Croce Rossa Italiana - Comitato di Pisa
 
nastro tricolore
 
 Raffaele Soru
Foto: Raffaele Soru
Fonte: wikipedia

 

Raffaele Soru: Il Sacrificio di un Eroe Italiano nella Crisi del Congo

Raffaele Soru, nato il 29 ottobre 1921 a Siapiccia, nella provincia di Oristano, è stato un militare e infermiere italiano che ha sacrificato la sua vita mentre serviva nella missione di pace dell'ONU durante la crisi del Congo. Il suo coraggio e il suo altruismo sono stati riconosciuti con la prestigiosa Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Arruolatosi come caporale infermiere nel Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, Soru si distinse per il suo impegno e la sua dedizione nel fornire cure mediche essenziali nella tumultuosa regione del Congo. Prestò servizio presso l'Ospedale da Campo n. 010 in due periodi distinti: dal 19 novembre 1960 al 24 giugno 1961 e successivamente dal 16 luglio al 17 settembre 1961.

Durante il suo secondo turno di missione a Albertville, nella provincia secessionista del Katanga, il 17 settembre 1961, Soru e un gruppo di militari italiani furono attaccati con armi da fuoco. Nel corso dell'attacco, Soru fu gravemente ferito all'addome. Nonostante le cure tempestive ricevute, il suo stato rimase critico e, pur lottando con coraggio, si spense il 25 settembre successivo.

Il suo sacrificio e il suo eroismo non sono stati dimenticati. Papa Giovanni Paolo II ha commemorato Soru insieme ai caduti di Kindu, lodandoli come eroi italiani da emulare e ricordare. Il 9 novembre 1994, il Presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro ha conferito postumo a Soru la Medaglia d'oro al valor militare, riconoscendo il suo straordinario contributo e sacrificio per la pace.

La memoria di Raffaele Soru è stata onorata anche nella sua città natale. Una via a Siapiccia porta il suo nome, inaugurata con la presenza della sua vedova, la signora Concetta La Mantia, nel 2006. Questo gesto testimonia il rispetto e la gratitudine della comunità locale per il suo servizio e il suo sacrificio in nome della pace e dell'umanità.

Raffaele Soru rimane un simbolo di dedizione, coraggio e sacrificio, e la sua storia continua a ispirare e a illuminare il cammino di coloro che si impegnano per la pace e il bene comune, sia in Italia che nel mondo.

Roberto Marchetti

 

 

Onoreficenze

Valor militare oro

Medaglia d'oro al valor militare
«Caporale del Corpo militare della Croce Rossa Italiana appartenente al personale di assistenza dell’Ospedale da campo n. 010 dislocato nell’ex Congo, nella zona di Alberthville e operante, al seguito delle Forze dell’ONU, a favore del personale delle Nazioni Unite e delle popolazioni locali, prestava la propria opera con fervido impegno, grande professionalità, instancabile solerzia ed elevato spirito di fratellanza, nel rispetto dei valori morali vissuti con sicura fede e salda determinazione. Nel corso di un proditorio attacco armato sferrato da forze ribelli, consapevole dei pericoli cui andava incontro nell’adempimento della propria missione umanitaria ma fiducioso nel simbolo della Croce Rossa Italiana e nei suoi principi, volontariamente accettati, immolava la vita a seguito delle ferite riportate durante l’aggressione. Fulgido esempio di assoluta dedizione, generoso altruismo e umana solidarietà sino all’estremo sacrificio.»
— Alberthville, 25 settembre 1961
— Roma, 7 dicembre 1994

 

Medaglia dargento al merito CRI

Medaglia d'argento al merito della Croce Rossa Italiana

 

Fonte: wikipedia

 

Ricerca storica: roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Paolo Vanni 

 

Il Prof. Paolo Vanni: Una Vita Dedicata alla Medicina e alla sua Storia

Il Prof. Paolo Vanni è una figura di spicco nel panorama accademico italiano e internazionale, con una carriera che abbraccia la ricerca scientifica, l'insegnamento e la promozione della storia della medicina. Ordinario di Chimica Medica presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Firenze, il Prof. Vanni ha consolidato la sua reputazione come esperto rinomato nella sua disciplina.

Con oltre 200 pubblicazioni tra libri, riviste e letture, il Prof. Vanni ha contribuito in modo significativo alla letteratura scientifica e alla diffusione della conoscenza nel campo della medicina. Il suo impegno nell'insegnamento è evidente anche dalla sua nomina come titolare dell'insegnamento di Storia della Medicina presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Firenze sin dal 1995, oltre alla sua partecipazione nei Diplomi Universitari degli Ospedali di Empoli e Prato.

La sua influenza si estende oltre i confini nazionali, con incarichi prestigiosi come Visiting Professor alla Washington University negli Stati Uniti e al Laboratorio Fur Biochemia dell'ETH Zurich. Nel corso della sua carriera, ha anche ricoperto il ruolo di Visiting Professor presso l'Institute of Medical History dell'Università di Toronto nel 2001.

Oltre ai suoi contributi accademici, il Prof. Vanni si è distinto per il suo impegno nell'organizzazione di congressi nazionali di Storia della Medicina, dimostrando un profondo interesse nel promuovere e diffondere la conoscenza storica nel campo della salute. Inoltre, la sua nomina come direttore dell'Ufficio Storico della Croce Rossa Italiana in Toscana sottolinea il suo impegno nel preservare e valorizzare il patrimonio storico legato all'assistenza sanitaria.

La sua dedizione alla ricerca e alla divulgazione gli ha valso riconoscimenti accademici prestigiosi, tra cui l'appartenenza all'Accademia "La Colombaria" di Firenze e all'Accademia dell'Arte Sanitaria di Roma. Inoltre, il Prof. Vanni è stato membro della Società Filoiatrica Fiorentina e ha ricoperto il ruolo di delegato nazionale alla Storia della Croce Rossa.

 

Fonte: Viviparchi.eu

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Alfonso Di Vestea
Foto elaborata da un immagine tratta da: ilprimato.com

 

Alfonso Di Vestea (1854-1938) è stato un eminente medico, batteriologo e virologo italiano nato il 20 luglio 1854 a Loreto Aprutino e deceduto il 25 aprile 1938 a Roma.

Dopo aver completato gli studi secondari presso il seminario di Atri, Di Vestea proseguì i suoi studi in medicina presso le università di Bologna e Napoli, laureandosi in quest'ultima città nel 1882 sotto la guida di Arnaldo Cantani. Si specializzò nel campo della microbiologia, lavorando presso l'istituto diretto da Cantani insieme a eminenti scienziati come Paolucci, Zagari, Ducrey e Tursini.

Nel 1886, grazie a una borsa di studio, si recò a Parigi dove apprese le basi della prevenzione antirabbica direttamente da Louis Pasteur, il quale l'anno precedente aveva sviluppato il primo vaccino antirabbico. Tornato a Napoli, Di Vestea si dedicò allo studio della rabbia e istituì un "Reparto della rabbia" presso l'istituto diretto da Cantani, focalizzandosi sulla ricerca e la prevenzione di questa grave malattia.

Nel 1887, insieme a Giuseppe Zagari, Di Vestea dimostrò che la trasmissione della rabbia al sistema nervoso centrale avviene attraverso i nervi periferici. Nel 1904, insieme a Remlinger, confermò indipendentemente la filtrabilità dell'agente eziologico della rabbia attraverso le candele filtranti di Berkefeld e di Chamberland.

Di Vestea si distinse anche nel campo dell'igiene, svolgendo un ruolo significativo nella divulgazione e nell'educazione attraverso il manuale universitario "Principi d'igiene", pubblicato a Torino dalla UTET nel 1908.

Dal punto di vista accademico, Di Vestea ricoprì importanti incarichi: fu professore di igiene a Palermo nel 1890 e l'anno successivo fu nominato capo del laboratorio della Scuola di sanità pubblica a Roma, antesignana dell'Istituto Superiore di Sanità. Nel 1892 ottenne la cattedra di igiene a Pisa, dove rimase fino al momento del pensionamento.

In onore dei suoi contributi, l'Università di Pisa gli ha dedicato l'Istituto di Igiene. La sua eredità continua a essere riconosciuta e celebrata nel campo della medicina e della ricerca scientifica.

Fonte: ilprimato.com

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

Giovan Battista Queirolo

 

Giovan Battista Queirolo, nato nel 1860, compì i suoi studi secondari presso il Liceo ginnasio di Chiavari. Successivamente, si iscrisse alla facoltà di Medicina dell'Università di Genova, laureandosi brillantemente nel 1882. Dopo la laurea, intraprese una carriera accademica e fu nominato prima assistente della Clinica medica e successivamente dell'Istituto di Patologia generale di Genova, sotto la direzione di Gaetano Salvioli.

Nel 1893, Queirolo ottenne un prestigioso posto alla cattedra di Clinica medica dell'Università di Pisa. Il suo arrivo a Pisa fu accolto con entusiasmo, e Queirolo stesso esprimeva il suo amore per la città con le parole: "Pisa sa che questo suo nuovo figliolo viene a lei col cuore pieno d'amore". La sua dedizione alla città di Pisa fu ricambiata con la nomina a consigliere comunale e successivamente come sindaco.

Nel 1905, Queirolo iniziò la sua carriera politica, venendo eletto deputato al Parlamento come costituzionale progressista. La sua carriera politica continuò con la rielezione nel 1913 e la nomina a senatore del Regno il 10 dicembre 1919.

Come medico, Queirolo incarnava un'ideologia che vedeva la clinica non solo come luogo di ricerca scientifica, ma anche di compassione e cura. Egli affermava che "la clinica deve essere ad un tempo scuola di scienza e di carità".

Dopo una lunga agonia, Giovan Battista Queirolo morì il 29 novembre 1930. Il suo prestigio fu tale che venne sepolto a Pisa nella Chiesa di San Francesco, in una cappella appositamente eretta per volere dell'Amministrazione degli Spedali Riuniti di Santa Chiara. La sua eredità come medico, accademico e politico rimane viva nella storia di Pisa e dell'Italia.

Fonte: wikipedia

Ricerca Storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Vasco Garardi 

Vasco Galardi, nato a Firenze il 25 febbraio del 1934, ha lasciato un'impronta importante nella ricostruzione storica della Croce Rossa nella provincia di Pisa. La sua passione per queste discipline ha guidato le sue azioni e ha plasmato la sua vita. La sua biblioteca personale , ricca di volumi su una vasta gamma di argomenti, testimonia la profondità dei suoi interessi e della sua conoscenza.

La sua dedizione al volontariato ha segnato gli anni cruciali della sua esistenza. Durante l'alluvione che ha colpito Firenze nel 1966, Vasco si è distinto per il suo impegno nel fornire soccorso e supporto umanitario. Questo spirito altruista lo ha spinto a partecipare attivamente ad altre iniziative di soccorso, incluso l'organizzare spedizioni per aiutare le vittime dei terremoti in Friuli e in Campania, dove ha contribuito a stabilire campi di soccorso.

Nel 1982, Vasco ha arricchito ulteriormente il suo coinvolgimento nel campo umanitario entrando a far parte dell'VIII Centro mobilitazione del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana presso il comitato di Firenze, dove ha servito con dedizione fino al suo pensionamento.

La sua passione per la storia ha trovato espressione anche nella scrittura. Vasco si è dedicato alla stesura di opuscoli e libri che narrano la storia dei paesi toscani e, in un'opera culminante, ha presentato il suo ultimo libro un mese prima della sua morte, trattando la storia della Croce Rossa nella provincia di Pisa.

Vasco G. è deceduto il 23 giugno 2001, lasciando dietro di sé un'eredità di altruismo, conoscenza e impegno umanitario che continuerà a ispirare le generazioni future.

 

 

 

 

 

 

merelli livio
 Fonte:  archivio UNIPI

 

Livio Merelli
Piacenza, 21 novembre 1886
Pisa 12 ottobre 1918

Profilo storico della Croce Rossa Italiana: Dott. Livio Merelli, Tenente medico C.R.I.; Socio perpetuo C.R.I. “alla memoria”; Medaglia d’argento al merito della Salute Pubblica “alla memoria”.

Nasce a Piacenza il 21 novembre 1886. da Giacomo e Anna Arata; poco dopo la sua nascita la famiglia trasferisce la propria residenza a Parma, città di origine dei genitori.
Nell’anno accademico 1905-1906 si iscrive al primo anno della facoltà di medicina e chirurgia della R. Università di Pisa, qui segue con pieno successo gli studi e nel 1911 consegue la Laurea “con lode” in Medicina e Chirurgia.


Poco dopo, a causa dell’epidemia colerica che colpisce Pisa, il giovanissimo medico presta servizio volontario come “interino”, esercitando il compito provvisoriamente assegnato presso la condotta medica di Lungarno Galilei a Pisa. Il Dott. Merelli si dimostrò un appassionato studioso, un attento osservatore e un prolifico relatore; la sua vocazione era quella di percorrere la carriera universitaria dedicandosi alla ricerca ed all’insegnamento, decise quindi di trasferire la sua residenza da Parma a Pisa, in Via Rigattieri, e di effettuare l’iscrizione obbligatoria all’Albo dei Medici Chirurgi di questa stessa Provincia.
Tra il 1912 ed il 1913 il dott. Livio Merelli si iscrisse al Comitato di sezione della Croce Rossa Italiana, si arruolò anche tra i volontari “a disposizione” per essere chiamati a prestare servizio in caso di guerra o di pubbliche calamità come Medico Assistente di 2^ classe, corrispondente all’epoca al grado di Sottotenente medico C.R.I..


Il 16 novembre 1913 iniziò la desiderata carriera universitaria conseguendo la nomina ad “Assistente volontario, confermato tacitamente di anno in anno sino a contraria disposizione”, presso la Clinica Medica Generale dell’Università di Pisa diretta dal Prof. Giovanni Battista Queirolo.


L’ 1 aprile 1914, il riconoscimento del suo impegno all’Università portò ad una prima sostanziale modifica, il Dott. Merelli venne nominato “Assistente in soprannumero”, con uno stipendio annuo di lire 1.200, e fu assegnato all’Istituto di Igiene della R. Università di Pisa, in questo istituto, sotto la direzione del Prof. Alfonso Di Vestea, in poco tempo divenne “Assistente effettivo” rimanendo con tale titolo a servizio della scienza medica fino alla sua prematura morte.


Di quei primi anni ci giungono interessanti pubblicazioni in campo medico scientifico:
“Sulla etiologia della parotite epidemica, ricerche batteriologiche e sierodiagnostiche” pubblicato in Pathologica: Volume 4, Istituto di Clinica Medica Generale della R. Università di Pisa, 1913.
“Cultura placentare in vitro, sulle culture pure di cellule neoformate, sulle leggi di blastotropismo generativo….” Istituto di Igiene della R. Università di Pisa. 1914.
“Vaccinazioni multiple simultanee, nota preventiva” Istituto di Igiene della R. Università di Pisa, Tipografia G. Schenone, Genova, 1915.


