrozzerie Speciali della FIAT realizzò la versione Speciale, sulla base della 2100, caratterizzata da passo e lunghezza maggiorati, un diverso (e più elaborato) frontale, da interni meglio rifiniti e da altre differenze minori. La carrozzeria Francis Lombardi, invece, lanciò la versione a passo allungato della berlina, apprezzata come taxi (configurazione a 7 posti) o come auto di rappresentanza (sia per le autorità Italiane che per il Vaticano) denominata President.

Fonte: wikipedia

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Fiat 1100

 

L'iconica Fiat 1100: Un'icona dell'industria automobilistica italiana

La storia della Fiat 1100 risale al lontano 1937, quando la Fiat 508C "Nuova Balilla 1100" fece la sua comparsa sul mercato automobilistico. Questo modello, evolutosi nel tempo, divenne famoso per la sua distintiva calandra, che gli valse il soprannome di "musone".

Dopo il periodo bellico, nel settembre del 1948, la vettura subì delle lievi modifiche, diventando la 1100 B. Tuttavia, fu con l'introduzione della 1100 E, verso la fine dell'estate del 1949, che la Fiat fece un significativo passo avanti. Questa versione presentava un vano bagagliaio e alloggiamento per la ruota di scorta, insieme al comando del cambio montato sul volante.

La Fiat 1100 E mantenne la sua popolarità fino alla primavera del 1953, quando venne sostituita dalla 1100/103. Questo modello continuò a godere di un notevole successo, grazie alla sua spaziosità, e trovò impiego in diversi settori, come taxi e ambulanze. Durante la guerra, era stata persino prodotta una versione adibita ad "ufficio mobile".

In definitiva, la Fiat 1100 si guadagnò un posto di rilievo nell'industria automobilistica italiana, diventando un'icona del suo tempo e lasciando un'impronta duratura nella storia dell'automobile.

Roberrto Marchetti

 

Fonte: wikipedia

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

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