Con l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915, Livio Merelli, a 29 anni, viene chiamato in servizio attivo nel personale militare della Croce Rossa Italiana in qualità di medico assistente, con il grado di Sottotenente medico; viene assegnato all’Ospedale militare territoriale della C.R.I. a Marina di Pisa, in approntamento, che con l’ Ospedalino Militare di Migliarino Pisano, ubicato all’interno della Tenuta di Migliarino, entrarono in funzione il 28 luglio 1915; le due strutture erano poste agli ordini del Direttore Comandante, Prof. Antonio Cesaris-Demel, Maggiore medico C.R.I..


Nel gruppo iniziale dei medici assistenti chiamati in servizio, con il protrarsi della grande guerra, si registreranno numerose modifiche con l’acquisizione di nuovi elementi, con trasferimenti per altre destinazioni e, purtroppo, decessi. La squadra iniziale del personale medico era composta dal Tenente medico CRI Dott. Augusto Basunti, e dai Sottotenenti medici CRI: il dott. Vincenzo Sassetti, il Dott. Dino Bogi, e dal Dott. Livio Merelli; i chirughi furono: il Capitano medico CRI prof. Guido Ferrarini ed il Capitano medico CRI cav. Dott. Oreste Baciocchi.


L’impianto ospedaliero della Croce Rossa Italiana a Marina di Pisa, con 160 posti letto, per il ricovero dei soldati feriti evacuati dal fronte con i treni ospedale, risultò una struttura completa ad alta specializzazione chirurgica, cui si aggiungeva l’Ospedalino Militare nella Tenuta di Migliarino Pisano, con 40 posti letto iniziali, voluto dal Duca Salviati; nonostante la distanza quest’ultimo fu un reparto di degenza e convalescenza per i soldati feriti, ormai in via di guarigione, che lì venivano trasferiti da Marina di Pisa.


Nonostante i buoni successi riportati nelle cure si faceva appena in tempo a dimettere i fortunati guariti che purtroppo arrivavano altri treni ospedale con nuovi soldati feriti sgombrati dal fronte. Instancabili i medici operarono, amputarono e curarono, ma combatterono soprattutto contro le infezioni, riportate spesso a seguito dei primi interventi chirurgici effettuati sotto le tende degli ospedali al fronte e, non esistendo ancora gli antibiotici come li conosciamo oggi, con i rimedi dell’epoca era spesso una lotta impari che poteva portare alla morte.


All’interno dell’Ospedale a Marina di Pisa erano stati impiantati un laboratorio di ricerca batteriologico ed un laboratorio istologico, il Direttore Comandante, Prof. Antonio Cesaris Demel, volle affidarli al Sottotenente medico Dott. Livio Merelli in quanto già valente Assistente nell’Istituto di Igiene della Facoltà di Medicina e Chirurgia di Pisa.


Il Dott. Livio Merelli, oltre ai suoi doveri di ufficiale medico, si adoperò quindi con dedizione e passione a tale incarico, riuscendo persino a coinvolgere colleghi, e insigni studiosi dell’Università di Pisa che offrirono la loro opera e, quando le ricerche esigevano maggiori approfondimenti, si ricorreva alle migliori strumentazioni dell’epoca messe a disposizione dall’Università stessa. Taluni casi curati in quelle tragiche circostanze divennero fonti per studi di medicina e chirurgia dell’Università di Pisa. La massima attenzione venne poi prestata in Ospedale all’igiene, alla pulizia della biancheria, alla lavatura ed alla sterilizzazione.


Proprio la dedizione e l’impegno, che al termine della sua vita gli saranno purtroppo fatali, a fine dicembre del 1915 salvarono la vita al Sottotenente Livio Merelli che mentre era impegnato in una ricerca di laboratorio a Marina di Pisa, per risolvere un caso clinico grave, avrebbe dovuto raggiungere l’Ospedalino militare a Migliarino Pisano per dare il cambio all’ufficiale medico di guardia; venne sostituito all’ultimo minuto dal collega Sottotenente Dott. Vincenzo Sassetti ma, l’automobile di servizio non giunse mai a Migliarino Pisano, durante il tragitto da Marina di Pisa, prima di arrivare nei pressi di San Piero a Grado ed imboccare il “Ponte del Re”, struttura sull’Arno che oggi non esiste più, l’automobile uscì fuori strada e si ribaltò più volte causando la morte del Sottotenente medico Vincenzo Sassetti ed il grave ferimento del conducente.
Il Sottotenente Livio Merelli fu anche l’animatore dei locali destinati al servizio di isolamento, per la profilassi e la cura nei casi di malattie infettive tra i soldati feriti e malati, dalle sue ricerche nelle cure ne trasse argomento per uno studio epidemiologico sulla Meningite cerebro-spinale, pubblicata nella sua qualità di Assistente dell’Istituto di Igiene della R. Università di Pisa nel 1916.


Sul finire del 1916, con decorrenza 31 agosto 1916, il Dott. Livio Merelli venne promosso per anzianità di Laurea al grado di Tenente medico C.R.I. “Medico Assistente di 1^ classe”.
Sul fronte italiano, Il 29 giugno 1916, avevano fatto la loro prima comparsa i gas asfissianti, allorché gli austro-ungarici attaccarono con massicce quantità, di una miscela di cloro e fosgene, le linee italiane a presidio del Monte San Michele; ora oltre al caro prezzo già pagato in morti e le sofferenze dei feriti ed i malati di guerra, lo sviluppo di questi nuovi metodi e mezzi di guerra aggiunsero altre sofferenze, oltre ad altre preoccupazioni; si dovette comunque provvedere alle cure per i sopravvissuti rimasti intossicati dai gas asfissianti.


Insieme alle contromisure per la protezione dalla nuova arma chimica, il Comando Supremo del Regio Esercito Italiano iniziò a preoccuparsi di altre insidie, per i nostri combattenti, che arrivarono dalle molte malattie che costantemente attentavano alla loro vita e che, nel logorio delle trincee, trovarono un terreno fertile dove diffondersi con potenza devastatrice. Venne presa la decisione di istituire dei “servizi batteriologi al fronte” presso i comandi di Corpo d’Armata, allo scopo di monitorare la situazione e dirigere l’esecuzione attenta delle norme di prevenzione indicate da quella branca della medicina che prende il nome d’Igiene; fu così che nel febbraio 1917 il Tenente medico CRI Livio Merelli, in qualità di specialista esperto, lasciò l’Ospedale Territoriale a Marina di Pisa e venne trasferito dal servizio territoriale alle unità mobili della C.R.I. presso l’esercito operante; venne destinato alla IV Armata, dislocata oltre l’Alta Valle del Cordevole, presso la Direzione di uno dei servizi batteriologici al fronte, il cui compito fu quello di combattere contro le malattie più diffuse e più pericolose negli anni della grande guerra: il tifo esantematico o petecchiale, il colera, la dissenteria amebica, la malaria, la tubercolosi. La formazione e l’esperienza del dott. Merelli si dimostrarono elementi utilissimi per il contrasto a queste malattie, e vennero adottate ulteriori misure di prevenzione per i soldati al fronte con la somministrazione di “vaccinazioni multiple simultanee”: un procedimento a cui, lo stesso Dott. Livio Morelli, aveva già dato notevole contributo in passato mediante pubblicazione di studi medico scientifici sull’argomento.


Questa attività durò fino al 24 ottobre 1917, quando avvenne lo sfondamento delle linee italiane da parte dell’esercito austro-ungarico: la sconfitta di Caporetto. Il R. Esercito Italiano, per non essere distrutto, dovette arretrare sul Tagliamento, con manovre disordinate, ed arretrò oltre fino a quando il 12 novembre 1917 si potette attestare su una nuova linea difensiva, quella del fiume Piave. In quei concitati e folli giorni l’Alta Valle del Cordevole, da sede del Comando del IV Corpo d’Armata, si venne a trovare in prima linea ed il Tenente medico Livio Merelli si prodigò, insieme agli altri militari C.R.I., come eroicamente poterono, alla cura dei numerosi soldati feriti che giungevano negli Ospedali da campo, i pochi rimasti operativi, in una situazione incerta e di pieno marasma. Mantenendo finalmente la nuova linea difensiva sul Piave, il R. Esercito, passato ora sotto il Comando Supremo del Generale Armando Diaz, in breve tempo si riorganizzava: il Tenente Merelli, ai primi del 1918, poté lasciare il “servizio batteriologico” e ritornare al servizio territoriale a Pisa.
Le ragioni di questa riassegnazione furono che presso la R. Università di Pisa venne istituito un corso per studenti militari del primo triennio di Medicina e Chirurgia, seguendo l’esempio delle Università di Padova e di Bologna, dopo la chiusura definitiva dell’Università Castrense – Scuola Medica, di San Giorgio di Nogaro, struttura rimasta sul territorio invaso dal nemico. Il Tenente Livio Merelli si divideva ora tra il servizio medico presso l’Ospedale militare territoriale della C.R.I. a Marina di Pisa, le ricerche batteriologiche di laboratorio e l’insegnamento al Corso per studenti militari quale Assistente di Igiene della facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Pisa.


Dopo il rientro a Pisa il Tenente Merelli era rimasto in stretto contatto con un suo superiore nel “servizio batteriologico”, il Maggiore Medico Prof. Dott. Alberto Marrassini, libero docente ed Aiuto presso l’Istituto di Patologia Generale dell’Università di Parma, entrambi intenzionati a non disperdere il bagaglio medico esperienziale e le osservazioni scientifiche riportate al fronte.


Con il pieno assenso e sostegno del Direttore Comandante dell’Ospedale militare territoriale C.R.I. a Marina di Pisa, Ten. Colonnello C.R.I. Prof. Antonio Cesaris Demel, il Tenente Livio Merelli poteva ora continuare le ricerche in campo batteriologico dal suo osservatorio a Pisa dove del resto, in quel periodo, non mancarono di certo le malattie infettive e le epidemie che colpirono il territorio: tifo, tubercolosi, dermotifo e quella che venne definita per l’epoca “influenza dominante” che in seguito avrebbe preso il nome di influenza spagnola.


In quel periodo il Tenente Livio Merelli si tenne ancor più in stretto contatto con il Prof. Francesco Pardi, Presidente del Comitato di sezione di Pisa della Croce Rossa Italiana; il Comitato pisano della Croce Rossa, accogliendo le direttive del Presidente Generale della C.R.I., intendeva iniziare la lotta contro la tubercolosi sul territorio ed aveva indetto delle adunanze nelle quali erano intervenuti i più ragguardevoli cittadini e studiosi di Pisa, erano stati discussi i punti più importanti per un programma d’intervento e, con i suoi “buoni uffici”, la Croce Rossa permise la realizzazione di altri incontri a Pisa che abbozzarono realmente il piano di intervento, a tutela della salute pubblica, nella lotta contro questa malattia e le epidemie in genere, con il coinvolgimento di istituzioni che a quel tempo non erano affatto coordinate tra loro.


Quello che preoccupava di più il Tenente Livio Merelli ed il Maggiore Alberto Marrassini era la rapida diffusione dell’influenza dominante, iniziata quando il 21 marzo 1918 gli imperi centrali avevano tentato una grande offensiva sul fronte occidentale, la “Battaglia per l’imperatore”, che si fermò nel giro di pochi giorni perché i soldati crollavano a terra a causa di una febbre che si diffondeva rapidamente sui campi e nelle trincee, sia dall’una che dall’altra parte. Inizialmente i medici militari la scambiarono per una normale influenza visto che si manifestava con gli stessi sintomi, ma in realtà si trattò di una nuova terribile epidemia. Gli effetti di questa nuova epidemia di cui i medici faranno fatica ad individuare le cause e capire l’andamento, saranno devastanti in costi di vite umane.


A questa influenza sarà dato in seguito il nome di "spagnola" poiché la sua esistenza fu riportata dapprima soltanto dai giornali spagnoli: la Spagna non era coinvolta nella guerra e la sua stampa non era soggetta a censura di guerra; mentre nei paesi belligeranti la rapida diffusione della malattia fu nascosta ai mezzi d'informazione; negli ambienti medico scientifici italiani, con le poche notizie a disposizione in quel periodo, venne utilizzato il termine “influenza dominante” o “dominante epidemia”.


La prima ondata era giunta a Pisa a fine primavera, inizio estate, del 1918. La malattia stroncava prevalentemente giovani adulti precedentemente sani ed aveva un tasso di mortalità alto, il quesito era se potesse ritenersi che nei giovani adulti l'elevata mortalità fosse legata alle forti reazioni immunitarie; mentre la probabilità di sopravvivenza, in alcune aree come le campagne, paradossalmente era più elevata in soggetti con sistema immunitario più debole, come bambini e anziani. L’osservazione dei soldati feriti e malati sgombrati dal fronte e sottoposti a ulteriore misura di quarantena presso l’Ospedale Territoriale C.R.I. a Marina di Pisa, portava a considerare, dai referti medici, che le circostanze speciali della guerra contribuivano spesso anche a una conseguente superinfezione batterica, ossia che l’ampia presenza di germi e batteri di diversa natura nelle zone di guerra contribuiva al diffondersi dell’epidemia. Di tutte queste attente osservazioni e ricerche il Tenente medico C.R.I. Livio Merelli, mentre compiva il proprio dovere nella cura dei malati, ne prendeva nota e trascriveva i risultati delle osservazioni medico scientifiche, lavorando notte e giorno senza risparmiarsi nella ricerca di una cura. Purtroppo nonostante le precauzioni e la profilassi adottata nel curare i malati, con l’arrivo della seconda ondata a fine settembre 1918, il Tenente Livio Merelli fu egli stesso vittima della malattia, le sue condizioni si aggravarono rapidamente nel giro di pochi giorni quando il 12 ottobre 1918 morì a Pisa, all’età di 32 anni. Il dolore ed il cordoglio fra i militi, il personale medico e le infermiere volontarie dell’Ospedale Territoriale C.R.I. a Marina di Pisa fu unanime.


Alle sue esequie venne ricordato dal Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia di Pisa, Cav. Prof. Giuseppe Gonnella, per le sue impareggiabili doti di Assistente nell’Istituto di Igiene della R. Università.
Il Direttore Comandante, Ten. Colonnello C.R.I. Prof. Antonio Cesaris Demel, il Presidente del Comitato di sezione di Pisa della Croce Rossa Italiana, Prof. Francesco Pardi, l’Ispettrice delle Infermiere Volontarie C.R.I. di Pisa, S.lla Clarice Pierini, la Vice Presidente della Sezione Femminile, Dame delle Croce Rossa, di Pisa, contessa Sofia Franceschi Bicchierai, e la famiglia Bertolini, oltre a curarne le esequie si divisero la quota necessaria e disposero l’iscrizione di Livio Merelli a socio perpetuo della Croce Rossa Italiana, alla memoria.


Il Maggiore medico Prof. Dott. Alberto Marrassini, dopo la vittoria del 4 novembre 1918, pubblicò, in Riforma Medica, giornale internazionale, edizione 1918, assieme al nome del dott. Livio Merelli “alla memoria” come coautore, i risultati raggiunti nella loro ricerca sulla dominante epidemia. Al termine il Maggiore Prof. Marrassini concludeva la pubblicazione scrivendo: “

Con questa pubblicazione si chiude l’attività scientifica e purtroppo la vita del Dott. Livio Merelli. Colpito dalla malattia duramente all’acme della sua diffusione in città, quando dai due studiosi eransi già ottenuti i primi risultati soddisfacenti delle prove sierologiche sopra descritte, il povero giovane ne è rimasto vittima. Non aveva che trentadue anni e dava così liete speranze di sé.”.


Con il Regio Decreto 11 giugno 1922 “Ricompense al merito della salute pubblica”, su proposta del ministro dell’interno, venne conferita al Tenente medico Merelli dott. Livio, la MEDAGLIA D’ARGENTO “alla memoria”. La notizia venne pubblicata sul Bollettino Ufficiale del Ministero della Guerra, delle nomine e promozioni, nell’anno 1923.


Nel tempo il nome di Livio Merelli venne dimenticato, ma non le sue gesta ed il suo altruismo come medico ed uomo di Croce Rossa; nel Comitato C.R.I. di Pisa ed alla generazione cui appartengo, veniva tramandato per tradizione orale che un nostro ufficiale medico, mentre esercitava prestando le cure ai malati, fu vittima egli stesso dell’influenza spagnola. E’ stato quindi un onore ed un privilegio avere potuto recuperare, per questo nostro valoroso ufficiale nella grande guerra, lo spazio dovuto tra le memorie della Croce Rossa Italiana.

 

Livio Merelli ricerche laboratorio O.T.CRI M. di Pisa
Livio Merelli, al centro. Presumibilmente nel gabinetto dell'Istituto d'Igiene dell'Università di Pisa

 

Giuseppe Antonio CACCIATORE
Ricerca Storica C.R.I. Pisa.
giuseppe.cacciatore@cm.cri.it

 

 

 

 

 

 

 Rose Montmasson

Rose Montmasson
Saint-Jorioz (Savoia) 1823 - Roma 1904


E poi l’omu eloquenti e virtuusu Crispi, cu l’eroina Rusulia Che lu so dignu spusu assicunnava Pri quanto la Sicilia scatenava

Fu da questo verso di una poesia popolare di Carmelo Piola che Rose Montmasson divenne per tutti Rosalia; con questo nome è passata alla storia, divenendo quasi cittadina di quella Sicilia che aveva contribuito a liberare.
Nasce in Savoia – parte del regno di Sardegna – il 12 gennaio 1823 in una famiglia di coltivatori, forse piccoli proprietari terrieri. Frequenta le scuole elementari e intorno ai 15 anni aiuta la famiglia nel lavoro dei campi. Forse a seguito della morte della madre decide di lasciare il piccolo borgo natio ed emigrare.
Non sappiamo esattamente le tappe del suo itinerario. Probabilmente si ferma prima a Marsiglia e poi a Torino, dove lavora come stiratrice. Non sappiamo neppure dove e quando sia avvenuto l’incontro, determinante nella sua vita, con il “cospiratore” Francesco Crispi. Crispi scrive infatti di averla conosciuta nel breve soggiorno nelle carceri di Palazzo Madama, dove era stato rinchiuso prima di essere espulso da Torino. In pochi giorni sarebbe quindi nato l’amore tra la giovane stiratrice e l’esule siciliano; un amore così forte che avrebbe spinto Rose a raggiungere il suo uomo a Malta. Ricerche recenti però fanno pensare che i due si siano conosciuti prima, forse addirittura nel passaggio di Crispi a Marsiglia, e che poi insieme si siano trasferiti a Torino. La convivenza sarebbe stata turbata dall’arrivo da Palermo di Felicita Valla, madre del figlio che ella aveva avuto anni prima da Crispi. 1
A Malta comincia per Rose una nuova vita. Certo, continua a lavorare per mantenere Francesco Crispi, ma incontra gli esuli italiani, partecipa alle loro riunioni, ascolta i loro discorsi che parlano di democrazia, di libertà e dell’unità d’Italia. Due di questi patrioti l’affascinano e resteranno suoi amici per sempre: Nicola Fabrizi e Giorgio Tamajo, ma più di tutti la sua attenzione è per un uomo lontano, da tutti venerato e chiamato “il Maestro”: Giuseppe Mazzini.
L’attività sovversiva di Crispi è attentamente seguita non solo dalle spie borboniche, ma anche dall’autorità inglese che governa sull’isola. Egli dirige un giornale politico «La Staffetta» e i suoi editoriali infuocati sono quotidianamente al vaglio della censura e diventano causa del decreto di espulsione.
Prima della partenza per Londra di Francesco, i due si sposano, forse dopo qualche resistenza di Crispi: l’amico Tamajo lo dissuade infatti dal compiere “questo grave atto” con una donna tanto dissimile dalle sue condizioni e dalle sue aspirazioni. 2
Dopo due mesi Rose raggiunge Crispi a Londra, con una tappa in Savoia per festeggiare il suo nuovo stato con i suoi familiari.
A Londra per i coniugi Crispi inizia un intenso periodo di cospirazione. Intimi di Mazzini, del quale Crispi diviene un fidato collaboratore, la coppia viaggia per l’Europa e si stabilisce per qualche anno a Parigi. Per Rose è un periodo di grande attivismo. Spesso viene incaricata di portare ai vari comitati insurrezionali messaggi, volantini e anche armi, che nasconde sotto i vestiti o, enfatizzando il sua aspetto contadino, in grandi panieri di frutta o verdura.
L’anno fatidico è il 1860. Nell’aprile Rose si mette in viaggio via mare con il postale: in meno di un mese va da Genova in Sicilia, dove anticipa la notizia dell’imminente arrivo di Pilo e di Garibaldi a diversi Comitati Cittadini; quindi s’imbarca per Malta per informare anche Fabrizi e Tamajo. Da Malta torna a Genova in tempo per chiedere e ottenere da Garibaldi in persona il permesso di partire. Crispi non approva, ma lei parte con lui. Garibaldi aveva accettato anche la richiesta di un’altra donna, Felicita La Masa, la quale viene convinta dal marito Giuseppe a non partire per proseguire il proprio impegno politico a Brescia.
Rose è dunque l’unica donna a partire da Quarto la sera del 5 maggio.
Il suo ruolo prevalente dopo lo sbarco è soprattutto di infermiera e sarà preziosissima a Calatafimi dove soccorre i feriti anche durante la battaglia. Per questo si guadagnerà l’appellativo di “Angelo di Calatafimi”. Così molti anni dopo la chiamerà, riconoscendola per strada, uno dei Mille suscitando verso di lei, ormai vecchia e malmessa, la sincera ammirazione di tutti gli astanti. In Sicilia comunque in quella impresa decisiva e sanguinosa furono presenti anche altre donne: fra le altre Jessie White Mario (i Mario e i Crispi strinsero una duratura relazione d’amicizia), Antonia Masanello, o Maria Martini della Torre, moglie del cospiratore cremonese e figlia del Generale Salasco, firmatario dell’armistizio tra il Piemonte e l’Austria.
Terminata la gloriosa spedizione, a Napoli, nei concitati giorni che precedono i plebisciti, Rose salva il marito da un tentativo di arresto gridando dalla finestra “vogliono arrestare Crispi!”, scatenando così la reazione del popolo che, unanime, riesce a salvarlo.
Rose segue Crispi deputato a Torino e Firenze e inizia per la coppia una fase di tranquillità e agiatezza. Soprattutto a Firenze Rose vive un periodo di grande splendore. Le signore della Firenze bene fanno a gara ad averla ospite nei loro salotti, lei la sola eroina dei Mille, amica di Garibaldi – che le manda i saluti in tutte le lettere che scrive a Crispi e le invia anche una ciocca dei suoi capelli – di Mazzini, di Cattaneo e di tutti i grandi del Risorgimento. Sempre a Firenze il salotto di casa Crispi diventa il salotto politico per eccellenza e di quel salotto lei è la regina incontrastata. È in questo periodo che alcuni dei Mille le regalano una croce di diamanti che Rose porterà sempre con grande orgoglio insieme alla Medaglia dei Mille (“è mia, perché io ero con loro”).
Trasferita la capitale a Roma, Crispi diventa sempre più un punto di riferimento della politica italiana. Lei invece si sente insoddisfatta e trascurata, e non lo nasconde. La situazione familiare è sempre più critica e destinata a precipitare.
Rose infatti lascerà la casa al termine di un “accordo” assai doloroso stipulato nel ’74. Si trasferisce in via della Croce e poi in via Torino, dove morirà. Questo accordo – stretto con la mediazione di Agostino Bertani e Giorgio Tamajo – prevede un vitalizio consistente e l’uscita di casa di Rose.
Il 30 dicembre 1875 scrive all’amico Agostino Bertani, firmandosi Rosalia Crispi: “Il 28 cadente alle 11 ant. Io sono uscita di casa mia, onde non essere più esposta alle sevizie di Francesco Crispi, che ora mi rinnega per sua moglie”.
Nel‘71 Crispi aveva infatti cominciato una relazione con Lina Barbagallo. 3
Dopo tre anni dalla separazione però la vita privata di Crispi esplode pubblicamente: avendo sposato la Barbagallo dopo la nascita di una figlia, nel ’78 viene accusato di bigamia dal «Piccolo»; per difendersi, dichiara che quello con Rose era un matrimonio nullo, per le condizioni in cui venne celebrato; un procedimento a Napoli stabilisce poi che quello di Malta fu un “simulacro di matrimonio”. Tutta la vicenda viene, comprensibilmente, fortemente strumentalizzata sul piano politico.
Dopo la rottura del ‘74 e il clamore del ‘78 Rosalia conduce una vita ritirata, circondata dai gatti e dedita al ricamo. Esce raramente, non manca mai però di essere in prima fila a tutte le celebrazioni del 20 settembre.
Dimenticata dai più, morirà a Roma il 10 novembre 1904. Aveva disposto di essere sepolta con la camicia rossa – molti dei Mille lo chiesero; su un cuscino innanzi al feretro furono poste le sue medaglie, testimonianza della sua vita. Ebbe, come desiderava, una cerimonia laica. Nascosta in una carrozza, schiacciata dal peso degli anni e del cognome, volle partecipare alla cerimonia Maria Crispi Caratozzolo, sorella maggiore di Francesco.
Furono presenti gli esponenti di tutte le associazioni risorgimentali, ma nessuna autorità di quello Stato che Rose aveva contribuito a creare, eccezion fatta per il Senatore Cucchi, che lesse l’Orazione funebre. “Ebbi la fortuna di conoscere Rosalia Montmasson il 5 maggio 1860, mentre col marito Francesco Crispi, saliva a bordo della nave, in cui si trovava Giuseppe Garibaldi, la nave che conduceva i Mille a Marsala. Da Quarto a Marsala, Rosalia Montmasson non si occupò che di tutto quello che poteva servire ai garibaldini. A Calatafimi assistette i feriti con fede, con diligenza ed amore. Non mi dilungherò sulla vita della valorosa donna che cooperò grandemente alla indipendenza d’Italia e fu una delle grandi amiche del nostro paese. Le porgo l’ultimo saluto”.
Meno poetico, ma più diretto, il giudizio che ne dà in una sua lettera (7 novembre 1862) Giuseppe Mazzini, affezionato alla democratica Rose alla quale rimproverava una certa “ingenuità politica”: “Essa certamente non è dei moderati”. Difficile non concordare con lui.
Di Guido Palamenghi Crispi

 

  1. Qualche storico sostiene che il figlio vivesse già a Torino col padre e Rose. Prima della relazione avuta con Felicita Valla, Francesco Crispi era rimasto vedovo della moglie Rosina D’Angelo, morta di colera nel 1839 e madre di Giuseppa e Tommaso, i primi due figli di Crispi.
  2. Gualtiero Castellini, Crispi, G. Barbera, Firenze, 1924, seconda edizione. Tamajo, che diverrà Senatore del Regno d’Italia sarà molto presente nella vita dei Crispi. Napoletano, esule a Malta, legatissimo a Nicola Fabrizi, con lui sbarcherà in Sicilia a fine maggio del ’60; testimone alle nozze, con Agostino Bertani sarà artefice del successivo accordo di separazione tra Rose e Crispi.
  3. Crispi nel ‘73 aveva avuto un figlio anche da Luisa Del Testa.  

Fonte: enciclopediadelledonne

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Vescovom Gabriele Vettori

 

Gabriele Vettori è stato un vescovo cattolico italiano. Nasce a Fibbiana, una frazione di Montelupo Fiorentino il 13 dicembre 1869. Si forma nel Seminario di Fiorenzuola ed è vescovo di Tivoli dal 1910 al 1915. Regge poi le diocesi di Pistoia e Prato e il suo vescovado coincide con l'ampliamento della diocesi pratese, sancito con decreto della Congregazione Concistoriale del 3 settembre 1916.

Con l'annessione di 28 parrocchie già appartenenti alla diocesi pistoiese e di 12 appartenenti a quella fiorentina la circoscrizione della Diocesi di Prato si estende così a tutto il territorio del Comune. La sua azione pastorale nel periodo post bellico si spende per pacificare gli animi e per promuovere l'associazionismo cattolico, in maniera del tutto conforme con le volontà pontificie volte alla restaurazione della «società cristiana». Il 6 febbraio 1932 è nominato arcivescovo di Pisa. Assistente al soglio pontificio, nel 1934 diviene Grande Ufficiale dell'Ordine Supremo del Santo Sepolcro.

Come Arcivescovo di Pisa compie due visite pastorali, istituisce l'Ufficio catechistico diocesano e dell'Azione Cattolica. Scrive molte lettere pastorali e cura i restauri del palazzo arcivescovile. Particolare è il suo impegno per la popolazione civile durante l'ultima fase della Seconda guerra mondiale quando, rimasto unica autorità presente a Pisa, alloggia, nutre e cura migliaia di sfollati; per questo ottiene la cittadinanza onoraria. Si impegna inoltre per i prigionieri di guerra del campo di concentramento di Coltano. E' colpito da malore e muore il 2 luglio 1947 a Ripa di Stazzema. E' sepolto in cattedrale.

Fonte: beweb.chiesacattolica

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Guidi Guido Buffarini
Foto tratta da memoiresdeguerre

Guido Buffarini Guidi

Nacque a Pisa il 17 ag. 1895 da Luigi e da Liberata Bardelli. Volontario in un reggimento di artiglieria, trascorse quattro anni al fronte, raggiungendo il grado di capitano nel 1917. Si guadagnò tre croci al merito di guerra. Rimase in servizio attivo fino al 1921, ottenendo però l'autorizzazione a studiare legge all'università di Pisa, dove si laureò nel marzo 1920. Sposò Maria Augusta Macciarelli.

Fu tra i principali organizzatori delle squadre fasciste pisane. Nell'aprile 1923 fu eletto sindaco di Pisa. Rassegnò le dimissioni da tale ufficio nel giugno 1924 alla sua elezione a deputato nelle liste del partito fascista per la Toscana come rappresentante per la provincia di Pisa. Con la nomina a podestà e a segretario federale, divenne la principale personalità politica della provincia; praticava inoltre l'avvocatura (era anche presidente del Comitato pisano di azione dalmata e console onorario della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale).

Tra i "ras" del "Granducato di Toscana" il B. aveva fama di bonaria moderazione, avendo frenato taluni eccessi durante le prime attività degli squadristi locali. Le sue notevoli capacità amministrative nell'imporre abilmente il controllo del partito fascista, da Pisa a tutta la Toscana, contribuì alla sua nomina, l'8 maggio 1933, a sottosegretario del ministero dell'Interno, succedendo a Leandro Arpinati.

In questo posto chiave al centro del potere il B. ebbe l'abilità di estendere, attraverso le province d'Italia, l'effettivo controllo sugli enti locali con la nomina di prefetti a lui fedeli, e di bilanciare l'influenza e le ambizioni dei segretari nominati dalla segreteria del partito come rappresentanze competitive del potere locale.

Per dieci anni il B. controllò direttamente la macchina dell'amministrazione italiana. Coi quotidiani rapporti a Mussolini sullo stato della pubblica opinione e sulle voci di opposizione al regime, scavalcando la segreteria privata del duce, creò efficienti proprie fonti di informazione ad ogni livello. della società italiana.

Con Galeazzo Ciano, salito contemporaneamente attraverso i labirinti del potere, il B. stabilì, per parecchi anni, assai stretti rapporti e queste due personalità, con l'appoggio dei loro "clans" privati, rimasero al centro del sistema finché la crescente dipendenza dell'Italia dalla Germania nazista scatenò sulla scena romana nuove rivalità intestine. Il B. contrastò la mastodontica espansione della macchina del partito fascista, estesa sulla falsariga del modello nazista, dopo il 1938, in tutti i settori della vita pubblica italiana. Tentò di limitare l'applicazione delle leggi antiebraiche votate dal Gran Consiglio in quell'anno su pressione tedesca e contrastò entrambi i successivi segretari del partito nei loro tentativi di sminuire la sua personale influenza su Mussolini e il suo controllo su tutti gli aspetti degli affari interni.

Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, la profonda conoscenza del B. dello stato della pubblica opinione, il suo vigilante controllo sul disfattismo e i complotti dei gerarchi fascisti, sulla distaccata neutralità del Vaticano e sul serpeggiare di atteggiamenti di "fronda "nei chiusi circoli della corte provocarono in lui un cauto pessimismo su una possibile vittoria.

La provvisoria alleanza tra i suoi rivali e nemici politici provocò nel febbraio 1943 le dimissioni del B. dal governo contemporaneamente a Ciano, già suo alleato. Rimasero, entrambi, tuttavia, membri del Gran Consiglio, su speciale dispensa di Mussolini. Durante l'agitato periodo tra il febbraio e il luglio del 1943, il B. rimase passivo e isolato nel sùsseguirsi di varie congiure, che sfociarono negli eventi del 24 luglio. Fu presente alla famosa seduta notturna del Gran Consiglio e vótò in favore di Mussolini. Il 26 luglio, insieme con altri gerarchi fedeli a Mussolini, fu arrestato per ordine di Badoglio e imprigionato a forte Boccea.

Il 12 sett. 1943 i tedeschi liberarono il gruppo e trasferirono in aereo il B. e alcuni suoi compagni a Monaco. Nella nuova amministrazione "repubblichina", allora instaurata nell'Italia settentrionale, per mantenere l'apparenza di uno Stato fascista fedele all'alleanza con l'Asse, il B. fu nominato ministro dell'Interno. Egli dovette poi lottare invano con gli strascichi di passate rivalità e vendette personali tra quei gerarchi che avevano seguito Mussolini a Salò. Con lo sviluppo della resistenza armata e con l'inesorabile dissolversi di ogni parvenza di legalità e di ordine in tutta I'Italia settentrionale il B. divenne il simbolo dell'impotenza e dell'impopolarità della repubblica di Salò. Il 12 febbr. 1945, in circostanze che rimangono ancora poco chiare, fu sollevato dall'incarico da Mussolini, e scomparve nell'ombra degli ultimi giorni che videro la disintegrazione dell'effimera amministrazione repubblichina.

Il B. era presente a Como durante le ultime ore dell'esodo dell'ultima colonna e insistette energicamente affinché il gruppo degli ultimi fedeli che attorniavano Mussolini cercasse scampo in Svizzera. Il 26 apr. 1945, mentre tentava di varcare la frontiera, fu catturato dai partigiani. Il mese seguente fu processato dalla Corte straordinaria d'assise e, il 10 luglio 1945, dopo un vano tentativo di avvelenamento, fu fucilato nella prigione di S. Vittore.

Fonti e Bibl.: L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Milano 1967, passim; G.Ciano, Diario (1939-1943),Milano 1968, ad Indicem;E.Cione, Storia della Repubblica sociale ital., Roma 1951, ad Indicem;R. De Felice, Storia degli ebrei ital. sotto il fascismo, Torino 1961, ad Indicem;G. Bianchi, Venticinque luglio: crollo di un regime, Milano 1963, ad Indicem; N.Salvatorelli-G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1964, passim;A. Aquarone, L'organizzazione dello stato totalitario, Torino 1965, ad Indicem;F. W.Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino 1970, ad Indicem.

Fonte: treccani

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 Antonio Cesaris Demel
Foto ritratto di ufficiale anonimo in collezione privata attribuito al Maggiore medico Antonio Cesaris-Demel
identificato presso l'Istituto di anatomia patologica 1 dell'università di Pisa e dalla stessa famiglia.
 
 
Verona il 2 agosto del 1866
Pisa il 18 marzo 1938.

Profilo storico della Croce Rossa Italiana: Prof. Dott. Antonio Cesaris-Demel Tenente Colonnello medico CRI.

Nato a Verona il 2 agosto 1866, figlio di Pietro e Maria Borsa, consegui la laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Torino il 5/7/1890, dove in seguito divenne assistente, e poi aiuto, nell’Istituto di Anatomia Patologica diretto dal Prof. Pio Foà.
Nel 1896 ottenne la libera docenza, si sposò con Amalia e nel 1898 nacque il figlio Venceslao.
Nel 1900, dopo aver vinto il concorso, venne nominato professore di anatomia patologica alla R. Università di Cagliari. E’ in questo periodo che Cesaris-Demel e la moglie Amalia diventarono soci della Croce Rossa Italiana, il professore si iscrive, anche, tra i disponibili a prestare servizio della IX Circoscrizione di Roma, oggi IX Centro di Mobilitazione, che all’epoca aveva competenza territoriale sulla Sardegna.
Tra il 1903 ed il 1904 lasciò la R. Università di Cagliari e, per un brevissimo periodo di tempo, si trasferì alla R. Università di Parma, ma subito dopo, per la prematura morte del Prof. Tito Carbone, gli venne assegnata la cattedra di Anatomia patologica della R. Università di Pisa, città nella quale risiedette stabilmente fino alla sua morte, avvenuta il 18 marzo 1938.
Dal suo arrivo a Pisa nel 1904 non vi sono memorie nelle attività della Croce Rossa Italiana se non per la presenza assidua della moglie, Amalia Cesaris-Demel, tra le volontarie attive della sezione femminile, dame della Croce Rossa.


Il 24 maggio 1915, allo scoppio della grande guerra, il professore fu richiamato, con il grado di Maggiore medico CRI, in servizio attivo su ordine del Presidente Generale della C.R.I. e venne designato come: Direttore comandante per l’Ospedale Militare Territoriale della C.R.I. in allestimento a Marina di Pisa nell’immobile, sgombrato, del Ricovero Ospizio Marino a Bocca d’Arno.


Il Professore si rese subito disponibile e cooperò con il collega Prof. Francesco Pardi, all’epoca Presidente ad interim della Croce Rossa Italiana di Pisa, incaricato per l’allestimento, la scelta delle dotazioni, delle attrezzature mediche e della strumentazione diagnostica, organizzando efficientemente quell’Ospedale che alla fine dei lavori risultò, per l’epoca, un centro ad alta specializzazione chirurgica.
L’ospedale entrò in funzione il 28 luglio 1915, gli ufficiali coadiutori del Prof. Cesaris-Demel furono il Capitano medico CRI prof. Guido Ferrarini, da taluni autori erroneamente individuato nella funzione di Direttore, ed il Capitano medico CRI cav. dott. Oreste Baciocchi, entrambi già famosi, che si dimostrarono chirurghi valorosissimi, intelligenti ed alacri. Gli ufficiali medici assistenti furono: il Tenente medico CRI dott. Augusto Basunti, ed i Sottotenenti medici: Vincenzo Sassetti, Dino Bogi, Livio Merelli; per l’amministrazione e logistica il Tenente commissario-contabile CRI rag. Gino Ricci.


Per il suo regolare funzionamento l’Ospedale Militare Territoriale necessitò di non meno di 100 uomini, oltre ad un nutrito gruppo di Infermiere Volontarie, ben oltre 120 elementi che nei tempi di maggiore pressione arrivarono, per lunghi periodi, a curare fino a 220 soldati feriti e malati sgomberati dal fronte. Tutti i militari della C.R.I., militi, graduati e sottufficiali, inquadrati nelle varie categorie ed in forza all’Ospedale a Marina di Pisa ed all’Ospedalino Militare nella tenuta di Migliarino, furono alle dirette dipendenze del Direttore comandante Prof. Antonio Cesaris-Demel.


Oltre alle cure mediche e chirurgiche per i feriti martoriati, offesi nelle carni, operati ed amputati, il Direttore comandante dell’Ospedale aveva a cuore il conforto morale per favorire la guarigione; furono realizzate in quell’Ospedale attività con il supporto delle volontarie della sezione femminile CRI che, numerose, si occuparono della biblioteca e della lettura a chi non poteva o non sapeva leggere, delle attività ricreative, della corrispondenza dei soldati feriti con le famiglie, nell’aiutare i ricoverati bisognosi; tra esse la moglie del professore, la signora Amalia Cesaris-Demel.


Al Direttore comandante dell’Ospedale Territoriale a Marina di Pisa venne assegnato anche l’ “Ospedalino militare” che entrò in attività lo stesso giorno il 28 luglio 1915. Ubicato nella Tenuta di Migliarino a Pisa e voluto dal Duca Antonio Salviati, tale struttura dispose inizialmente di quaranta posti letto, e venne utilizzata come reparto di degenza, per i casi meno gravi, e reparto di convalescenza, trasferendovi da Marina di Pisa quei soldati feriti ormai in via di guarigione.


La ricerca instancabile nelle cure sotto la guida del Prof. Antonio Cesaris-Demel, promosso, nel 1917, al grado di Tenente Colonnello medico: Direttore dell’Ospedale di Marina di Pisa e dell’Ospedalino militare di Migliarino, riporto buoni successi. All’interno dell’Ospedale funzionò efficacemente un laboratorio di ricerca “bacteriologico” ed un laboratorio istologico, affidati al Tenente medico dott. Livio Merelli già valente Assistente nell’Istituto di Igiene della Facoltà di Medicina di Pisa, dove offrirono la loro opera insigni studiosi colleghi dell’Università di Pisa e, quando le ricerche esigevano maggiori approfondimenti, si ricorreva alle migliori strumentazioni dell’epoca messe a disposizione dall’Università stessa. La massima attenzione venne poi prestata in Ospedale all’igiene, alla pulizia della biancheria, alla lavatura ed alla sterilizzazione. Taluni casi curati in quelle tragiche circostanze divennero fonti per studi di medicina e chirurgia dell’Università di Pisa, dove alcune pubblicazioni di questi studi, curati dal Prof. Guido Ferrarini per la chirurgia, e dal Dott. Livio Merelli per l’influenza “spagnola”, sono giunte fino ai nostri giorni.


Quando il Dipartimento per gli affari civili della Missione in Italia della Croce Rossa Americana istituì, nel 1918, il Sotto Distretto di Pisa, l’Ospedale Territoriale fu più volte oggetto di visite da parte di delegazioni statunitensi; tra queste emerse il Capitano “Engineer” Francisco Mauro, dell’U.S. - Red Cross Military Service Corp, Delegato da cui dipendevano le attività ed i progetti realizzati nel Sotto Distretto di Pisa della Croce Rossa Americana. Questi ebbe modo di visitare più volte l’Ospedale Territoriale di Marina di Pisa, sempre accompagnato dal Prof. Pardi e ormai accolto come uno di casa dal Prof. Cesaris-Demel; si vide spesso il Mauro, con foglio e matita, studiare l’organizzazione interna dei locali, in qualità di ingegnere fu interessato alla struttura funzionale e dall’impostazione dei servizi ospedalieri. Di tali visite ed interazioni, scaturite in quel periodo, si rileva che nei due decenni successivi alla grande guerra, anni venti e trenta, diverse Università statunitensi iniziarono ad inviare periodicamente delegazioni di studenti e professori in visita alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Pisa.


Nel 1918 al Tenente Colonnello Antonio Cesaris-Demel, insieme al Prof. Francesco Pardi, ed al Maggiore Guido Ferrarini, venne conferita la Medaglia d’argento di benemerenza militare della Croce Rossa.
L’Ospedale militare territoriale di Marina di Pisa e l’Ospedalino militare nella tenuta di Migliarino, conclusa la loro missione, vennero smobilitati nel 1919; il primo fu Migliarino Pisano, ed a primavera dello stesso anno Marina di Pisa, restituendo l’immobile, che oggi non esiste più, al Ricovero Ospizio Marino di Bocca d’Arno.

Il Tenente Colonnello Antonio Cesaris-Demel fu collocato in congedo, ottenendo riconoscimenti e cavalierati, tornò nel pieno della sua attività di docente dell’Università di Pisa lasciandosi alle spalle i quattro faticosi lunghi anni di servizio militare come ufficiale medico nella Grande Guerra.

Ricerca storica Giuseppe Cacciatore

 


 

Sig. Cacciatore,

La ringrazio per la sua gentilezza e per quanto fatto a favore della diffusione del profilo storico, umano e scientifico del prof. Cesaris Demel  a cui mi lega l’onore di dirigere attualmente l’istituto di Anatomia patologica da lui fondato e l’amicizia con alcuni dei suoi discendenti,

inoltro con piacere la sua mail alla prof.ssa Paola D’Ascanio professore di Fisiologia presso il nostro Ateneo e le invio molti cordiali saluti,

Giuseppe Naccarato

 

UNIPI

Prof. Antonio Giuseppe Naccarato
Professore in Anatomia Patologica
Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Università di Pisa
Direttore di UO Anatomia Patologica 1 Universitaria
Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana
Via Roma 57, 56126 Pisa (IT)
Honorary Professor at School of Science, Engineering and Environment
University of Salford (Manchester, UK)
Office: +39050992984; mobile: +39 3356850234

 

 

 

 

 

 

 

Mario Supino (1879-1938)

Membro di spicco di una delle famiglie ebraiche più influenti di Pisa all'epoca. Figlio di una lignaggio che aveva radici nel commercio in diverse città toscane, i Supino avevano giocato un ruolo significativo anche nella storia degli ebrei in Inghilterra nel XVII secolo. Nel XIX e XX secolo, i Supino fecero emergere figure di rilievo nel campo politico, accademico e artistico, come Igino Benvenuto, storico dell'arte, e David Supino, giurista e rettore dell'Università di Pisa.


Mario, nipote di David, condivideva gli ideali liberali e il fervore per l'attivismo sociale. La sua partecipazione alla direzione della Croce Bianca era una testimonianza tangibile del suo impegno per la comunità. Eletto consigliere comunale a Pisa con il Blocco Popolare, si trovò a fare opposizione a una giunta moderata e clericale.


Le sue battaglie per migliorare le condizioni igieniche, in particolare per spostare i cimiteri lontano dai centri abitati, gli procurarono critiche e attacchi politici. I suoi avversari, in particolare, lo accusavano di intromettersi in questioni non di sua competenza, suggerendo che gli ebrei dovessero limitarsi alle proprie comunità e alle proprie pratiche religiose.

Roberto Marchetti

 

Fonte: Sonia Cerrai Pubblica Assistenza SR Pisa: Un lungo cammino insieme. Edizione Il Campano.

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 


Nato ad Oppeano (Vr) nel 1938 Vive a Bovolone (Vr), Via Canton 42.
 
Lavora a Bovolone, Viale del Lavoro 9 – tel./fax 045 6949072
 
 
Ha iniziato a lavorare giovanissimo come falegname in una delle prime botteghe nate in paese nel dopoguerra, imparando la riproduzione di mobili in stile e praticando tutte le lavorazioni a mano, dalle sgrossature all’intaglio per poi finire con il lucido.
 
Una scuola dura e selettiva, dove solo chi aveva talento e passione poteva continuare.
 
All’età di ventitre anni si è messo in proprio, ha cresciuto una famiglia, trasmettendo mestiere e volontà ai figli Michele e Giordano.
 
Ha coltivato nel contempo la sua passione di sempre: per la musica,  iniziando dapprima col diploma in solfeggio ottenuto con corsi serali, e imparando poi a suonare chitarra e mandolino.  E sulle note del mandolino ha inciso un nastro di canzoni napoletane in collaborazione con altri due musicisti.
 
Ha frequentato per cinque anni la scuola di disegno applicato ad arti e mestieri ricevendo varie  premiazioni.
 
Violini, violoncelli e mandolini hanno sempre suscitato grande fascino su di lui, così ha iniziato a scoprirli riparando e restaurando vecchi liuti trovati nei mercatini.
 
Da autodidatta poi ha imparato la costruzione dello strumento e vi si è dedicato completamente con gradissima soddisfazione.
 
In breve ha raggiunto risultati di eccellenza per la qualità costruttiva e per il suono. Ha ricevuto prestigiosi premi ed è  apprezzato da celebri violinisti quali il Maestro Giovanni Guglielmo,  Rettore del Conservatorio di Vicenza e concertista di fama internazionale; il Maestro Glauco Bertagnin, primo violino dei Solisti Veneti e il Maestro Francesco Ferrarini violoncellista.

Fonte: accademiaarteartigianato

Ricerca storica: Robero Marchetti

 


 

Nasce a Carrara (Massa Carrara) il 24 ottobre 1849
Deceduto a Pisa il 3 agosto 1911
Laurea in Giurisprudenza; Docente universitario, Avvocato

Commemorazioni
AP, Camera dei deputati, Discussioni, 24 febbraio 1912
Il Giornale d'Italia, 5 agosto 1911
Corriere della Sera, 4 agosto 1911

 

Il settimanle Il Ponte di Pisa nell'edizione di domenica 6 agosto 1911 ricordava la figura di Emilio Bianchi con questo articolo

A 61anno di età, quando la fibra gagliarda e ben composta aveva fatto sperare che sui lunghi acciacchi del male che lo tormentava da mesi avrebbe avuto presto rivincita, la salute, fra la quotidiana trepidazione dei suoi cari che pietosamente si illusero fino all'ultimo momento di non essere colpiti da si immane sventura, l'on. prof. avv. Emilio Bianchi, si é spento Giovedì sera, lasciando nel lutto profondo la famiglia e nel cordoglio gli amici ed i conoscenti.

La morte di Emilio Bianchi è lutto oltre che di Carrara che lo vide nascere nel 1849 e di Pisa che lo ammirò giovanetto, assiduo ed intelligente negli studi del diritto e poi fatto adulto rappresentante suo elettissimo in tutti gli uffici più importanti, anche della provincia intera che lo corntò fra le sue personalità cospicue.

Anzi, si può dire senza timore di esagerare, che egli fu la prima personalità della nostra provincia. Perché in breve giro di anni, e non gli manco più dopo la stima che in mezzo a tanta simpatia aveva conseguito, lo ebbero caldo, amoroso ed autorevole patrocinatore tutti i più grandi interessi provinciali, e non vi fu elezione politica nella quale il nome suo non fosse desiderato come il segnacolo della tutela pubblica maggiore per ogni collegio. Ma fu modesto di soverchio; e schivò molte volte gli onori e trepido moltissime volte dinanzi ai rumori della vita pubblica, desideroso di rinchiudere tutta l'anima sua fra gli affetti domestici, le affaticate veglie degli studi prediletti e le incessanti cure della professione. 

Emilio Bianchi fu civilista di primo ordine e lo attestano le opere di lui, specialmente quelle di legislazione agraria che gli fruttarono la cattedra universitaria; fu avvocato di grido per l'acutezza e la genialità dell'argomentazione; e professionista provetto dié prova nel lavoro di tutti i giorni di un temperamento tenace, agile e pronto che anche i più giovani gli invidiavano.

Con amore rappresentò il collegio di Lari che cercò di mantenere immune dalla tabe dei mercanti della politica e del danaro; serbó nell'arringo politico la fedele devozione degli spiriti più eletti e ne fu orgoglioso; alla Provincia, dai banchi di consigliere, e da quelli di presidente della deputazione e di presidente del Consiglio - ufficio che teneva ancora - diresse ogni suo pensiero al bene pubblico, si che nel fragore anche più acre delle lotte e delle passioni non scorse intorno a sé nemici ma soltanto avversarii.

Fu presidente della Cassa di Risparmii, del’ Uficio dei Fiumi e Fossi, di Istituti, di Commissioni importanti: e sedette per molti anni nel consesso municipale.

Non vi è stato mai cittadino che nella città nostra e nella provincia abbia ricoperto ufficii più ragguardevoli ed in maggior numero di quelli che Egli ricopri: ed è vanto questo che va reso alla sua intelligenza preclara, alla sua operosità instancabile.

Ebbe, è vero, alcune volte impeti e sdegni che gli procurarono furiose avversioni: ma l'uomo che aveva il temperamento tessuto di nervi come è quello di tutti i lavoratori, aveva un cuore d'oro; e passata la fugace accensione ritornava freddo, pensieroso e per ciò più amoroso di prima, e chi lo conobbe da vicino e ne investigo l'anima, non poté che ammirare i pregi di lui ed tesoro infinito della sua bontà!

A tutti i congiunti di Emilio Bianchi manda il Ponte di Pisa le più vive ed affettuose condoglianze; ma col cuore di vecchio amico io voglio qui ricordare il figlio di Lui, l'avv. Giovan Battista Bianchi, ed esprimergli tutto il dolore che io provo per la morte del suo padre amatissimo. A Bistino, al povero Bistino colpito nel suo affetto più grande, stringo la mano con la effusione della solidarietà fraterna al suo immenso lutto, nella più triste ora dell' angoscia.

E.M.

Fonte:
Camera dei Deputati portale storico 
Il Ponte di Pisa n.32 del 06 agosto 1911
 

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cardinal Pietro Maffi
Foto: wikipedia

 

Nacque a Corteolona, presso Pavia, il 12 ott. 1858 da Luigi e da Clementina Manenti. Compiuti gli studi ginnasiali nelle scuole pubbliche, nel 1873, entrò nel seminario di Pavia, dove, dall'ottobre 1876 al giugno 1880, frequentò i corsi di teologia. Il vescovo A. Riboldi attribuì al M., non ancora sacerdote, l'insegnamento di fisica e storia naturale nello stesso seminario, incarico che il M. tenne ininterrottamente sino alla primavera del 1901. Nel frattempo, il 17 apr. 1881, fu consacrato sacerdote a Pavia.
Già professore di scienze matematiche nei seminari di Monza e di Milano, il vescovo Riboldi rinnovò profondamente la didattica nel seminario pavese che si ridefinì alla luce delle esigenze neotomiste manifestate dall'enciclica Aeterni patris (1879). Il M. seguì fedelmente l'indirizzo del proprio vescovo che era amico di molti uomini di scienza e si recava spesso a Brera. A tal proposito, una delle prime iniziative del M. fu il rinnovamento del gabinetto di fisica e di storia naturale del seminario pavese, fondato dal vescovo A. Tosi nella prima metà del secolo. L'attività culturale di mons. Riboldi fu vista con benevolenza da parte del pontefice, anche perché la sua apertura verso la scienza moderna era associata a una netta posizione intransigente.


Durante il ventennio d'insegnamento, il M. si consacrò quasi completamente agli studi scientifici, per i quali si servì principalmente della Revue des questions scientifiques del gesuita I. Carbonelle, degli scritti di un altro gesuita, A. Secchi, e del barnabita F. Denza, all'epoca direttore dell'osservatorio del collegio Carlo Alberto di Moncalieri. In collaborazione con l'osservatorio di Brera e con lo stesso padre Denza, il quale, nel 1881, fondò la Società meteorologica italiana, il M. realizzò alcuni progetti in astronomia, geofisica e meteorologia. Dopo la nomina a prorettore del seminario, avvenuta nel 1886, al M. si presentarono maggiori opportunità per la realizzazione di alcuni progetti. Il 30 nov. 1890, giorno di inaugurazione dell'osservatorio astronomico nel seminario pavese, il M. pronunciò un discorso su La meteorologia del clero, in cui è sintetizzato il suo credo scientifico. Nel criticare il clima anticristiano alimentato dalla cultura positivistica, il M. si faceva interprete di una scienza che, in chiave neotomistica, sostenesse la fede.
L'attività scientifica del M. fu vastissima, dall'astronomia alla meteorologia, dalla sismologia alla scienze naturali. Nel 1895, inviò alla Società astronomica universale le sue osservazioni delle Perseidi, e, sempre negli stessi anni, progettò un nefoscopio per l'osservazione delle nuvole e un altro apparecchio per la misurazione delle acque del sottosuolo di Pavia. Ancora più noti furono i suoi globi meteoroscopici, uno dei quali figurò all'Esposizione universale di Parigi del 1900. Il tentativo di ripetere sulla cupola del duomo di Pavia l'esperienza che L. Foucault aveva compiuto al Pantheon, a Parigi, non fu invece portato a termine per l'opposizione dello stesso vescovo Riboldi, al quale il progetto parve la profanazione di un edificio sacro.

I risultati conseguiti valsero al M. importanti segni di stima da gran parte delle società scientifiche. Fu membro dell'Associazione meteorologica italiana (3 maggio 1892), della Società italiana di scienze naturali (4 marzo 1896), dell'Accademia di religione cattolica (febbraio 1898), della Société astronomique de France (2 nov. 1898), dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei (12 apr. 1899), della Società astronomica italiana (20 dic. 1909). Infine, nel 1904, fu nominato presidente della Specola vaticana.
Sin dai primi anni Novanta, la reputazione conquistata in campo scientifico, come anche la particolare simpatia con cui lo stesso pontefice Leone XIII guardava alle iniziative del vescovo Riboldi, valsero al M. l'attenzione di G. Toniolo, il quale, con lettera del 9 sett. 1892, lo invitò a Genova, al primo congresso scientifico dell'Unione cattolica per gli studi sociali. Allora, la cultura cattolica si trovava agli inizi della stagione politica e culturale aperta dall'enciclica Rerum novarum (1891) che, proprio nell'attività organizzativa di Toniolo, aveva uno fra i suoi vettori più dinamici. Nel settembre 1899, grazie all'appoggio di mons. Riboldi e del vescovo di Padova, G. Callegari, Toniolo fondò la Società cattolica italiana per gli studi scientifici che comprendeva cinque sezioni. La terza, quella per gli studi fisici, naturali e matematici fu affidata alla presidenza del M., il quale - grazie anche ai sussidi di mons. Riboldi - fu direttore della rivista della sezione, la Rivista di fisica, matematica e scienze naturali (nata a Pavia il 1 genn. 1900 con la benedizione di Leone XIII, e uscita sino al 1912).


Il M. associò a questa attività anche pubblicazioni di carattere divulgativo, tra cui il volume Nei cieli: pagine di astronomia popolare (Milano 1896). Tali opere furono date alle stampe al fine di contribuire alla qualificazione scientifica degli insegnanti di scienze naturali, soprattutto di quelli ecclesiastici. Più propriamente apologetiche furono le Riflessioni sui nostri doveri davanti alla scienza moderna e alla fede (Pavia 1898) e il breve discorso, Dio nella scienza pronunciato nel febbraio 1903 (confluito in P. Maffi, Scritti vari, Siena 1904, pp. 419-430). Il M. coltivò anche la storia della scienza che coniugò, talvolta, con quello per i grandi autori della letteratura italiana: nel 1898 dette alle stampe La cosmografia nelle opere di Torquato Tasso con l'intenzione di far conoscere le premesse cinquecentesche di quella "grande giornata d'oro dell'astronomia" che, ad avviso del M., fu il XVII secolo. Testimonianza dei suoi interessi letterari furono anche due romanzi che il M. pubblicò negli anni Novanta, in appendice a Il Ticino (giornale cattolico di Pavia di cui il M. fu fra i più assidui redattori): Fior che muore (1894) e Gli sparvieri (1898).
Il 15 apr. 1901 mons. Riboldi fu nominato arcivescovo di Ravenna. Non volendo privarsi della collaborazione del M., lo scelse quale proprio vicario generale il successivo 6 ottobre. Il 25 apr. 1902, il nuovo arcivescovo morì. Cinque giorni più tardi, un decreto della congregazione del Concilio nominò il M. amministratore apostolico dell'arcidiocesi ravennate. L'11 giugno, Leone XIII lo consacrò vescovo titolare di Cesarea di Mauritania e lo elesse ausiliare di Ravenna. Poco più di un anno dopo, durante il concistoro del 25 giugno 1903, il M. fu designato arcivescovo di Pisa.


Il primo decennio del M. a Pisa si svolse in stretto rapporto con le imponenti trasformazioni che allora stavano investendo il movimento cattolico nella fase finale dell'Opera dei Congressi, sciolta definitivamente nel 1904. Rispondendo a quella ricerca di forme nuove della presenza cattolica nella società, manifestate dal nuovo pontefice, Pio X, il M. si mantenne sempre fedele all'idea di un cattolicesimo tanto più impegnato politicamente e socialmente rispetto ai trent'anni precedenti quanto costantemente regolato dal magistero dei vescovi e del papa. Nel corso del suo episcopato, compì quattro visite pastorali, si impegnò per la nascita di casse rurali, casse operaie, associazioni di mutuo soccorso, fondò un'opera per gli asili infantili che furono incoraggiati in tutte le parrocchie. Testimonianza dei suoi orientamenti fu la settimana sociale di Pistoia (23-28 sett. 1907) in cui si discusse sulla cooperazione, sulle associazioni femminili, sull'educazione della classe operaia, sulla scuola, sulla questione dell'emigrazione. Anche nel seminario pisano, che il M. riorganizzò potenziando l'insegnamento scientifico, fu introdotta la cattedra di sociologia ed economia, affidata a Toniolo.
Tanta operosità fu riconosciuta da Pio X che lo nominò cardinale durante il concistoro del 15 apr. 1907. La designazione avrebbe comportato il trasferimento del M. a Roma, ma una commissione, formatasi spontaneamente tra alcuni cattolici pisani e presieduta da Toniolo, convinse il papa, nel corso di un'udienza, a lasciare che il nuovo cardinale rimanesse a Pisa mantenendo l'ufficio arcivescovile.


Su un piano strettamente politico, il M. cercò sempre di mediare con le posizioni murriane, senza mai prestare loro il proprio consenso. A quest'opera di mediazione fu obbligato dal notevole ascendente che R. Murri aveva sulle opinioni dei giovani toscani - con l'importante eccezione di alcuni gruppi fiorentini e livornesi - sin dal III Convegno regionale democratico cristiano, tenutosi proprio a Pisa il 28 apr. 1902. In realtà, nonostante l'opera di mediazione, alla quale il suo ruolo pastorale lo vincolava, il M. fu sempre convinto della necessità di un'alleanza dei cattolici con i liberali e con i monarchici. Proprio con la monarchia, grazie alla vicinanza della residenza reale di S. Rossore, il M. avviò nel corso degli anni una costante opera di riavvicinamento. Segno di questo rapporto fu la nomina del M. a cavaliere di gran croce, con il motu proprio del re del 26 ag. 1919. Durante la guerra di Libia, il M. si allineò pubblicamente alle posizioni filonazionalistiche della Società editrice romana, il trust di G. Grosoli, cui fu legato per tutta la vita da sincera amicizia. Oltre a comportare alcune tensioni con il papa che criticò il trust nella famosa Avvertenza del dicembre 1912, la scelta del M. causò un allentamento dei rapporti con alcuni esponenti della gioventù cattolica dell'arcidiocesi, tra i quali G. Gronchi che, in occasione delle elezioni del 1913, dichiarò di disinteressarsi delle raccomandazioni della direzione diocesana. Anche durante la prima guerra mondiale, alla luce dell'avvicinamento compiuto tra il movimento nazionalista e una parte dello schieramento cattolico al congresso di Milano del maggio 1914, il M. lasciò intendere chiaramente la propria posizione. Celebre fu, a tal proposito, il discorso Per il trionfo delle nostre armi (11 luglio 1915) che, sin dal titolo, non lascia adito a dubbi sulle caratteristiche del nazionalismo del Maffi.


Dal 1924 egli si adoperò per la soluzione della questione romana, sfruttando i legami personali che aveva da lunga data con l'ex popolare P. Mattei Gentili, sottosegretario al ministero della Giustizia e degli affari di culto, e con altri esponenti del movimento cattolico filofascista Centro nazionale italiano.
Il M. morì a Pisa il 17 marzo 1931.


Fonti e Bibl.: Le carte del M. sono conservate presso la Biblioteca arcivescovile di Pisa, Arch. privato Maffi. Un'informazione dettagliata su tutte le pubblicazioni del M. è in A. Spicciani, Gli scritti di P. M., in Il cardinale P. M. arcivescovo di Pisa. Primi contributi di ricerca, tavola rotonda, 1982, Pisa 1983, pp. 157-163. Oltre a questo volume, punto di partenza per ogni studio sul M., sono da vedere: I. Felici, Il card. M., Roma-Milano 1931; P. Stefanini, Il card. M., Pisa 1958; L. Righi, Una porpora prestigiosa, Fiesole 1978; F. Ingrasciotta, Il cardinale P. M. e la sua attività pastorale a Pisa, 1904-1931, Pisa 1984; M. Andreazza, Alle origini del movimento cattolico pisano: il card. P. M. e il prof. G. Toniolo, Pisa 1991; La Biblioteca arcivescovile "Cardinal Maffi", a cura di G. Rossetti et al., in Galileo e Pisa, a cura di R. Vergara Caffarelli, Ospedaletto-Pisa 2004, pp. 97-120.
di Filippo Sani - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

Fonte: treccani
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

La duchessa crocerossina

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Nel 1908 viene inaugurata a Roma la scuola per infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana e l’anno dopo fra le allieve in divisa bianca c’è anche una signora sottile ed elegante. La nuova aspirante crocerossina si chiama Hélène d’Orléans ed oltre ad essere altissima, affascinante ed energica è anche la moglie di Emanuele Filiberto di Savoia duca Aosta, cugino di re Vittorio Emanuele III. La prestigiosa adesione viene salutata con la massima soddisfazione dai vertici italiani della Cri, poiché la principessa è, come si direbbe oggi, una persona molto dinamica e la cosa in giro si sa. Ispettrice Generale delle Infermiere Volontarie dal 1911, la duchessa crocerossina partecipa alla sua prima missione sulla nave ospedale Menfi che rimpatria i soldati feriti o malati dalla Libia. Nel 1915, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Hélène inizia a visitare ospedali grandi e piccoli lungo tutta la linea del fronte, quello che vede spesso non le piace, ma lei non è certo il tipo da stare zitta e far finta di nulla. “Grazie al suo spirito organizzativo – racconta il nipote, il principe Amedeo attuale duca di Aosta – e insieme a validissime collaboratrici, riuscì ad organizzare il Corpo delle Infermiere Volontarie e a gestire una logistica non facile, con le crocerossine sempre a fianco dell’esercito, che svolgevano la loro missione fin nei luoghi più avanzati del fronte. Grazie al suo forte carattere riuscì ad imporre le sue infermiere in seno ad un ambiente sanitario e militare che fino ad allora tendeva a considerare le donne solo alla stregua di buone samaritane e non certo professioniste preparate e motivate quali erano; bastò poco comunque perché le Sorelle si facessero conoscere ed apprezzare per il loro prezioso lavoro”. La duchessa di Aosta durante tutti gli anni della guerra si impegna in prima persona e, come testimoniano i suoi superiori, dà prova di coraggio, resistenza alla fatica ed ai disagi, e grande efficienza. Ma è anche pronta a protestare quando si trova di fronte a situazioni insostenibili dal punto di vista medico e sanitario. Energica, piena di iniziativa e di una severità che la fa giudicare intransigente (ma ci voleva specie nei primi tempi della guerra) Hélène non si lascia intimidire dalle greche del generali a cui rivolge le sue richieste di provvedimenti. La duchessa crocerossina non ha paura, né dei bombardamenti, spesso resta in prima linea accanto ai soldati, né dei vertici dell’esercito e per tutti gli anni del conflitto combatte una sua personale lotta contro l’inefficienza e le disposizioni assurde. Il diario che tiene in quel periodo è ricco di annotazioni sui feriti trasportati in carri bestiame nei quali le condizioni igieniche sono disastrose, sugli ospedali disorganizzati e sporchi, ma anche sulle strutture dove l’assistenza funziona come si deve. Donna di gran cuore la duchessa crocerossina è spesso vicina ai malati e ai feriti in un modo non certo convenzionale per una signora dell’alta società per di più reale; a Venezia ad esempio non esita ad assistere fino all’ultimo minuto, tenendolo stretto fra le sue braccia, un giovane fante moribondo che nel delirio l’ha scambiata per la madre. “Dai numerosi diari, lettere ed altri scritti di infermiere volontarie – osserva il nipote – si evincono soprattutto le doti di profonda umanità, compassione e bontà (non disgiunta mai da fermezza) della loro ispettrice generale. Sempre preoccupata anche del benessere fisico e psicologico delle sue ‘figliole’ come spesso chiama le sue infermiere o col termine stesso di “sorelle di carità” da lei usato in una commemorazione e che sostituirà definitivamente quello di ‘dame’ utilizzato fino ad allora”.

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Hélène in abito da sposa

Italiana per matrimonio e francese per origini, Hélène è inglese di nascita, ma assolutamente europea per conoscenze, frequentazioni, cultura, studi e abitudini. La principessa, nata a Twickenham nei pressi di Londra il 13 giugno 1871, è infatti una delle figlie di Luigi Filippo “conte di Parigi”, condannato all’esilio in quanto pretendente al trono di Francia. La futura duchessa d’Aosta, che ha una sorella regina del Portogallo e per via materna discende dai Borboni di Spagna, cresce fra Villamanrique, una grande finca vicino a Siviglia, e la Gran Bretagna dove frequenta la corte inglese e ha come compagni di giochi i figli del principe di Galles, futuro re Edoardo VII. Le relazioni sono così strette che una storia d’amore fra i rampolli reali è quasi inevitabile: il duca di Clarence primogenito dell’erede al trono, non resiste al fascino di Hélène, le fa una corte assidua, si comincia a parlare di nozze, ma il padre della principessa, nonostante il prestigio di una tale unione, pone un veto deciso ed irremovibile. Hélène non può abiurare al cattolicesimo, conditio sine qua non per salire sul trono d’Inghilterra, e lo stesso papa Leone XIII fa sapere che una scomunica seguirebbe a ruota ad una eventuale conversione della principessa francese alla chiesa anglicana. Così il matrimonio inglese sfuma. Lui ci rimane molto male, però si fidanza prontamente con un’altra perché la dinastia ha bisogno di eredi, ma una polmonite lo stronca poco prima delle nozze e la promessa sposa passa velocemente al fratello. Saranno re Giorgio V e la regina Mary. Come volergliene alla povera Mary per questo frettoloso rimpiazzo, sapendo che il defunto fidanzato nell’agonia aveva invocato solo la perduta Hélène?

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Emanuele Filiberto duca d’Aosta

Sempre per questioni di fede e di abiure non contemplate va a monte anche un altro progetto matrimoniale, quello con lo zarevic Nicola, figlio dello zar Alessandro III, così Hélène a 23 anni è ancora insolitamente (per la sua epoca e per il suo ceto sociale) nubile. Ci vuole un lutto per cambiare drasticamente la situazione. Al funerale del padre nel 1894, Hélène solleva per un attimo il fitto velo nero ed incontra lo sguardo di Emanuele Filiberto duca d’Aosta, inviato dallo zio re d’Italia a rappresentare i Savoia. Un’occhiata rapidissima, ma più che sufficiente. L’unione, per quanto dinasticamente perfetta, però non è vista di buon occhio in Italia e lo sposo fatica a portare all’altare la sua principessa francese la quale oltre ad un albero genealogico impeccabile pare abbia anche una buona dote (e forse persino qualche lascito dal prozio duca di Aumale), il che non dispiace allo squattrinato duca d’Aosta. I motivi delle perplessità sabaude sono politici (con la Francia i rapporti non sono cordiali) e di opportunità visto che il principe ereditario Vittorio Emanuele è ancora scapolo. Il duca di Aosta la spunta ed il 25 giugno 1895 sposa finalmente Hélène, ma l’accoglienza in Italia è freddina, la principessa cosmopolita, padrona di quattro lingue, colta, a suo agio nell’alta società internazionale, viene guardata quasi con timore da una corte recente e tutto sommato ancora abbastanza provinciale. Il commento apparentemente benevolo della regina Margherita ha un retrogusto al veleno: “per educazione e per fisico è una vera inglese, la dicono buona, intelligente e colta, diventerà una bella donna”. La prima sovrana d’Italia non solo odia cordialmente tutto quanto connesso con la Francia, ma soprattutto ha un figlio che non è un adone (al contrario di tutti i Savoia Aosta) e che non riesce ad accasare. Con il resto della famiglia non va meglio, il principe ereditario è per carattere scontroso e diffidente, la matrigna del marito Letizia Bonaparte, contrarissima alle nozze, mantiene la sua posizione ad oltranza, i cognati uno dedito ai cavalli, l’altro alle esplorazioni (è il famoso duca degli Abruzzi) sono praticamente invisibili, solo il re è cordiale. Così Hélène si butta sulla beneficenza e nel frattempo mette al mondo due figli Amedeo e Aimone che educa secondo il severo modello britannico. Il matrimonio ad ogni modo funziona molto bene e una reale complicità nasce fra i due sposi che non prendono mai decisioni senza il consiglio l’uno dell’altro. Negli anni ci saranno cedimenti e da una parte e dall’altra, ma la coppia resterà sempre unita e solidale. Hélène ha le “physique du role” e lo stile della vera principessa, è brillante, elegante, raffinata, originale e quindi diventa presto molto popolare fra tutte le classi sociali della nuova nazione. Compiaciuta per il rispetto che le dimostrano gli italiani la duchessa di Aosta sposa gli interessi e le cause del suo nuovo paese e la “figlia di Francia” diventa rapidamente più italiana degli italiani.

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Hélène con il marito, i due figli e la madre l’infanta Isabella (figlia a sua volta di Luisa Fernanda sorella della regina Isabella II di Spagna) vedova del conte di Parigi, pretendente Orléans al trono di Francia

La principessa però non gode di buona salute, è spesso febbricitante ed una tosse stizzosa la lascia sovente senza forze, i medici diagnosticano una tubercolosi e, come si usava all’epoca, le consigliano un lungo soggiorno nei climi caldi. La duchessa parte nel 1907, arriva in Egitto e poi si spinge fino all’Oceano Indiano. Torna in Italia giusto in tempo per accorrere a Messina dove presta assistenza alle popolazioni colpite dal disastroso terremoto, il che non giova alla sua salute, così nel 1908 riprende i suoi viaggi, ma questa volta si dirige verso sud, Sudafrica, Rodhesia, poi l’anno dopo Kenya e Somalia. I paesi lontani e sconosciuti l’attraggono in modo irresistibile, nel 1913 arriva fino in Asia, visita l’India, Ceylon, l’Indocina, il Borneo, Sumatra, l’Australia, la Nuova Zelanda, torna attraverso gli Stati Uniti, il Canada e la Spagna. La malattia ormai è solo un ricordo e durante questi lunghi peripli prende appunti che diventeranno dei libri: “Viaggi in Africa”, “Verso il sole che si leva”, “Vita errante”, “Attraverso il Sahara”. Nel frattempo è diventata crocerossina, è stata nominata Ispettrice Generale (lo resterà fino al 1921), ha fondato l’Opera Nazionale di Assistenza all’Italia Redenta e D’Annunzio l’ha celebrata con versi non particolarmente belli, ma molto esaltati. Hélène per il Vate è la personificazione della amatissima Francia unita alla regalità italiana; per la duchessa la “La canzone di Elena di Francia” la sesta delle “Canzoni d’Oltremare” è invece la consacrazione ad eroina sabauda.

Foto5bisE quegli ch’ebbe stritolato il mento/dalla mitraglia e rotta la ganascia,/e su la branda sta sanguinolento/e taciturno, e i neri grumi biascia,/anch’egli ha l’indicibile sorriso/all’orlo della benda che lo fascia,/quando un pio viso di sorella, un viso/d’oro si china verso la sua guancia,/un viso d’oro come il Fiordaliso./Sii benedetta, o Elena di Francia,/nel mar nostro che vide San Luigi/armato della croce e della lancia”. Hélène ammira D’Annunzio per l’eroismo, ma è infastidita da certi aspetti del suo carattere e della sua personalità di uomo libertino e miscredente. Infatti la principessa anticonformista, amica di intellettuali e massoni, è profondamente religiosa e vive il suo rapporto con il cattolicesimo in una maniera intensa e priva di ostentazione.

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Nel 1905 i duchi di Aosta si trasferiscono a Napoli e nel palazzo di Capodimonte Hélène tiene una corte splendida e il suo prestigio diventa quasi quello di una regina. Stimata dalla Chiesa per la sua devozione e la sua carità ossequiata dalle autorità, popolare fra la gente, la duchessa visita i bassi di Napoli e fra la miseria più nera si muove con naturalezza; persino Matilde Serao, la potentissima giornalista de “Il Mattino” le dimostra una certa simpatia.

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Allo scoppio della I Guerra Mondiale la principessa, interventista fin da subito, è al fronte con il marito, comandante della III Armata, ed i figli di 17 e 15 anni. Ottiene una medaglia d’argento al valor militare due croci al Merito di Guerra, due onorificenze francesi, una inglese, e la medaglia Florence Nightingale, ma il drammatico conflitto lascia su di lei una impronta indelebile, scrive: “niente potrà cancellare la visione mostruosa della guerra”. Nel 1919 riprende a viaggiare, ma rientra per manifestare la sua adesione all’impresa dannunziana di Fiume, recandosi nella città contestata accolta dal poeta, ed attirandosi così i fulmini del Governo. Nitti la definisce una “lady Macbeth” che, “nella più pura tradizione di tradimento degli Orléans, sta lavorando per spodestare il ramo principale della casata a favore del marito e dei figli”.

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Una celebre foto, da sinistra il duca d’Aosta, Hélène, e i figli Aimone e Amedeo, tutti e due altissimi e molto belli

Con Mussolini la duchessa ha rapporti amichevoli tanto che il libro sulla sua esperienza al fronte, pubblicato nel 1930 “Accanto agli Eroi. Diario di guerra” ha la prefazione del Duce. Il capo del Governo è sempre deferente verso di lei, accontenta le sue richieste, tollera le asprezze del suo carattere in sostanza se ne fa un’alleata, ma pare che ad un certo punto Mussolini si sia irritato per la mania della duchessa di farsi ritrarre nei suoi sempre molto frequenti viaggi in Africa assieme alle popolazioni locali.

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Il duca e la duchessa d’Aosta escono da una udienza al Vaticano, il figlio Aimone racconterà che la madre si era messa a discutere con il Papa al quale aveva chiesto di intervenire per risolvere un problema legato ad un istituto benefico.

Emanuele Filiberto muore all’improvviso nel 1931, ma lei resta a Capodimonte (dove si installa anche il secondo marito il colonnello Otto Campini, sposato nel 1936) e nonostante l’età e la malattia ai polmoni conserva una stupefacente energia fisica e nervosa. In quel periodo un affetto particolare la lega alla principessa di Piemonte, Maria José del Belgio come lei intelligente, anticonformista, priva di pregiudizi, di mentalità aperta al limite della stravaganza. Sono anche gli anni in cui i figli si sposano, Amedeo con Anna d’Orléans, cugina per parte di madre e per parte di padre, Aimone che all’epoca era considerato uno degli uomini più affascinanti d’Italia, con Irene di Grecia.

Nel palazzo di Capodimonte la duchessa rimane durante tutto il secondo conflitto mondiale e nei giorni dell’occupazione nazista è il suo coraggio a salvare una situazione disperata. “Un giorno un soldato tedesco viene colpito da una fucilata tirata da una finestra del palazzo – racconta il nipote Amedeo – poco dopo si presenta un colonnello delle SS insieme ai suoi uomini armati di mitragliatrici e dopo aver fatto allineare contro un muro tutti i domestici chiede di denunciare il colpevole. Mia nonna scende dai suoi appartamenti e dice al colonnello: ‘signore, in questo palazzo niente si fa senza che io lo sappia. Dunque sono l’unica responsabile. Se lei ha qualcosa da dire o da fare è a me che si deve rivolgere’. L’ufficiale impressionato sparisce con i suoi soldati. A Napoli ancora se ne parla”.

Sono anni di grandi dolori, la morte dei figli lontani (Amedeo, prigioniero degli inglesi nel 1942, Aimone a Buenos Aires nel 1948), la fuga del re, il referendum che cancella la monarchia, ma Hélène resiste e va avanti. Dopo il 2 giugno 1946 si ritira in un albergo a Castellammare di Stabia e quando Umberto impone a tutta la famiglia di lasciare il paese la duchessa non si muove. “Sire – fa sapere al re – sono diventata italiana e resto in Italia”. L’ultimo gesto di amore nei confronti di quella che è ormai la sua patria è il dono, nel 1947, alla Biblioteca Nazionale di Napoli del Fondo Aosta, costituito dalla Raccolta libraria (oltre 11.000 volumi ed opuscoli), ed anche dalla straordinaria Raccolta africana e da una notevole Raccolta fotografica. Hélène d’Oléans duchessa di Aosta muore a Castellammare di Stabia il 21 gennaio 1951.

Fonte: altezzareale.com
Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

BURCI, Enrico. - Nacque a Firenze il 26 maggio 1862 da Gaetano e da Laura Zagri-Chelli. Si laureò in medicina e chirurgia nell'università di Pisa nel 1885. Uno zio paterno, Carlo Burci, fu un celebre chirurgo; i suoi primi maestri in chirurgia furono G. Corradi e P. Landi. Divenuto subito dopo la laurea, nel 1886, assistente effettivo presso la clinica chirurgica di Pisa, per circa tre anni il B. concentrò il suo interesse su argomenti di fisiopatologia sperimentale, di patologia generale, di igiene; in seguito si dedicò esclusivamente alla pratica chirurgica e allo studio di argomenti di patologia di interesse chirurgico. Dopo aver prestato servizio nei R.R. Ospedali di Pisa in qualità di chirurgo primario, nel 1892 conseguì la libera docenza in patologia chirurgica e nel 1898 quella in clinica chirurgica e medicina operatoria. Professore straordinario di patologia chirurgica a Padova nel 1899-900, e nel 1902 a Firenze professore di patologia chirurgica nell'Istituto di studi superiori e direttore della clinica chirurgica pediatrica dell'ospedale Mayer, nel 1903 divenne titolare della cattedra di clinica chirurgica dell'università di Firenze. Durante la guerra balcanica nel 1912 diresse una importante unità sanitaria militare in Serbia; durante quella del 1915-18 fu consulente chirurgo negli ospedali militari del corpo d'armata di Firenze e presidente del comitato sanitario regionale del dipartimento di Firenze e La Spezia. Fu inoltre ispettore straordinario nazionale per l'assistenza ai mutilati e agli invalidi di guerra nel 1916 e presidente della delegazione italiana nel Comitato interalleato per l'assistenza degli invalidi di guerra nel 1917. Dal 1926 al 1930 fu rettore dell'università di Firenze.

Il B. fu autore di ben 124 pubblicazioni e vantò una casistica clinica di oltre 30.000 interventi. Nel primo periodo della sua attività condusse studi accurati soprattutto in campo batteriologico, alcuni dei quali particolarmente originali e interessanti, anche per i loro riflessi pratici (Contributo alla conoscenza del potere patogeno del Bacillus Pyogenus Foetidus. Nota clinica, Pisa 1892 [estr. della Riv. gener. ital. di clin. medica, IV, 1891]; Sulla mutabilità di alcuni caratteri biologici del Bac. Coli comune, Pisa 1892). Ma ben presto il B. cominciò ad affrontare quegli argomenti di patologia chirurgica e di medicina operatoria che dovevano rappresentare il settore di studi preferito. Fu autore di interessanti ricerche sulla patogenesi e sul processo di guarigione della peritonite tubercolare, sulle localizzazioni extragenitali del gonococco, sull'actinomicosi dell'uomo; escogitò nuovi processi operatori e introdusse tecniche chirurgiche personali, che furono più tardi largamente seguite dagli altri chirurghi, quali la nefropessia, la riduzione dell'ernia ombelicale e di quella epigastrica, la resezione epatica e degli organi parenchimatosi in genere mediante sutura incavigliata semplice o combinata con legatura elastica. I suoi lavori nel campo della chirurgia intestinale contribuirono validamente alla soluzione di delicati problemi tecnici, rappresentati principalmente dalla difficoltà di intervenire in condizioni di asepsi e di operare correttamente sull'intestino (Ricerche sperimentali sopra alcuni mezzi che possono servire a diminuire i pericoli delle sepsi nelle operazioni del tubo digerente, Firenze 1894 [estr. da Lo Sperimentale, XLVIII, sez. clinica]; Le enterostasi durante le operazioni sull'intestino. Proposta di un nuovo enterostato, Firenze 1896 [estr. da La settimana medica dello Sperimentale, L]; Ricerche sperimentali sulla enterostasi, Pisa 1897; Sul saldamento della mucosa intestinale ravvicinata mediante la sutura, Firenze 1897 [estr. da La settimana medica dello Sperimentale, LI]). Di particolare rilievo fu, soprattutto, l'opera del B. nel campo della chirurgia vascolare: i progressi che si erano registrati in questo settore, dovuti in larga misura ai problemi terapeutici imposti dalle lesioni traumatiche e dalle dilatazioni aneurismatiche, consistevano essenzialmente nelle perfezionate conoscenze anatomo-topografiche, e nella conseguente precisazione dei vari tratti arteriosi o venosi ove poter effettuare le legature rispettando i circoli collaterali, e nelle corrette tecniche di tali interventi. Fu opera del B. l'aver dimostrato la possibilità di suturare i vasi sanguigni ripristinandone la continuità e conservandone la pervietà del lume, e di aver descritto le metodiche idonee a tale processo operativo per le arterie e per le vene. Egli iniziò i suoi esperimenti con poveri mezzi, non più che due semplici pinze emostatiche con le branche rivestite da tubicini di gomma e un sottile ago da sutura; ma questo strumentario gli fu sufficiente a effettuare la riparazione di ferite longitudinali e trasverse dei vasi sanguigni e a praticare brillanti interventi di anastomosi termino-laterali e termino-terminali, i quali ultimi sono oggi di comune impiego nella moderna chirurgia cardiovascolare. Nel corso delle sue ricerche in questo settore, il B. dimostrò sperimentalmente la possibilità di decorticare le arterie mediante l'asportazione della tunica avventiziale, senza determinare lesioni anatomiche e funzionali del vaso: tale tecnica fu successivamente perfezionata e impiegata nella terapia delle arteriopatie obliteranti, grazie soprattutto alla genialità di R. Leriche che, riprendendo precedenti studi sull'argomento, introdusse il processo operatorio nella cura della causalgia (De la causalgie envisagée comme une névrite du sympathique et de son traitement par la dénudation et l'excision des plexus nerveux périartériels, in LaPresse méd., XXIV [1916], pp. 178-180). Al B. spetta dunque il merito di aver dato inizio agli studi clinici e sperimentali di chirurgia vascolare e di aver intrapreso la sistemazione nosografica delle vasculopatie di interesse chirurgico (Malattie chirurgiche delle arterie, in Trattato ital. di chirurgia..., Milano s.d., II, parte 2, pp. 75-172; Malattie delle vene [con Q. Vignolo], ibid., pp. 173-189).

Il B. morì a Firenze il 30 ott. 1933.

Bibl.: G. F., Prof. E. B., in Pensiero medico, XVIII (1929), pp. 748-49; D. Taddei, E. B., in Policlinico, sez. pratica, XL (1933), pp. 1835-36; C. Righetti, Comm. del prof. E. B., estratto da Boll. d. Acc. pugliese di scienze, IX (1933); E. B., in Riv. di ter. moderna e di med. pratica, XXVI (1933), p. 55; G. D'Agata, E. B., in Riv. san. sicil., XXI (1933), p. 1779; J. Fischer, Biograph. Lex. der hervorragendenÄrzte..., I, pp. 201-02.

Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti

 

 

 

 

 

Villani
Foto: Villani, rielaborazione di cartolina
Fonte: Istituto per la storia del Rinascimento Italiano
 
 
Giovanni Villani, nato a Firenze intorno al 1280 da famiglia popolana, si dedicò fin dalla giovinezza alla mercatura. Partecipò attivamente alla vita politica fiorentina dal 1316 fino al 1330: fu più volte priore e magistrato con diversi incarichi, di ambito soprattutto economico-finanziario. Dal 1331 la sua attività pubblica subì un declino; coinvolto nel fallimento della compagnia dei Buonaccorsi nel 1346, fu per qualche tempo incarcerato. Morì nell’epidemia di peste del 1348.
 
Secondo quanto dichiara, V. concepì il progetto di scrivere la sua Cronica(titolo con il quale l’opera è nota secondo la vulgata; ora Nuova cronica, nell’edizione critica a cura di G. Porta, 3 voll., 1990-1992, da cui si cita) a seguito di un viaggio a Roma per il giubileo del 1300. Sollecitato dalla vista degli antichi monumenti e dall’esempio degli autori che tramandano le memorabili gesta dei Romani, decise di intraprendere un’opera ancora intentata: scrivere la storia della propria patria, Firenze, che di Roma era – secondo una già consolidata tradizione – «figliuola e fattura» (IX xxxvi). Firenze è dunque, anche sul piano dell’ideazione, l’epicentro dell’opera, che mantiene a ogni modo, pur nella novità di intenti, l’impianto della cronaca universale. La narrazione ha infatti inizio dalla torre di Babele e tratta i fatti del mondo fino alla contemporaneità dell’autore, in 13 libri (12 secondo la vulgata), frammentati in autonomi capitoli di vario numero. I primi sette libri (circa un quarto dell’intera opera) procedono dalla torre di Babele al 1264 (chiamata di Carlo d’Angiò in Italia); dal 1265 l’andamento annalistico si fa invece sistematico e la narrazione muta di proporzioni, con maggiore ampiezza e analiticità. Dalla seconda metà del libro VIII la Cronicariguarda la storia a V. contemporanea, fino a giungere alla stringente attualità, in cui assume ulteriore significato la diretta testimonianza. 
La peculiare attenzione di V. agli aspetti economico-finanziari, statistico-demografici e amministrativi di Firenze (memorabili in particolare i capitoli xci-xciv del libro XII) conferisce alla Cronica– con le dovute cautele – un non trascurabile ruolo anche documentario. Per quanto riguarda i tempi della scrittura, l’operato di V. in rapporto alla precedente tradizione e la discussa questione redazionale, cfr. Green 1972 e Ragone 1998. 
 
Come è detto nel prologo, la scrittura dell’opera in «piano volgare» intende arrecare «frutto» e «diletto» al pubblico dei non letterati, sia mediante il fare «memoria» delle cose notevoli di Firenze, di cui si esalta la nobiltà e la grandezza a partire dalle origini – in modo che non se ne perdano le testimonianze e l’impresa venga poi continuata dai successori , sia tramite il dare «esemplo»: in chiave etico-morale e politico-civile, centrando la riflessione sul tema delle «mutazioni averse e filici». Causa di queste, con esiti diversi nel corso degli eventi, risultano le ripetute divisioni tra i cittadini, da V. legate in primo luogo allo stesso mito delle origini, nella duplice e antitetica matrice romana e fiesolana, e ai peccati degli uomini fomentati dall’intervento diabolico, cui – secondo la logica provvidenzialistica e tradizionalmente religiosa di V. – fanno seguito i «flagelli» mandati in punizione da Dio. Pur nella frammentazione del racconto cronachistico, V. fa emergere il progressivo costituirsi dell’assetto istituzionale che trasforma la fisionomia politico-civile e militare dell’antico Comune e ne pone il nuovo baricentro nel ‘popolo grasso’ e nelle Arti. Socialmente e politicamente legato ai «buoni uomini di Firenze», «mercatanti e artefici», V. esprime negli ultimi libri un crescente disagio e fastidio, con toni polemici, per i reggenti e il loro operato, anche a causa dell’aumentato potere dei popolani minuti nelle istituzioni.
 
Il successo e la diffusione della Cronicafurono molto rilevanti, come attesta l’imponente tradizione manoscritta del testo. La monumentale opera di V. assunse un carattere quasi ufficiale, e divenne il caposaldo e il punto di partenza e confronto obbligato della successiva cronachistica e storiografia fiorentina. Sulla strada da lui indicata si pose subito il fratello Matteo (1285?-1363), la cui Cronica, pur non priva di un’autonoma diffusione, fu recepita, e poi utilizzata, come una continuazione di quella di Giovanni. Di intenti e prospettive in larga misura diverse, in cui prevalgono il tema della «novità» e un fine moralistico sostenuto da una visione cupa e sfiduciata, l’opera di Matteo è composta da undici libri, nei quali sono distesamente narrati gli avvenimenti dal 1348 al 1363. Il racconto relativo alla guerra dei fiorentini contro i pisani, rimasto interrotto a causa della morte dell’autore, fu concluso dal figlio Filippo (1325-1405), fino alla pace stipulata nel 1364. 
 
Dell’opera di Matteo e Filippo non si riscontra alcuna presenza in Machiavelli. Molte e significative sono invece le tracce della Cronicadi Giovanni nel secondo libro delle Istorie fiorentine, dove il nome è citato (insieme con quello di Dante) nel cap. ii in relazione a Fiesole, all’inizio delle considerazioni sulla fondazione di Firenze: segno esplicito della volontà di M. di non ignorare la tradizione cronachistica fiorentina messa in mora negli Historiarum Florentini populi libriXII di Leonardo Bruni (lo stesso avviene per la distruzione a opera di Totila, re degli Ostrogoti, e per il mito della riedificazione carolingia). A partire dal racconto della «prima divisione» del 1215, da cui la storia della città assume nella narrazione di M. significato autonomo e degno di memoria, la funzione della Cronicadi V. – come di quella di Marchionne di Coppo Stefani, che è però meno rilevante nel II libro – è quella di offrire a M. viva materia per sostanziare «particularmente», e con i nomi dei protagonisti, la narrazione della vita politica cittadina e soprattutto delle divisioni e civili discordie. Nella complessa rielaborazione e nell’intarsio di fonti del II libro, tra la narrazione bruniana e i cronisti (per un esame analitico cfr. Cabrini 1985, anche per la pregressa bibliografia), tra i passi in cui è particolarmente significativo l’apporto di V. si segnalano la vendetta contro Buondelmonte Buondelmonti, l’istituzione del priorato (xi), l’entrata di Corso Donati in Firenze nel 1301, la sua sconfitta e morte nel 1308 (xxiii), la condotta di Ramondo di Cardona (xxix), la congiura dei Bardi e dei Frescobaldi, l’operato di Gualtieri di Brienne duca d’Atene in Firenze (xxxiv-xxxvii), con lo Stefani, in alcune parti prevalente); il tentativo di Andrea Strozzi (xl, sempre con Stefani, mentre l’episodio è del tutto ignorato da Bruni). Interessa anche rilevare, nella narrazione riguardante Castruccio Castracani, la presenza di passi della Cronica, da M. presumibilmente già considerati in relazione alla stesura della Vita del condottiero e signore lucchese. 
 
Bibliografia: L.F. Green, Chronicle into history. An essay on the interpretation of history in Florentine fourteenth-century chronicles, Cambridge 1972; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; F. Ragone, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Roma 1998; A.M. Cabrini, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma 2001. 
 
Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

Guerrazzi Francesco Domenico
Foto: rielaborazione dall'originale
Fonte: galileumautografi

 

Scrittore e uomo politico (Livorno 1804 - Cecina, Livorno, 1873). Si laureò in giurisprudenza a Pisa nel 1824, ma appena un anno più tardi esordì nella carriera letteraria con le Stanze alla memoria di Lord Byron(1825), un’esaltazione del poeta inglese conosciuto a Pisa poco tempo prima, la cui influenza sulla sua produzione fu sempre molto forte. Nel 1827 uscirono, sempre a Livorno, i quattro volumi di una delle sue opere maggiori, La battaglia di Benevento, un romanzo storico in cui già si rivelavano le qualità che restarono pressoché costanti nello scrittore: un vivacissimo e sfrenato patriottismo; la ricercatezza linguistica; uno stile convulso, baroccheggiante, pur con venature classicistiche; una predilezione per le tinte cupe e macabre che lo avvicinarono al romanzo nero inglese. Acceso democratico, fondò nel 1829 il giornale «Indicatore livornese» e si impegnò nei moti risorgimentali, subendo a più riprese arresti e condanne: durante i mesi di prigionia a Portoferraio scrisse le Note autobiografiche(pubblicate postume, 1899) e portò quasi a termine l’Assedio di Firenze, uno dei suoi romanzi storici di maggiore successo. A questo periodo della sua vita risale anche La serpicina, una riuscita satira della giustizia umana e della vita forense che fu pubblicata tra gli Scritti(1847). Nel 1848-49 fu tra i protagonisti della rivoluzione in Toscana: nel febbraio 1849, fuggito Leopoldo II, costituì un governo provvisorio con Giuseppe Montanelli e Giuseppe Mazzoni e il mese successivo fu eletto capo del potere esecutivo, esercitando di fatto una dittatura personale. Al ritorno del granduca fu processato e condannato a 15 anni di prigionia e, durante la sua detenzione nel carcere delle Murate a Firenze, scrisse Apologia della vita politica di F.D.G. scritta da lui medesimo(1851), una lunga autodifesa fortemente polemica verso i moderati e il sistema giudiziario toscano. La pena gli fu successivamente commutata nell’esilio in Corsica, da dove fuggì nel 1859 per raggiungere Genova. Qui soggiornò fino al 1862. Fu eletto nel 1860 deputato nel primo Parlamento nazionale, dove sedette per circa dieci anni, sempre schierato tra i banchi dell’opposizione contro le forze moderate. Nell’ultimo periodo della sua vita, mentre si distaccava dal dibattito politico, Guerrazzi mantenne intensa la sua produzione letteraria con il romanzo Il buco nel muro(1862), la sua opera artisticamente più notevole, L’assedio di Roma(1863-65) e Il secolo che muore(pubblicato postumo per intero nel 1885), continuazione poco riuscita del romanzo del 1862. Tra i suoi romanzi storici, per i quali divenne popolare tra i contemporanei, si ricordano anche Veronica CyboIsabella Orsini, entrambi compresi nella citata raccolta degli ScrittiBeatrice Cenci(1853) e Pasquale Paoli(1860), dedicato a Garibaldi.

Fonte: Treccani

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 

 
Clarice Pierini Borella di Pisa, chiamata a prestare per tre mesi il generoso servizio di assistenza ai militari italiani feriti, che sarebbero stati trasportati dalla Libia in patria. La dama pisana precedette di poco la partenza di un contingente maschile, il tenente medico Luigi Bertini e i militi Cesare Angiolini, Cesare Bruschi, Raimondo Ferrigni, Aurelio Gianni, Oreste Liporatti e Antonio Scarpellini.

Salita sulla nave ospedale Menfi con il secondo turno e rimasta anche nel terzo, su precisa richiesta della marchesa Guiccioli, Clarice Pierini Borella tenne un diario dei suoi tre mesi di missione che costituì una preziosa testimonianza non solo della capacità professionale delle infermiere, ma anche della sensibilità umana sua personale e di quella delle sorelle, ma in particolare la loro rappresentante pisana, espressero verso quei disgraziati che venivano sottoposte alle loro cure.
 
Il 10 gennaio del 1912, rientrarono i militi pisani della Croce Rossa da Tripoli con il treno da Firenze, accolti da una folla i cittadini, dal loro presidente Bocciardo e dal segretario Vaccaneo, dall’onorevole Queirolo e da rappresentanze della Fratellanza militare e dei reduci d’Africa, dalla Banda dei Minori corrigendi, prima che si formasse un corteo, diretto dalla Barriera Vittorio Emanuele alla piazza Garibaldi.

Clarice Pierini Borella, che poteva fregiarsi ormai del distintivo che lo Stato Maggiore della Regia Marina aveva deciso di assegnare al personale imbarcato per servire sulle Navi Ospedale, fu poi invitata dal Comitato di Volterra, ormai tra i più attivi della provincia e non solo, a tenere una conferenza, corredata da un filmato, sulla guerra di Libia, presso il Teatro Flacco della città etrusca, in occasione della Festa del fiore che doveva servire anche a rilanciare il sostegno economico alla Croce Rossa. Per parte loro, le Dame pisane organizzavano nei giorni del natale, in sintonia con quanto facevano le sorelle di altre città, una vendita di distintivi patriottici, il “trifoglio” d’Italia, in metallo smaltato con foglioline dei tre colori nazionali. Alla raccolta di fondi contribuirono anche gli studenti con le rappresentazioni teatrali.
 
Dal 26 maggio 1915 al 1925 ha assunto l'ncarico di Ispettrice provinciale delle II.VV.
 
Onorificenze e decorazioni
1912 Medaglia d'argento concessa dal Ministro della Regia Marina.
1919 Attestato di nenemerenza da parte del Corpo D'Armata di Firenze.
Medaglia d'argento al Merito C.R.I.
Attestato al Merito della C.R.I.
 
 
Bibliografia
Clarice Pierini Borella, Tre mesi come infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana sulla nave “Melfi”. Diario di bordo, Pisa, Mariotti, 1912
Cfr. Alberto Galazzetti-Filippo Lombardi, La Croce Rossa Italiana nella guerra di Libia, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 753
Barbara Baccarini, La strutturazione dei soci e le componenti femminili della Croce Rossa Italiana, in Costantino Cipolla-Paolo Vanni (a cura), Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, I, Saggi, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 435.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 14 gennaio 1912.
«Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», 24-31 dicembre 1911. 55
 

Fonte: Storia della Croce Rossa in Toscana dalla nascita al 1914 I studi

Ricerca storica: Roberto Marchetti 

 

 

 

 

Siluet uomo Siluet uomo a Emilio Bianchi  Barduzzi Domenico 1 Siluet    
Giosafatte Baroni  On. Gen. Francesco Villani  On. prof. avv. Emilio Bianchi Prof. Cav. Barduzzi Domenico  Sorella Clarice Pierini Borella    
             
             
             
             
Antonio Cesaris Demel c  Giuseppe Tusini 3  merelli livio Pardi Francesco 1 Livia Gereschi Marassini Alberto 1   
Prof. Dott. Antonio Cesaris-Demel   Gr. Uff. Prof. Tusini Giuseppe  Dott. Livio Merelli Prof. Pardi Francesco  Sorella Livia Gereschi  Prof. Marrassini Alberto  
             
Rossi Vincenzo 1 Letizia Da Cascina           
 Prof. Rossi Vincenzo  Sorella Letizia da Cascina              
             

 

 " Nessuno muore sulla terra finchè vive nel cuore di chi resta"

 

 

Ricerca storica: Roberto Marchetti